Manifestazione di neofascisti negli anni 50.
Il fascismo e la voglia di morte
Umberto Eco
Ogni tanto accade di
dover spiegare a qualcuno o a noi stessi che cosa sia il fascismo. E
ci si accorge che è categoria molto sfuggente: non è solo violenza,
perché ci sono state violenze di vari colori; non è solo uno stato
corporativo, perché ci sono corporativismi non fascisti: non è solo
dittatura, nazionalismo, bellicismo, vizi comuni ad altre ideologie.
Talché si rischia in fin dei conti sovente di definire come
"fascismo" l'ideologia degli altri. Ma c'è una componente
dalla quale è riconoscibile il fascismo allo stato puro, dovunque si
manifesti, sapendo con assoluta sicurezza che da quelle premesse non
potrà venire che "il" fascismo: ed è il culto della
morte.
Nessun movimento politico
e ideologico si è mai così decisamente identificato con la
necrofilia eletta a rituale e a ragion di vita. Molta gente muore per
le proprie idee, molta altra gente fa morire gli altri, per ideali o
per interesse, ma quando la morte non viene considerata un mezzo per
ottenere qualcos'altro bensì un valore in sé, allora abbiamo il
germe del fascismo e dovremo chiamare fascismo ciò che si fa agente
di questa promozione.
Dico la morte come valore
da affermare per se stesso. Non dico la morte per cui vive il
filosofo, il quale sa che sullo sfondo di questa necessità, e
tramite la sua acccttazione, prendono senso gli altri valori; non
dico la morte dell'uomo di fede, il quale non rinnega la propria
mortalità e la giudica provvidenziale e benefica perché attraverso
di essa arriverà a un'altra vita. Dico la morte sentita come
"urgente" perché è gioia, verità, giustizia,
purificazione, orgoglio, sia che venga data ad altri sia che venga
realizzata su di sé.
Ortega y Gasset ricordava
che i Celtiberi erano l'unico popolo dell'antichità che adorasse la
morte. Non dirò che i Celtiberi fossero archeologicamente fascisti,
dico che fu in Spagna che apparve durante la guerra civile il grido
"Viva la muerte!". Il fascismo primitivo ed eroico
portò la morte sulla camicia e sul fez e nel colore stesso delle sue
divise. Volle andare incontro alla morte con un fiore in bocca, parlò
di sorella morte con accenti non francescani, se ne fregò della
brutta morte (non credo che Matteotti, Rosselli o Salvo D'Acquisto se
ne fregassero della morte bruttissima che fecero).
E se mi dite che molte
tradizioni religiose hanno elaborato rituali funebri in cui il senso
della penitenza veniva fortemente inquinato dal gusto della
necrofilia, diremo allora, in piena tranquillità, che anche là si
annidavano i germi di un fascismo possibile, come nelle celebrazioni
dell'olocausto e del karakiri della tradizione militaristica
giapponese. Amare necrofilicamente la morte significa dire che è
bello riceverla e rischiarla, e che ancor più bello e santo è
distribuirla. Che solo la morte paga, meglio se quella altrui, ma al
limite anche la propria, purché vissuta con sprezzo.
L'amore della morte (che
domina anche le pratiche dei drogati) fa sì che appaia bello "buttar
via" la propria vita. Per amare la morte bisogna profondamente
odiare la vita (ci sono invece martiri e suicidi che muoiono senza
odiare la vita, anzi, per eccesso d'amore). Amare la morte significa
credere in fondo al cuore che essa risolva molte cose, e meglio.
Questo odore di morte,
questo puteolente bisogno di morte, si sente oggi in Italia. Se
questo voleva il terrorismo (nel suo animo profondamente,
ancestralmente squadrista) l'ha avuto. Ha chiamato a raccolta
pulsioni profonde, fascismi variamente mascherati, ignoti anche a chi
li celava repressi nell'inconscio. Li ha fatti ribollire nel ventre a
persone altrimenti miti e nobilissime, che per un attimo hanno ceduto
al richiamo delle Madri oscure, e hanno dimenticato che anche
Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto e crivellato di
pallottole, forse era giustizia, ma non era bene.
Lettori di Beccaria,
hanno parlato come Lovecraft. Forse dovremmo difenderli anche da se
stessi, perché non è questo che vogliono, non è questa l'alleanza
che cercavano, né la soluzione. Le madri col bambino in braccio che
firmavano a Bologna, il tassista che mi dice "al muro, al muro,
e addebitiamo le munizioni alla famiglia!", ragionano come il
ragazzo di Prima linea che crede che la morte di Tobagi valga come
appello, richiamo, monito, manifesto.
Le responsabilità penali
sono certo diverse, ma in tutti gioca la persuasione che la morte
anziché una necessità che arriva da sola, e per la quale bisogna
vivere, sia una pratica di purificazione da produrre in anticipio
sulla natura. E che la commini lo Stato o una banda armata, è sempre
morte, sporca perché crede di essere purificatrice e perché in
qualche modo dà soddisfazione. Invece la morte buona, e cioè quella
naturale, è quella che non dà piacere a nessuno, né a chi muore né
a chi resta, quella per la quale nessuno possa dire "ci
voleva!".
Ho discusso con alcuni
ragazzi che, spinti da amor di vita, sono andati a tirare uova marce
contro i firmatari per la pena di morte. Marcio contro marcio, non
paga. Formate lunghe e cupe processioni per la città, gli ho
consigliato, con cappucci neri, e ceri, e grandi cartelli in cui si
vedano i volti dei fucilati della Comune, le schiene dei fucilati di
Villarbasse, le teste mozzate dal capolavoro del dottor Guillotin, la
faccia di chi nella camera a gas aspetta che la pastiglia cada nella
vaschetta dell'acido per formare il vapore tossico. E i bambini
impalati dal voivoda Dracula, e le ragazze streghe sul rogo, e poi
Moro, Bachelet, Tobagi, Alessandrini, e qualche ebreo.
Fate una grande sagra
della morte nelle nostre città: date alla gente l'odore della morte,
il sapore della morte, l'impressione tattile del liquame che esce
dalle narici e dalle orecchie di un corpo in decomposizione, fate
sentire lo schifo della morte provocata ad arte in nome di una
qualsiasi giustizia. Siate sgradevoli, fate vomitare le donne
incinte, costringete la gente a fare le corna, a toccarsi i
testicoli, a rientrare in casa come se ci fosse il coprifuoco. Solo
per un giorno, in modo che il paese si accorga che sta prendendo
gusto alla morte e ricordi cos'è la morte, e tutti si chiedano se
non stiamo diventando pazzi. Poi smettete anche voi, perché a
giocare troppo con l'immagine della morte ci si prende gusto.
UMBERTO ECO
La Repubblica, 14
febbraio 1981
Nessun commento:
Posta un commento