Ignorato dai più, il genocidio del popolo armeno è diventato ora, grazie alle parole del Papa, un fatto di attualità. Noi ne avevamo già parlato ( http://cesim-marineo.blogspot.it/2014/11/il-massacro-degli-armeni.html ) Oggi riprendiamo da un sito molto interessante una intervista della scrittrice italo-armena Antonia Arslan che spiega come le donne furono davvero “l'anello forte” (per usare la bella espressione di Nuto Revelli) di un popolo che si voleva condannare all'estinzione.
Antonia Arslan
Le donne
nel genocidio armeno
Intervista di Marta
Rovagna
La scrittrice italiana di
origine armena, autrice de La masseria delle allodole, racconta
lo sterminio del proprio popolo e la resistenza eroica di quante
hanno salvato, oltre a se stesse, anche i propri figli e la propria
cultura
Scrittrice e saggista
italiana di origine armena Antonia Arslan, nata a Padova nel 1938, è
laureata in archeologia ed è stata professore di Letteratura
italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. È
autrice di saggi sulla narrativa popolare e d’appendice (Dame,
droga e galline. Il romanzo popolare italiano tra Ottocento e
Novecento, Unicopli) e sulla galassia delle scrittrici italiane
(Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana tra ’800 e
’900, Guerini e Associati).
Attraverso l’opera del
poeta armeno Daniel Varujan, del quale ha tradotto le raccolte II
canto del pane e Mari di grano, ha dato voce alla sua
identità armena. Ha curato un libretto divulgativo sul genocidio
armeno (Metz Yeghèrn, Il genocidio degli Armeni di Claude
Mutafian) e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti
rifugiatisi in Italia (Hushèr. La memoria. Voci italiane di
sopravvissuti armeni).
Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, La masseria delle allodole (Rizzoli), dove ripercorre le memorie della sua famiglia: i racconti del nonno, sopravvissuto al genocidio, intessono il testo. Il libro ha vinto il Premio Stresa per la narrativa e il Premio Campiello ed è stato trasposto al cinema dai fratelli Taviani. La strada di Smirne (Rizzoli), sèguito del libro precedente, è del 2009. La sua ultima opera è Il libro di Mush (Skira Editore).
In questa intervista
Antonia Arslan ripercorre per noi il genocidio armeno soffermandosi
in particolare sul ruolo delle donne nel primo grande sterminio del
secolo scorso.
Perché parlare oggi
del genocidio armeno, e quale specificità ha avuto in
relazione alle donne?
Parlare del genocidio
armeno è importante non solo perché è avvenuto cento anni fa –
il prossimo anno infatti se ne celebra il centenario – e perché i
sopravvissuti, testimoni oculari dello sterminio, sono tutti morti,
ma anche per il ruolo che le donne hanno avuto in questa storia: sono
loro che hanno combattuto per conservare e preservare il proprio
passato e le proprie radici, lottando per la salvezza dei propri
figli piccoli ma anche per conservare un libro importante, le
ricette, le storie e le leggende armene.
Quello che il genocidio
ha distrutto in Anatolia è stata la cultura del popolo armeno: oggi
in Turchia non esistono comunità armene se non una piccolissima
realtà ad Istanbul, ma non esistono neanche chiese o edifici armeni,
tutto è stato raso al suolo. Lo sterminio armeno ha avuto la
definizione di genocidio non a caso: non si è trattato di “semplici”
massacri, deportazioni o uccisioni, ma di uno sterminio sistematico
attuato dal governo turco contro un’intera minoranza per motivi
religiosi, etnici e politici. L’obiettivo finale, raggiunto dal
governo dei Giovani Turchi nel 1915 e negli anni seguenti, è stato
totalmente realizzato.
Quali sono le
peculiarità di quel primo genocidio del ’900?
L’aspetto più
specifico del genocidio armeno è il differente destino degli uomini
e delle donne: i primi, protettori delle loro famiglie, vengono
uccisi subito, gettandoli in burroni o nel fiume Eufrate, o finiti a
colpi d’ascia. Le donne invece vengono avviate a una deportazione
che le porta verso l’estinzione, il nulla. Il loro coraggio e la
loro determinazione, insieme agli aiuti di qualche uomo giusto turco
le salva, ma in generale si può dire che la resilienza delle donne
armene è stata straordinaria. Hanno dovuto compiere scelte
straordinariamente difficili: quali figli tenere e quali abbandonare
lungo la marcia, se cederli ai turchi e ai curdi che venivano a
rapirli, se suicidarsi o meno, come difendere le proprie figlie
adolescenti dagli stupri, in che modo dare da mangiare ai propri cari
senza morire del tutto di fame e di sete. Nei progetti degli
organizzatori del genocidio le donne non sono state eliminate come
gli uomini perché, secondo la cultura ottomana, non contavano nulla:
la donna, nella cultura ottomana, è inferiore e non ha un’anima,
per questo può essere usata e piegata a proprio piacimento.
Possiamo inquadrare in
questo contesto il problema dei matrimoni obbligati e degli armeni
convertiti forzatamente?
Sì, le donne in
moltissimi casi sono entrate negli harem dei turchi, perché la donna
armena era considerata “pregiata”. In un matrimonio misto il
sangue maschile predomina, ma oggi recentissimi studi stimano che
circa un terzo dei turchi del 2014 siano di sangue misto armeno,
greco e siriano: le tre minoranze che hanno subito persecuzioni e
stermini nel corso dello scorso secolo.
Che destino avevano
invece i bambini rapiti dalle marce di deportazione degli armeni?
Le testimonianze raccolte
in questo senso sono molto diverse: i bambini piccoli – giacché
quelli sopra i 12 anni, considerati in grado di procreare, erano
destinati ad una morte immediata – venivano condotti dai predoni
nelle loro case per diventare piccoli schiavi, ma ci sono moltissimi
racconti di sopravvissuti che spiegano come il loro trattamento nelle
case turche sia stato buono, spesso venivano accolti come figli:
circoncisi, ribattezzati con nomi arabi, obbligati a parlare turco e
a dimenticare la propria lingua ma comunque amati, coccolati e
accuditi.
Per questo molti
sopravvissuti hanno poi vissuto l’atroce dilemma se riacquistare la
propria identità armena, fuggendo dalle case dei turchi e
rifugiandosi negli orfanotrofi aperti subito dopo il genocidio, o
rimanere dai propri genitori adottivi turchi, continuando a parlare
turco e a vivere come musulmani. L’assimilazione e la distruzione
della cultura di appartenenza dei bambini era comunque una priorità
assoluta.
Che ne è stato delle
donne e dei bambini dopo il genocidio?
Le donne e i bambini sono
stati salvati e soccorsi in tutti i modi, ma sempre con un destino
diverso per femmine e maschi. Un’efficacissima campagna stampa
all’epoca raccolse fondi importanti e in tutto il territorio turco
furono ro creati dei veri e propri ‘centri di raccolta’ per gli
armeni sopravvissuti. Le bambine venivano raccolte, spesso da
missionari stranieri, ma molte, si stima circa 80mila, rimasero nelle
case turche, spose forzate in giovanissima età ai parenti dei loro
rapitori. I maschi invece venivano salvati e riscattati da una
fondazione americana, che pagava denaro sonante per liberarli dalla
schiavitù.
Le bambine cambiavano
nome e religione, non potevano più recitare le loro preghierine
infantili, si dovevano uniformare alla famiglie dei turchi. Le
prescelte erano quelle più in fiore, la loro vita era stata
risparmiata durante le marce, ma era diventata una cosa completamente
diversa, frutto di un totale sradicamento dalla loro cultura e
identità. Certo anche per i maschietti la vita non è stata facile:
i sopravvissuti, tutti sotto i 12 anni, erano stati testimoni oculari
di massacri, stupri di massa, donne incinte sventrate con la spada
scommettendo se il feto fosse maschio o femmina. Per i più piccoli,
quelli che all’epoca avevano 3-4 anni, successe una cosa ancora più
strana: pur avendo vissuto i massacri, una volta condotti nelle case
dei turchi persero completamente memoria della propria identità.
Come si è trasmessa
la cultura armena nonostante il genocidio? Chi sono le donne armene
della diaspora?
Non era previsto dagli
organizzatori del genocidio ma le donne hanno salvato la cultura
armena anatolica, e nella diaspora hanno portato con loro un’identità
unica di quei luoghi, con usanze e costumi che non hanno uguali nelle
comunità armene già stanziate in altre zone del mondo.
Intraprendenti e generose, le donne armene avevano fiducia in loro
stesse: gestivano denaro e lavoravano, vivendo in parità assoluta
con l’uomo. Questo ha permesso loro di dimostrare, durante le
deportazioni, un ingegno e una capacità di sopravvivenza per niente
scontata agli inizi del secolo. La donna armena in diaspora è
propositiva, autonoma, ha un mestiere, sa fare, ha creato dal nulla
un lavoro di cui vivere.
Chi erano le donne
armene cento anni fa?
Una ricca bibliografia,
scoperta in anni recentissimi, ci permette di dire con certezza che
negli anni ’10 la donna armena era alfabetizzata, faceva parte di
una minoranza colta e ci teneva, vivendo in un ambiente a maggioranza
ostile, ad avere un’istruzione: tutti dovevano sapere leggere e
scrivere. Certo, era diverso il livello di studio, ma tutti i bambini
armeni, maschi e femmine, arrivavano a concludere il ciclo degli
studi della scuola elementare. Il loro livello culturale, nel momento
della tragedia, le ha aiutate a capire la necessità di salvare i
libri antichi di casa, poiché gli armeni possedevano una quantità
di manoscritti miniati medievali. Le donne capiscono che non devono
salvare solo i figli, ma se possono anche un libro o due.
Chi è la donna armena
oggi?
La donna armena di oggi
vive in vari luoghi ed è diversa a secondo del paese in cui vive. Le
donne armene della diaspora sono diverse a secondo del paese in cui
si sono insediati i loro nonni: io ad esempio sono nata e cresciuta
in Italia, qui ho studiato e la mia cultura è italiana, ho anche
insegnato letteratura italiana, così come gli armeni francesi sono
francesi e così via. Tuttavia mi sento anche completamente amena: mi
sento al cento per cento italiana e al cento per cento armena.
Quali conseguenze del
negazionismo si sono pagate in passato e quali si pagano ancora oggi?
Negare il genocidio ha
portato nell’immediato a una mancanza di tutela dei diritti delle
vittime sopravvissute, che hanno continuato ad essere perseguitate
nel corso degli anni successivi. Gli armeni che ancora oggi vivono in
Turchia sono mimetizzati e muti, e cercano di resistere come possono.
Il frutto più terribile del negazionismo oggi è una grandissima
difficoltà per i discendenti dei sopravvissuti a elaborare questo
enorme lutto, e il silenzio che copre tutto non permette alla ferita
di rimarginarsi. Il negazionismo riguarda tutti perché le persone
che hanno una coscienza vedono che è una posizione di comodo, un
modo di chiudere gli occhi sulla realtà.
Ormai la realtà del
genocidio armena è dimostrata, quasi tutti gli storici, tranne i
pochissimi al soldo del governo turco, la attestano. Abbiamo
tantissimi documenti, report stranieri, fotografie, un documentario,
siamo pieni di testimonianze. Quando vado nelle scuole dico sempre
agli studenti “Non pensate che voi non potreste mai fare una cosa
del genere, in ogni uomo c’è il massimo del bene e il massimo del
male. Passo dopo passo si arriva a questi inferni, con una cecità
volontaria, che si accomoda alla follia di un governo. Forse a Monaco
di Baviera non sapevano quello che avveniva a Dachau? Il negazionista
passivo, il più pericoloso, è colui che fa in modo che nulla, anche
quando gli è vicino, lo riguardi.
http://www.donneuropa.it/
Nessun commento:
Posta un commento