A Mendrisio, nel
Canton Ticino, una mostra di quadri, manifesti e documenti dell’epoca
in cui quei luoghi erano rifugio di anarchici perseguitati dai
governi d'Europa.
Andrea Colombo
Dall’utopia all’arte: la rivincita degli anarchici cacciati
Addio
Lugano bella. Quando gli anarchici cantavano quel motivo che
ricordava la loro cacciata dalla Svizzera, bollati come sovversivi
e pericolosi bombaroli, mai avrebbero pensato che, un secolo dopo,
a loro sarebbe stata dedicata, proprio in terra elvetica, una
mostra celebrativa. «Anarchia tra storia e arte», al Museo
d’Arte di Mendrisio (fino al 5 luglio, a cura di Simone
Soldini), raccoglie oltre 100 opere tra capolavori d’arte,
manifesti, documenti d’epoca, filmati. Una ricca rassegna che
copre l’arco temporale tra fine ’800 e inizi ’900 in cui il
credo libertario incendiò l’Europa.
Il percorso espositivo evoca l’intensa atmosfera di un periodo inquieto e conflittuale, testimoniando il profondo interesse da parte degli artisti per l’utopia rivoluzionaria. Ne furono toccati tutti, realisti e simbolisti, impressionisti e divisionisti, neogotici e futuristi, e molti di loro si proclamavano di fede anarchica. Così troviamo gli stili più diversi: dal Ritratto di Proudhon di Gustave Courbet ai grandi studi divisionisti per Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, da L’oratore dello sciopero di Emilio Longoni fino all’astrattismo dada di Hans Arp.
Tutti accomunati dal
sogno utopico di un futuro senza Stato, né Chiese, né
ingiustizia sociale. Le immagini di pensatori, contadini, operai,
sindacalisti, miserabili e vagabondi rappresentano il popolo
variegato dell’anarchia. Contorni netti, con i poveri e gli
ideologi dalla parte dei buoni e i banchieri, i giudici e i preti
nelle veci degli oppressori. Una divisione manichea che diventerà
più sfumata e meno retorica con l’avvento delle avanguardie.
La scelta del
Canton Ticino per la mostra non è casuale. Qui infatti trovarono
rifugio i maggiori esponenti del movimento anarchico
internazionale, dal soggiorno di Michail Bakunin fra il 1872 e il
1876 al passaggio di Elisée Reclus, Carlo Cafiero, Andrea Costa,
Errico Malatesta, Eric Mühsam, solo per citarne alcuni. Ma una
delle esperienze più significative fu sicuramente quella della
comunità alternativa che si insediò alla fine dell’800 sul
monte Monescia sopra Ascona. Ribattezzata Monte Verità, sarà per
un paio di decenni un polo d’attrazione per artisti, teosofi,
anime ribelli e scrittori controcorrente provenienti da tutta
Europa.
A fondarla furono
Henry Oedenkoven, figlio di un industriale belga, la pianista Ida
Hofmann dal Montenegro, i fratelli transilvani Gusto e Karl
Gräser, l’uno pittore l’altro poeta. I componenti della
comune agricola andavano vestiti con lunghe tuniche bianche, le
barbe e i capelli immancabilmente lunghi.
Precursori degli hippy
degli anni Sessanta, fedeli a una mentalità autarchica,
ecologista e anticapitalistica, non disdegnavano il naturismo:
vivevano in spartane capanne di legno rilassandosi con l’euritmia
e bagni di sole integrali, esponendo i loro corpi a luce, aria,
sole e acqua. Vegetariani rigorosi, adoravano la natura,
predicandone la purezza e interpretandola simbolicamente come
l’opera d’arte definitiva. «Il prato di Parsifal» e «La
rocca di Valchiria» erano nomi simbolici, dal chiaro sapore
wagneriano, che davano ai diversi luoghi del monte.
Ben presto questa singolare avventura comunitaria divenne un punto di riferimento per molte personalità di rilievo: la frequentarono, tra gli altri, il principe utopista Pëtr Kropotkin, l’artista Hans Arp, lo scrittore D.H. Lawrence, la danzatrice Isadora Duncan. Il Monte Verità, l’ambizione di costruire un mondo nuovo in armonia con la natura, è solo una dei mille volti dell’anarchia presenti nella mostra di Mendrisio, un itinerario iconografico della controversa storia di una filosofia che ha fatto della ribellione l’unica legge da osservare.
La Stampa – 5 aprile
2015
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