Pound e Pasolini, 1967
Nel 2014, in una plaquette edita dal Comune e
dall’Università di Bari, sono usciti gli atti del seminario Il nulla lucente, tenutosi il 18
giugno 2012 nel capoluogo pugliese su ideazione di Claudio Vino, che così ha
voluto ricordare la figlia Ilaria, prematuramente scomparsa nel 2010.
Tema del convegno “Il rapporto tra Pasolini e Ezra Pound”, sul quale, insieme
al Rettore Corrado Petrocelli, hanno riflettuto Giuseppe Bonifacino,
Pasquale Voza, Francesco Tateo, Mario Sechi, Alvaro Spagnesi, Domenico
Notarangelo e Angela Felice. Di quest’ultima pubblichiamo qui di seguito le
considerazioni, che si soffermano in particolare sul significato della nota
intervista televisiva del 1967 che mise in contatto Pasolini con Pound,
protagonisti di un incontro che è non solo la testimonianza di una strabiliante
sintonia tra poeti agli antipodi, ma anche un memorabile esempio di televisione
alternativa.
“Stringo un patto con te, Ezra Pound”.
In margine
all’intervista televisiva di Pier Paolo Pasolini Un’ora con Ezra
Pound.
di Angela Felice
di Angela Felice
In un
intervento, rapido e folgorante, apparso sul “Tempo” del 5 aprile 1974,
Pasolini si confrontava per un finale sguardo critico con l’opera e il pensiero
di Ezra Pound, in particolare con i Cantos CX-CXVII, traendone spunto
anche per una definizione, a suo modo consuntiva, del fascismo del poeta
americano e delle ragioni che ne avevano determinato la scelta.
L’argomento era delicato e incandescente, dentro la stagione italiana degli anni Settanta infiammata dalle contrapposizioni ideologiche. Ma per Pasolini si trattava di conciliare e giustificare l’ammirazione per le “incantevoli ecolalie” del poeta (1), fonti anche di lettura “inebriante” (2) (così scriveva in un altro appunto del 1973, sempre apparso sul “Tempo” e di poco precedente) , con il rigetto per l’orientamento dell’ideologo ammiratore di Mussolini, e infatti stigmatizzato altrove e in più occasioni come artefice di un delirio farneticante, quando non francamente segnato dalla follia.
Poteva dunque fiorire il prodigio linguistico di una poesia coltissima, vertiginosa e contaminata di oralità anche sul terreno avversario della destra reazionaria?
Fin qui il dilemma. Ma Pasolini trovò una risposta, mettendo in campo la sfida del suo pensiero, sempre inappartenente e liberamente disorganico. Si spinse anzi fino a rintracciare provocatori ma mai equivoci fili di parentela tra sé e quella sorta di monumentale e ingombrante padre statunitense.
Pound, dunque, aveva potuto lanciare la sua tumultuosa “chiacchiera al cosmo” in conseguenza e in virtù di una traumatica scoperta, che, molto in anticipo sull’Europa, l’aveva reso “inadattabile a questo mondo” e isolato in un altrove di esule visionario. “Con abnorme precocità”, il Pound cantore dei pionieri di frontiera aveva compreso cioè l’inconciliabilità tra il mondo contadino e il mondo industriale, quasi fossero competitori di una sorta di lotta epocale per la sopravvivenza. “L’esistenza dell’uno – commentava Pasolini- vuole dire la morte (la scomparsa) dell’altro”. Quella tragedia storica, intuita da Pound già sul suolo degli States ma verificata poi in Europa, poteva dunque con legittimità fondante porsi alla radice, più o meno consapevole, di un pensiero e di una scrittura proiettati all’indietro e tesi alla venerazione di un mitico passato rurale delle origini, da contrapporre a contraggenio al presente borghese e alle sue devastanti derive capitalistiche e plutocratiche. Ed era dunque su quei presupposti che si poteva collocare l’adesione poundiana al fascismo, equivocato in motore di “progresso conservatore”, malinteso e, nella sostanza, retorico e di facciata, il quale doveva esercitare “uno strano fascino nell’astoricistico Pound, che lo accepiva in modo del tutto aberrante, ma non senza logica” (3).
Diverso, come è ovvio, e altrettanto inequivocabile, era invece il discorso su quanti si erano poi voluti appropriare dell’autore e della sua opera, per ragioni interessate di furbizia tattica. Ai suoi vampiri di destra, per Pasolini, questo Pound continuava ad opporre lo schermo della sua “altissima cultura”, capace di preservarlo “da una strumentalizzazione sfacciata”. “Il serpentaccio fascista – scriveva con immagine biblica- non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale” (4).
Dato dunque a Cesare quel che è di Cesare e piantati i paletti utili a marcare i necessari confini, a metà degli anni Settanta Pasolini regolò i conti con la complessità controversa di quel colosso della poesia del ‘900, finendo per sovrapporvi la propria fisionomia di intellettuale corsaro e per leggervi in filigrana il motivo condiviso di una comune polemica radicale contro la modernità, responsabile di sviluppo senza progresso e, negli esiti ultimi, di un (irreversibile?) genocidio culturale.
In questa convergenza, Pasolini corroborava con altre esplorazioni e superava la settorialità della sua precedente attenzione critica al Pound poeta, di cui infatti aveva isolato la sola esperienza letteraria, e non sempre con afflato di empatia. E’ dalla fine degli anni Cinquanta, con l’esperienza di “Officina”, che il nome di Pound occhieggia tra le parole del Pasolini studioso e recensore in sporadiche e brevi incursioni, che genericamente lo ghettizzano nei recinti del neo-sperimentalismo e della neo-avanguardia, con sottesa sottovalutazione. Apertamente limitativo, in un inedito del 1965, è anche il dantismo di Pound, in quanto fabbro da “laboratorio” che tende a sottoporre il significato di ogni opera di riferimento a “violentazioni addirittura sadiche”: nel caso del poeta della Divina Commedia, poi, con un “uso del tutto arbitrario ed estetizzante”. Insomma, con finale stilettata, per il Pasolini ancora refrattario o non del tutto disponibile, il Dante di Pound è “esattamente come un ebreo nelle mani di Hitler” (5).
L’argomento era delicato e incandescente, dentro la stagione italiana degli anni Settanta infiammata dalle contrapposizioni ideologiche. Ma per Pasolini si trattava di conciliare e giustificare l’ammirazione per le “incantevoli ecolalie” del poeta (1), fonti anche di lettura “inebriante” (2) (così scriveva in un altro appunto del 1973, sempre apparso sul “Tempo” e di poco precedente) , con il rigetto per l’orientamento dell’ideologo ammiratore di Mussolini, e infatti stigmatizzato altrove e in più occasioni come artefice di un delirio farneticante, quando non francamente segnato dalla follia.
Poteva dunque fiorire il prodigio linguistico di una poesia coltissima, vertiginosa e contaminata di oralità anche sul terreno avversario della destra reazionaria?
Fin qui il dilemma. Ma Pasolini trovò una risposta, mettendo in campo la sfida del suo pensiero, sempre inappartenente e liberamente disorganico. Si spinse anzi fino a rintracciare provocatori ma mai equivoci fili di parentela tra sé e quella sorta di monumentale e ingombrante padre statunitense.
Pound, dunque, aveva potuto lanciare la sua tumultuosa “chiacchiera al cosmo” in conseguenza e in virtù di una traumatica scoperta, che, molto in anticipo sull’Europa, l’aveva reso “inadattabile a questo mondo” e isolato in un altrove di esule visionario. “Con abnorme precocità”, il Pound cantore dei pionieri di frontiera aveva compreso cioè l’inconciliabilità tra il mondo contadino e il mondo industriale, quasi fossero competitori di una sorta di lotta epocale per la sopravvivenza. “L’esistenza dell’uno – commentava Pasolini- vuole dire la morte (la scomparsa) dell’altro”. Quella tragedia storica, intuita da Pound già sul suolo degli States ma verificata poi in Europa, poteva dunque con legittimità fondante porsi alla radice, più o meno consapevole, di un pensiero e di una scrittura proiettati all’indietro e tesi alla venerazione di un mitico passato rurale delle origini, da contrapporre a contraggenio al presente borghese e alle sue devastanti derive capitalistiche e plutocratiche. Ed era dunque su quei presupposti che si poteva collocare l’adesione poundiana al fascismo, equivocato in motore di “progresso conservatore”, malinteso e, nella sostanza, retorico e di facciata, il quale doveva esercitare “uno strano fascino nell’astoricistico Pound, che lo accepiva in modo del tutto aberrante, ma non senza logica” (3).
Diverso, come è ovvio, e altrettanto inequivocabile, era invece il discorso su quanti si erano poi voluti appropriare dell’autore e della sua opera, per ragioni interessate di furbizia tattica. Ai suoi vampiri di destra, per Pasolini, questo Pound continuava ad opporre lo schermo della sua “altissima cultura”, capace di preservarlo “da una strumentalizzazione sfacciata”. “Il serpentaccio fascista – scriveva con immagine biblica- non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale” (4).
Dato dunque a Cesare quel che è di Cesare e piantati i paletti utili a marcare i necessari confini, a metà degli anni Settanta Pasolini regolò i conti con la complessità controversa di quel colosso della poesia del ‘900, finendo per sovrapporvi la propria fisionomia di intellettuale corsaro e per leggervi in filigrana il motivo condiviso di una comune polemica radicale contro la modernità, responsabile di sviluppo senza progresso e, negli esiti ultimi, di un (irreversibile?) genocidio culturale.
In questa convergenza, Pasolini corroborava con altre esplorazioni e superava la settorialità della sua precedente attenzione critica al Pound poeta, di cui infatti aveva isolato la sola esperienza letteraria, e non sempre con afflato di empatia. E’ dalla fine degli anni Cinquanta, con l’esperienza di “Officina”, che il nome di Pound occhieggia tra le parole del Pasolini studioso e recensore in sporadiche e brevi incursioni, che genericamente lo ghettizzano nei recinti del neo-sperimentalismo e della neo-avanguardia, con sottesa sottovalutazione. Apertamente limitativo, in un inedito del 1965, è anche il dantismo di Pound, in quanto fabbro da “laboratorio” che tende a sottoporre il significato di ogni opera di riferimento a “violentazioni addirittura sadiche”: nel caso del poeta della Divina Commedia, poi, con un “uso del tutto arbitrario ed estetizzante”. Insomma, con finale stilettata, per il Pasolini ancora refrattario o non del tutto disponibile, il Dante di Pound è “esattamente come un ebreo nelle mani di Hitler” (5).
Il complesso
itinerario pasoliniano di avvicinamento a Pound, in vista di un possibile
dialogo, è dunque lungo, conosce una sua evoluzione interna, si articola
in un ventaglio sfrangiato di passaggi concettuali e di riverberi testuali. Ma
piace ipotizzare che un momento decisivo di svolta sia stato fornito
dall’incontro diretto tra i due che avvenne a Venezia sul finire dell’ottobre
1967, con l’occasione delle riprese per una intervista televisiva del più
giovane poeta, allora di 45 anni, al vecchio e stanco patriarca statunitense,
all’epoca di 82 anni.
L’idea era venuta al regista-scrittore Vanni Ronsisvalle, che da parecchi mesi di quell’anno stava lavorando ad un documentario-focus su Pound, ormai autorecluso in un emblematico silenzio nelle sue due residenze italiane, in Liguria e, appunto, nella città lagunare, in Calle Querina. Si era trattato di vincere anche la preconcetta ostilità di Olga Rudge, timorosa che il marito Ezra potesse essere messo sulla graticola o fosse mandato al macello ideologico dal poeta italiano, ormai regista affermato e soprattutto così difforme per scelte di vita e di visione politica.
Nulla di tutto questo, invece, si verificò e l’incontro-scontro tra il diavolo e l’acqua santa, paventato alla vigilia, si incanalò piuttosto nei morbidi binari di un gentlemen agreement improntato al reciproco rispetto e ad una insospettabile empatia umana.
Lo stesso Pasolini, avvertito dell’incontro solo tre giorni prima e pur di non mancare a quella occasione a suo modo storica, accettò anche le condizioni-capestro poste dallo stesso Pound, che aveva preteso la visione di domande scritte, a cui poi egli avrebbe risposto in seconda battuta. Così appunto avvenne, nei retroscena di una conversazione i cui dettagli sono stati rivelati e chiariti da Ronsisvalle nel 1985. Pasolini, arrivato con l’amato treno da Roma, si presentò nella abitazione di Pound con le sue quattro paginette di appunti, che –ricorda Ronsisvalle- “recitò disciplinatamente” (6), seduto alla destra del vecchio poeta e intento con intermittenza a schizzare qualche ritratto di lui su dei fogli bianchi. In seguito, Pound fornì con calma le sue ponderate risposte, poi cucite al montaggio nel documentario finale di un’ora che, con la voce pastosa di Arnoldo Foà a leggere i versi poundiani, fu trasmesso dalla Rai nel giugno 1968 all’interno della rubrica “Incontri” di Gastone Favero. Tra l’altro, fu un esempio memorabile di televisione alternativa, poi non più imitata nel degradato intrattenimento permanente del piccolo schermo, di lì a poco commerciale.
Fu Pasolini, in apertura, a dichiarare la resa delle armi e la ricerca del dialogo, personalizzando per questo il primo verso della poesia poundiana Patto e sostituendo il nome dello stesso Ezra a quello originario di Walt Whitman.
L’idea era venuta al regista-scrittore Vanni Ronsisvalle, che da parecchi mesi di quell’anno stava lavorando ad un documentario-focus su Pound, ormai autorecluso in un emblematico silenzio nelle sue due residenze italiane, in Liguria e, appunto, nella città lagunare, in Calle Querina. Si era trattato di vincere anche la preconcetta ostilità di Olga Rudge, timorosa che il marito Ezra potesse essere messo sulla graticola o fosse mandato al macello ideologico dal poeta italiano, ormai regista affermato e soprattutto così difforme per scelte di vita e di visione politica.
Nulla di tutto questo, invece, si verificò e l’incontro-scontro tra il diavolo e l’acqua santa, paventato alla vigilia, si incanalò piuttosto nei morbidi binari di un gentlemen agreement improntato al reciproco rispetto e ad una insospettabile empatia umana.
Lo stesso Pasolini, avvertito dell’incontro solo tre giorni prima e pur di non mancare a quella occasione a suo modo storica, accettò anche le condizioni-capestro poste dallo stesso Pound, che aveva preteso la visione di domande scritte, a cui poi egli avrebbe risposto in seconda battuta. Così appunto avvenne, nei retroscena di una conversazione i cui dettagli sono stati rivelati e chiariti da Ronsisvalle nel 1985. Pasolini, arrivato con l’amato treno da Roma, si presentò nella abitazione di Pound con le sue quattro paginette di appunti, che –ricorda Ronsisvalle- “recitò disciplinatamente” (6), seduto alla destra del vecchio poeta e intento con intermittenza a schizzare qualche ritratto di lui su dei fogli bianchi. In seguito, Pound fornì con calma le sue ponderate risposte, poi cucite al montaggio nel documentario finale di un’ora che, con la voce pastosa di Arnoldo Foà a leggere i versi poundiani, fu trasmesso dalla Rai nel giugno 1968 all’interno della rubrica “Incontri” di Gastone Favero. Tra l’altro, fu un esempio memorabile di televisione alternativa, poi non più imitata nel degradato intrattenimento permanente del piccolo schermo, di lì a poco commerciale.
Fu Pasolini, in apertura, a dichiarare la resa delle armi e la ricerca del dialogo, personalizzando per questo il primo verso della poesia poundiana Patto e sostituendo il nome dello stesso Ezra a quello originario di Walt Whitman.
Stringo un
patto con te, Walt Whitman:
ti ho detestato ormai per troppo tempo.
Vengo a te come un figlio cresciuto
che ha avuto un padre dalla testa dura;
or sono abbastanza grande per fare amicizia.
Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,
ora è tempo d’intagliarlo.
Abbiamo un solo fusto e una sola radice:
ristabiliamo commercio tra noi. (7)
ti ho detestato ormai per troppo tempo.
Vengo a te come un figlio cresciuto
che ha avuto un padre dalla testa dura;
or sono abbastanza grande per fare amicizia.
Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,
ora è tempo d’intagliarlo.
Abbiamo un solo fusto e una sola radice:
ristabiliamo commercio tra noi. (7)
Appunto,
“stringo un patto con te, Ezra Pound”. Con onestà d’approccio, era tanto un
marcare le differenze e un dichiarare le ragioni di antiche avversioni, quanto
un ribadire la volontà di superare le pregiudiziali diffidenze e un
aprirsi alla sincerità del confronto autentico.
La risposta di Pound non si fece attendere, quanto alla condivisione di un analogo spirito di disponibilità: “Bene … -disse- Amici, allora … Pax tibi”.
Avviata da queste premesse -di ascolto assorto, per il vecchio patriarca; di riverenza mite e visibilmente emozionata, per il più giovane sodale in versi-, non scattò dunque alcuna polemica e anzi lo scambio di parole e sguardi si dipanò nei modi pacati dell’incontro pensoso, come per un passaggio di testimone ideale tra generazioni poetiche pur diversamente atteggiate, da un vecchio di severo aspetto, quasi biblico, ad un erede contemporaneo e, lui pure, non conforme. Singolari, talora, furono anche le consonanze, sollecitate dagli spunti di riflessione suggeriti da Pasolini o dalla sua lettura di poesie poundiane, come nel caso di alcuni versi da Testamento spirituale, e dell’invito in essi contenuto a deporre la “vanità” e a considerare l’”amore” come sola e vera eredità umana.
Solidali nel deprecare il saccheggio del paesaggio italiano, impegnati a indagare i valori della poesia e la sua moderna condizione da neo-sperimentalismo linguistico, ovattati in una sorta di rarefatto ed esclusivo cenacolo, i due non mancarono di divergere su una parola carica di senso, usata da Pasolini per instaurare un collegamento logico tra lo stato delle “nazioni industrializzate” e la conseguenza del loro essere “quindi culturalmente avanzate”. Proprio su quel “quindi” Pound ebbe da eccepire, quasi anticipando l’imminente pensiero apocalittico di Pasolini che di lì a poco infatti un “quindi” con quel senso non lo avrebbe usato più (8). Evidentemente, per i rapporti con Pound, quell’intervista rappresentò un giro di boa e forse Pasolini vi investì anche una sua personale ricerca del padre, recuperato in quei tardi anni Sessanta anche nella riconciliazione con il padre reale e nel bilancio retrospettivo di un tormentato rapporto personale e familiare.
Ed è coincidenza, solo apparentemente singolare, quanto avvenne otto anni più tardi, il 21 ottobre 1975, con l’ultimo discorso pubblico di Pasolini pronunciato al Liceo Palmieri di Lecce e noto come Volgar’eloquio, che tra l’altro è espressione poundiana. Lì il rapporto padre-figlio, fondatore-erede appare invertito e ora è Pasolini a sentirsi e autodefinirsi in versi un “anziano” che consegna ad un “ragazzo” un suo decalogo vagamente testamentario di dieci comandamenti rifatti e mutuati dai Cantos.
“Hic desinit cantus”, in un congedo definitivo nel nome di un Pound quasi nume tutelare e perfino con elogio depistante della “Destra sublime”. Ma è una Destra da proiezione mentale, utopia “completamente idealizzata” (9) di forza vitale del Passato, su cui la destra storicamente reale non ha punti possibili di contatto, né diritto alcuno di appannaggio.
La risposta di Pound non si fece attendere, quanto alla condivisione di un analogo spirito di disponibilità: “Bene … -disse- Amici, allora … Pax tibi”.
Avviata da queste premesse -di ascolto assorto, per il vecchio patriarca; di riverenza mite e visibilmente emozionata, per il più giovane sodale in versi-, non scattò dunque alcuna polemica e anzi lo scambio di parole e sguardi si dipanò nei modi pacati dell’incontro pensoso, come per un passaggio di testimone ideale tra generazioni poetiche pur diversamente atteggiate, da un vecchio di severo aspetto, quasi biblico, ad un erede contemporaneo e, lui pure, non conforme. Singolari, talora, furono anche le consonanze, sollecitate dagli spunti di riflessione suggeriti da Pasolini o dalla sua lettura di poesie poundiane, come nel caso di alcuni versi da Testamento spirituale, e dell’invito in essi contenuto a deporre la “vanità” e a considerare l’”amore” come sola e vera eredità umana.
Solidali nel deprecare il saccheggio del paesaggio italiano, impegnati a indagare i valori della poesia e la sua moderna condizione da neo-sperimentalismo linguistico, ovattati in una sorta di rarefatto ed esclusivo cenacolo, i due non mancarono di divergere su una parola carica di senso, usata da Pasolini per instaurare un collegamento logico tra lo stato delle “nazioni industrializzate” e la conseguenza del loro essere “quindi culturalmente avanzate”. Proprio su quel “quindi” Pound ebbe da eccepire, quasi anticipando l’imminente pensiero apocalittico di Pasolini che di lì a poco infatti un “quindi” con quel senso non lo avrebbe usato più (8). Evidentemente, per i rapporti con Pound, quell’intervista rappresentò un giro di boa e forse Pasolini vi investì anche una sua personale ricerca del padre, recuperato in quei tardi anni Sessanta anche nella riconciliazione con il padre reale e nel bilancio retrospettivo di un tormentato rapporto personale e familiare.
Ed è coincidenza, solo apparentemente singolare, quanto avvenne otto anni più tardi, il 21 ottobre 1975, con l’ultimo discorso pubblico di Pasolini pronunciato al Liceo Palmieri di Lecce e noto come Volgar’eloquio, che tra l’altro è espressione poundiana. Lì il rapporto padre-figlio, fondatore-erede appare invertito e ora è Pasolini a sentirsi e autodefinirsi in versi un “anziano” che consegna ad un “ragazzo” un suo decalogo vagamente testamentario di dieci comandamenti rifatti e mutuati dai Cantos.
“Hic desinit cantus”, in un congedo definitivo nel nome di un Pound quasi nume tutelare e perfino con elogio depistante della “Destra sublime”. Ma è una Destra da proiezione mentale, utopia “completamente idealizzata” (9) di forza vitale del Passato, su cui la destra storicamente reale non ha punti possibili di contatto, né diritto alcuno di appannaggio.
Angela Felice
Note
(1)- P.P. Pasolini, Dieci libri di poesia da Carducci a Franco Cavallo, in “Tempo”, 5 aprile 1974, poi in P.P.Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Einaudi, Torino 1979, ora in P.P.Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol.II, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 2029.
(1)- P.P. Pasolini, Dieci libri di poesia da Carducci a Franco Cavallo, in “Tempo”, 5 aprile 1974, poi in P.P.Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Einaudi, Torino 1979, ora in P.P.Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol.II, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 2029.
(2)-
P.P. Pasolini, I custodi interessati della follia di Dino Campana e Ezra
Pound, in “Tempo”, 16 dicembre 1973, poi in P.P.Pasolini, Descrizioni di
descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Einaudi, Torino 1979, ora in
P.P.Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, Meridiani
Mondadori, Milano 1999, p. 1963.
(3)- P.P.
Pasolini, Dieci libri di poesia da Carducci a Franco Cavallo, cit., pp.
2029-2030.
(4)- P.P.
Pasolini, I custodi interessati della follia di Dino Campana e Ezra Pound,
cit., p.1964.
(5)- P.P.
Pasolini, Inedito, 1965, in P.P.Pasolini, Saggi sulla letteratura e
sull’arte, vol.I, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 1647.
(6)- V.
Ronsisvalle, Pasolini e Pound, in “Galleria”, n. XXV, gennaio-agosto
1985, p. 171.
(7) – La
poesia Patto di Pound è in E. Pound, Poesie scelte, trad. di A.
Rizzardi, Mondadori, Milano 1960, p. 73.
(8)- Cfr. la
scheda di L. De Giusti a “Un’ora con Ezra Pound” di Vanni Ronsisvalle,
in A. Felice (a cura di), Pasolini e televisione, Marsilio/ Centro
Studi Pasolini Casarsa, Venezia 2011, pp. 173-177.
(9)- P.P.
Pasolini, Volgar’eloquio, postumo, 1975 (a cura di G. C. Ferretti,
Editori Riuniti, Roma 1987), ora in P.P.Pasolini, Saggi sulla letteratura e
sull’arte, vol. II, cit., pp. 2826-2827.
Testo ripreso da http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/
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