Sull'ultimo numero della rivista Mosaico di pace (aprile 2015) è stato pubblicato un articolo dell'amico Rosario Giuè che riproponiamo con piacere.
Liberazione al tempo di Francesco
di Rosario Giuè
Le ferite
Che ne è della teologia della liberazione, di quel movimento che nacque in America Latina più di 40 anni fa? Dopo i colpi subiti ad opera della Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Joseph Ratzinger con l’appoggio di Giovanni Paolo II; dopo la condanna a più riprese di diversi teologi e teologhe; dopo essere stata al centro di campagne di discredito (l’accusa di essere un movimento “comunista” o in odore di eresia); dopo tutto ciò quel movimento di liberazione, è solo la mia sensazione, ha rallentato il suo percorso. Quel movimento di rinnovamento ecclesiale e sociale per decenni è stato taciuto nell’agenda ufficiale della Chiesa cattolica. I padri di quella teologia sono stati dispersi (il caso di Leonardo Boff è quello più noto). Quelle persone e quel movimento sono passati “per la grande tribolazione”. Quella teologia che nasceva nel momento in cui i teologi e le teologhe (ma anche diversi vescovi) vivevano fisicamente in mezzo al popolo, a partire dai problemi reali, ha perduto certo molta visibilità. Nel tempo i vescovi nominati dal Vaticano non hanno amato sostenere quell’esperienza di liberazione. È prevalso l’interesse non tanto per la liberazione umana integrale quanto per la difesa della “verità”, del dogma. Da Puebla in poi (discorso di apertura di Giovanni Paolo II 1979) è stato sempre più così.
Il metodo
Tuttavia il metodo della teologia della liberazione: quella necessità di partire dalla realtà, specialmente dai bisogni degli ultimi, degli esclusi e delle vittime, delle donne, come un fiume sotterraneo ha alimentato la spiritualità e la vita di piccole comunità, di parroci, di vescovi sparsi nelle periferie del mondo, anche del Primo mondo. Dalla teologia della liberazione molti di noi hanno imparato, se non era già chiaro, che qualsiasi teologia (e la vita ecclesiale) non è mai neutrale. Ogni teologia è un tentativo di comprensione della fede a partire da un punto di vista. Ormai per molti parroci, catechisti e numerosi vescovi è sempre più chiaro, anche grazie proprio alla teologia della liberazione e ai suoi testimoni (da Oscar Romero al catechista ucciso), che l’esperienza del Signore si fa nell’impegno storico, avendo la consapevolezza della necessità di avere uno sguardo critico sui condizionamenti economici, politici e socio-culturali della vita e della riflessione della stessa comunità cristiana. Se, dunque, il Vangelo è vissuto a partire dagli scartati della terra, da chi non ha speranze, allora sarà possibile poterlo accogliere ancora con gioia, come quando lo predicò e testimoniò Gesù.
Dal movimento di liberazione latinoamericano abbiamo ri-scoperto, perciò, che il problema della Chiesa è quello del come parlare di Dio in una situazione di sofferenza e di esclusione. Abbiamo potuto riapprendere, come Chiesa, che la domanda non è principalmente o soltanto come annunciare Dio all’uomo emancipato nel mondo ricco, ma come annunciarlo come Padre in un mondo non-umano. Ormai in molte comunità, forse minoritarie ma molto vigili, grazie a quel movimento di liberazione nato in America Latina è sempre più chiaro che di Gesù non si può fare un profeta accomodante e del cristianesimo una religione della consolazione buona per zittire chi si sente escluso o oppresso.
Oggi in definitiva non è tanto importante se ancora la teologia della liberazione sia ben visibile o organizzata come un tempo. Ciò che è importante è che il suo tesoro, il suo metodo, non sia andato perduto nella vita della Chiesa cattolica. Oggi quel tesoro è lasciato nelle nostre mani seppure in un mutato contesto culturale, ecclesiale e politico. Anzi, oggi, in modo sorprendente, quel tesoro, quel metodo, di fatto, è stato tolto dal nascondimento e messo al centro della vita della Chiesa e della società ad opera di Francesco, il vescovo di Roma.
A partire dagli scartati
Non si tratta di arruolare il Papa nelle fila della teologia della liberazione. Sarebbe meschino. Ma è un dato di fatto che egli è accusato e criticato da diversi ambienti solo per il fatto di mettere continuamente al centro i poveri, gli immigrati, le vittime, gli scartati della terra (“Mi chiamano comunista”, ha detto il Papa). Quel discorso di liberazione latinoamericano, che per decenni era stato vilipeso e mortificato, ora è tornato al centro dell’agenda della vita ecclesiale, dentro il Vaticano. Lo Spirito, questo io credo, in Francesco ci sorprende (è grazia) come quasi non riuscivamo più ad avere la forza di sperare. Il Papa venuto “dalla fine del mondo” esercita il suo ministero a partire dalle periferie esistenziali e sociali, mettendo le periferie nell’agenda del cammino della Chiesa cattolica. La sua esortazione apostolica Evangelii gaudium va in questa direzione. I suoi gesti e le sue parole vanno in questa direzione. Il luogo della Chiesa indicato da Francesco, quasi in ogni omelia e quasi in ogni discorso, è fra gli “immondi”, fra i lebbrosi della società e della Chiesa. Nei suoi gesti è tracciata la via di una “Chiesa povera e dei poveri”, come già desiderava Giovanni XXIII. Una Chiesa che guarda a chi sta fuori dall’accampamento, che rilegge il Vangelo a patire dai bisogni di chi sta fuori dalle logiche dei costruttori delle città.
Lo stile del viaggio di Francesco a Lampedusa (estate 2014) è un segno emblematico di questo diverso ministero bergogliano. Egli ha abbracciato gli immigrati e denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza” come la causa strutturale della disumanizzazione con la sua logica di morte in fondo al mare Mediterraneo. L’avere nominato cardinale il vescovo di Agrigento e vescovi di sedi non cardinalizie è un altro gesto per sottolineare l’attenzione per le periferie territoriali ed esistenziali, senza creare sacre caste. Il suo poco diplomatico discorso per l’Expo di Milano (7 febbraio 2015) sul cibo cosa è stato se non un discorso a partire dagli “scartati” della terra? Francesco in quell’occasione ha gridato: “C’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo (…) sono davanti ai nostri occhi”. E ha aggiunto: “Ci sono pochi temi sui quali si sfoderano tanti sofismi come su quello della fame” ma non si “tocca mai la realtà”. Perciò ha richiamato la necessità di “risolvere le cause strutturali della povertà”, tenendo presente che, certo, “la radice di tutti i mali è l’iniquità”: Ma Francesco ha denunciato anche che la diseguaglianza e “un’economia che uccide” è senz’altro “il frutto della legge di competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole. Attenzione: qui non siamo di fronte solo alla logica dello sfruttamento, ma a quella dello scarto; infatti gli esclusi non sono solo esclusi o sfruttati, ma rifiuti, sono avanzi”.
Se Leonardo Boff si è alzato per difendere Francesco (Corriere della sera) dagli attacchi di certi settori conservatori della Chiesa e della società vuol dire che egli si riconosce pienamente nel cammino intrapreso dalla Chiesa di Francesco.
Non è il caso di esaltare papa Francesco, non bisogna cadere in una nuova papolatria magari di sapore progressista! Piuttosto si tratta per noi di non lasciarlo solo, tra i lupi, lupi che temono che la liberazione per tutti e per tutte diventi realtà.
Camminare con Francesco
Vedremo come il progetto di Francesco si potrà dispiegare, anche in riforme strutturali per troppo tempo già rinviate. C’è il rischio, tuttavia, che nelle periferie e nella base della Chiesa si rimanga solo a guardare, da spettatori. C’è il rischio che ci si limiti a domandarsi: dove vorrà o potrà arrivare il Papa? Dove lo faranno arrivare? C’è la tentazione di far prevalere, anche tra diversi vescovi, il silenzio opportunista e timoroso: “Se ora mi espongo, quando girerà il vento cosa farò?”. Ma il “camminare” non può essere solo un compito del Papa. Chi vede come una “grazia” la primavera rappresentata da Francesco, chi sente l’urgenza di una svolta di liberazione per essere più credibili, non dovrà nel proprio territorio promuovere impulsi nuovi nel segno del “camminare”, del riformare? Non è questo il nostro compito nelle comunità cristiane?
Strillo: Chi vede come una “grazia” la primavera rappresentata da Francesco, chi sente l’urgenza di una svolta di liberazione per essere più credibili, non dovrà nel proprio territorio promuovere impulsi nuovi nel segno del “camminare”, del riformare? Non è questo il nostro compito nelle comunità cristiane.
Rosario Giuè
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