Dalla copertina del libro “Guardati dalla mia fame” Edizioni Nottetempo, 2014
“Guardati dalla mia fame” di Milena Agus e Luciana Castellina
Recensione a cura di Tonino Sitzia
Andria 7 marzo 1946, tardo pomeriggio. Nella piazza del municipio una folla di braccianti, quelli “che a ogni alba si vendono al mercato umano nella piazza accanto, piazza Catúma, stretta fra i palazzi dei Ceci e degli Spagnoletti, famiglie da tempo riparate a Roma e a Napoli”, manifestano per il lavoro e per il pane. Il clima, già da qualche giorno, a segnare il perenne conflitto tra agrari e braccianti, una costante della questione meridionale, è esplosivo: a partire dalla giornata del 5 marzo fino al 7 si contano morti e feriti, quattro civili e tre carabinieri. Ma è questo il clima che si respira nella rossa Andria, e nelle Puglie, ormai da tre anni, in quella che alcuni storici hanno definito la “guerra civile” delle Puglie dal 1945 al 1948. Alle ore 17.30 del 7 marzo è previsto il comizio di Giuseppe Di Vittorio, il segretario generale della CGIL, venuto appositamente da Roma, alla vigilia dell’8 marzo Festa della Donna. Solo lui, anch’egli ex bracciante di Cerignola e assai ascoltato da quelle parti, potrebbe forse calmare gli animi, offrire una prospettiva a chi ha da sempre fame di terra e giustizia. Ma il comizio, quel giorno, non ci sarebbe stato, rinviato al giorno successivo, 8 marzo. All’improvviso uno o due spari si sentono distintamente nella piazza. Tutti hanno la percezione che siano partiti dal palazzo dei Porro, un’antica casata di Andria, situato proprio di fronte al municipio. Mentre la gran parte dei manifestanti si disperde, altri, un centinaio circa, sfondano l’antico portone del palazzo, salgono le scale per cercare chi ha sparato. Si tratta dell’ennesima provocazione degli agrari? Ma com’è possibile che a sparare siano state le “anziane e bigotte” sorelle Porro, tutte chiesa, rosari, cucito e opere pie? Nella testa dei manifestanti comunque anch’esse sono agrari, dunque conniventi. Le Porro intanto, Luisa (66 anni), Vincenza (58), Stefania (55), Carolina (54), con la loro servetta Angela, e accompagnate da Francesco Cirielli, funzionario di banca loro inquilino, tentano la fuga da un’uscita secondaria, ma vengono bloccate dai manifestanti. Si vocifera che abbiano delle bombe nascoste tra i loro lunghi vestiti neri. Comincia il massacro: Carolina e Luisa vengono uccise, dei loro corpi fatto scempio. Vincenzina e Stefania gravemente ferite. Luciana Castellina a pag.121 “È la fame che si fa violenza e chiede vendetta. La chiede ai Porro perché sono parte della classe che li ha sfiniti, non importa più se a sparare siano state proprio loro o altri come loro. Sono colpevoli per storia. Per classe. A infierire sono soprattutto le donne, donne contro donne di diverso destino, a dividerle la fame, subita o imposta…” Fin qui la storia, che magistralmente la Castellina inquadra nel tormentato periodo che va dall’8 settembre ’43, il 10 i Savoia e Badoglio si sarebbero trasferiti a Brindisi, fino al 1948, in una regione crocevia di reduci, di militari sbandati dai diversi fronti, laboratorio per tutte le forze politiche del dopoguerra, in particolare per il PCI di Togliatti, alle prese con le due linee, quella insurrezionale e quella legalitaria, sia in risposta alla questione sociale che a quella istituzionale.
Il libro, con altrettanta maestria, grazie a Milena Agus, indaga sulla vita, sui sentimenti, reconditi e talvolta inconfessati, o manifesti solo nei sogni, delle sorelle Porro, attraverso la voce di un’amica che, nella finzione narrativa, parla e racconta di loro. Siamo in pieno terreno letterario, laddove la Storia, seppure necessaria, non può arrivare. La Agus si è servita, lo dice nella nota introduttiva, dei documenti dell’epoca, ma soprattutto della sua immaginazione e aggiungo della sua sensibilità di donna. Milena Agus si muove a proprio agio sul terreno del privato femminile. Come in altri suo libri si nota la simpatia e l’empatia per i personaggi. Le sorelle Porro certo erano ignare delle lotte tra patrizi e plebei, di Menenio Agrippa, delle jacqueries, dei servi della gleba, o dei fatti di Bronte raccontati da Verga, ma quando mai non avevano mai pensato di essere abbracciate da un uomo? La loro frugalità le impediva perfino di godere della indubbia ricchezza, il loro linguaggio monotono temeva l’iperbole e il cambio di tono, e se l’amica diceva “Mi si sono intrecciate le budella” (pag.20) loro abbassavano lo sguardo. Certo la loro fu “un’esistenza color grigio topo, sempre uguale, mai uno strappo alla regola”. Eppure la loro tragedia, che in quegli anni varcò le cronache regionali, e ancora oggi è in parte sconosciuta, meritava di essere raccontata. Intanto mentre altri e nuovi affamati lavorano nei campi delle Puglie fanno riflettere le parole del grande poeta palestinese Mahmud Darwish, che Milena Agus cita nell’epigrafe ad inizio del libro:
Scrivi in cima alla prima pagina:/ Non odio la gente,/ né la invado./ Ma se mi affamano/ la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo./ Guardati…/ Guardati/ Dalla mia fame/ E dalla mia ira»Tonino Sitzia
Da http://www.equilibrielmas.it/
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