Claudio Pavone, autore
di un libro fondamentale per comprendere la complessità di ciò che
fu la Resistenza, pubblica ora i suoi ricordi di quel periodo. Ne
pubblichiamo una pagina dedicata ai fatti di Piazza Loreto.
Guido Crainz
La memoria contro la retorica
Si leggono in molti modi queste intense e antiretoriche memorie della Resistenza di Claudio Pavone, lo storico che più ce l’ha fatta comprendere. In primo luogo come memorie, appunto, “racconto” di un giovane poco più che ventenne pienamente immerso nella crisi italiana del 1943-45: dalla vigilia del 25 luglio, segnata da un «desiderio di agire contro il fascismo che non trovava sbocco», alle gioiose e confuse manifestazioni di Roma per la caduta di Mussolini («Qualcuno gridò: “Andiamo a rendere omaggio a Ciceruacchio” (…) tutti si fermarono per un momento davanti alla statua di quel patriota risorgimentale»); dallo sdegno per le responsabilità del re e di Badoglio nello sfascio dell’8 settembre alla scelta della Resistenza; dall’incauto e sfortunatissimo episodio che ne provoca l’arresto sino alla detenzione a Regina Coeli e poi a Castelfranco Emilia, e infine alla attività clandestina a Milano.
Qui incrocia Mussolini e
il corteo di gerarchi e camicie nere che si dirigono al Lirico per
l’ultimo comizio del Duce, nel dileguarsi dei passanti: «Una vera
nemesi storica di quando la gente accorreva in massa a Piazza
Venezia» (lo rivedrà solo dopo la morte, a Piazzale Loreto: «Quella
folla non era degna della tragicità di quello spettacolo»).
È anche una “traversata”, La mia Resistenza: in primo luogo intellettuale, a partire dalle discussioni con gli amici con cui «condividevamo i primi sentimenti antifascisti e le scoperte culturali». Condivisione particolarmente intensa con Giuseppe Lopresti, ucciso poi alle Fosse Ardeatine, e portata sino alla messa in discussione dei fondamenti della propria formazione («ci affaticavamo attorno all’aggrovigliato nodo del rapporto fra religione, socialismo e libertà »): nella borsa con il “materiale sovversivo” che ne provoca l’arresto ha anche Etica e politica di Croce e i Salmi.
È al tempo stesso una
traversata politica, questo libro, e Pavone si definisce un
«azionista postumo »: non aderì allora al Partito d’Azione
perché all’inizio aveva conosciuto solo l’ala moderata,
«apparsami molto elitaria, gente troppo simile a me (…) in quella
situazione straordinaria volevo cambiare me stesso ». Il socialismo
«era più ricco di suggestioni » e al tempo stesso lontano dalla
rigidità comunista: aderisce così al partito socialista e diventa
aiutante di Eugenio Colorni, della cui formazione europea avverte
tutti gli stimoli.
La traversata si popola poi delle molte e differenti persone che conosce o ritrova a Regina Coeli, dal comunista dissidente Nestore Tursi a Ruggero Zangrandi o a Franco Antonicelli. E sino al gruppo degli azionisti, con cui ha ora i maggiori rapporti, da Carlo Muscetta a Manlio Rossi-Doria. O a Leone Ginzburg, prelevato in carcere dai tedeschi: «Qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave, era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via».
Vi è poi il carcere di Castelfranco Emilia, con le esecuzioni che intravede e quelle di cui ha notizia, con nuove angosce e nuove conoscenze, sino alla scarcerazione dell’agosto del 1944 connessa all’obbligo di presentarsi all’esercito repubblichino. Obbligo cui si sottrae vivendo a Milano una nuova attività clandestina e aderendo (all’interno di «un percorso contorto e abbastanza atipico») a un piccolo gruppo anomalo, il Partito italiano del lavoro, cui dedica parole appassionate e al tempo stesso critiche. Vengono poi la gioia della Liberazione, il ritorno a Roma e l’incontro con la madre: «Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi mi fu chiaro il senso del tempo trascorso». Iniziava la difficile risalita del dopoguerra.
Claudio Pavone
Piazzale Loreto
Andai a piazzale Loreto. Oggi non è facile separare l’impressione avuta allora da quelle indotte poi dal molto che si è scritto e discusso, anche da parte mia, su quel macabro spettacolo. La piazza era colma di gente di ogni ceto, ed era difficile comprendere cosa davvero albergasse in tutti quei petti. C’era nel fondo la soddisfazione della palese fine della guerra e del fascismo, ma su di essa si innestavano sentimenti che andavano dal ricordo dei cadaveri dei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati sul selciato proprio in quel piazzale alla soddisfazione di vedere puniti i colpevoli.
Dall’odio e dal disprezzo contro di essi fino a una sorta di festosità, di mera curiosità o addirittura di fatuità. Mi trovai accanto a una signora borghese, al braccio del marito, che diceva: «Però, che belle gambette aveva la Petacci!». Il mio moralismo e il mio estremismo rivoluzionario o presunto tale mi condussero a pensare che quella folla che non aveva saputo fare la rivoluzione non era degna della tragicità di quello spettacolo e che proprio questo gli dava un senso, oltre che macabro, riprovevole.
Non ho di quei giorni molti ricordi precisi, ma mi è rimasta nettissima nella memoria l’atmosfera generale ed esaltante di una città che ritrovava la gioia di vivere e la manifestava in mille modi, dall’andare in bicicletta al fare il bagno all’Idroscalo e al piacere di passare la notte camminando, discutendo e cantando in giro per la città, dove l’efficienza del comune di Milano aveva subito provveduto a riattivare l’illuminazione pubblica. Si ballava nelle piazze e nelle strade con un’allegria che rivelava la soddisfazione di potersi finalmente divertire.
Appariva naturale prendere una bicicletta incustodita e lasciarla incustodita una volta arrivati a destinazione: sembrava una forma di elementare comunismo. Colpiva l’aspetto assai poco marziale con cui i soldati americani giravano per la città. «Non sembrano soldati», diceva la gente, e qualcuno aggiungeva: «Che soddisfazione che abbiano battuto i tedeschi signori della guerra!».
Risorgeva l’attività
politica alla luce del sole e per quelli della mia generazione era
una entusiasmante novità. Andai al comizio di Pertini per il Primo
maggio presso l’Arena e, a parte il tono del discorso che mi parve
un po’ arcaico, era bello vedere tanta gente venuta di propria
volontà. Germogliavano le iniziative culturali, e la sede del
Politecnico di Vittorini in viale Tunisia stava diventando un centro
di richiamo e di scambio.
Noi del Pil, il Partito
italiano del Lavoro, stavamo discutendo dell’atteggiamento da
assumere nella nuova situazione quando arrivò la notizia che il Pil
di Romagna, la nostra base popolare proveniente prevalentemente
dall’Uli (Unione lavoratori italiani), era entrato nel partito
socialista per iniziativa di Giusto Tolloy, già di «Popolo e
Libertà» e considerato l’intellettuale guida del partito.
Rimanemmo sconcertati: tutta la linea di rimanere fuori dal Cln e dai
compromessi che lo contraddistinguevano veniva così sconfessata.
Alcuni lo ritennero un tradimento. (...)
Eravamo ormai arrivati ad
agosto ed io ero riuscito a ristabilire i contatti con mia madre e le
mie sorelle ancora a Torchiara ma in procinto di tornare a Roma. Con
Delfino Insolera, la cui famiglia era di nuovo a Roma, decidemmo di
tornare a nostra volta, anche come messaggeri del nostro verbo
politico. Ma il viaggio non era facile, dato lo stato delle
comunicazioni ferroviarie. La difficoltà fu risolta dal nostro
compagno Leone Krakmalnikov, figlio di aristocratici russi emigrati,
che avevano creato in Umbria una fiorente azienda agricola. Leone si
impadronì dell’automobile abbandonata da un grosso gerarca
fascista datosi alla fuga e la rimise in sesto.
Così una mattina
lasciammo Milano a bordo di una potente Alfa Romeo. A Castelfranco
Emilia andai a salutare i proprietari di una trattoria dalla quale
zio Cesare aveva ottenuto che ogni tanto mi venisse mandato in
carcere qualcosa da mangiare. Fui accolto e festeggiato con tutto il
grande cuore del- l’Emilia rossa. La sera arrivammo a Cesena dove
passammo la notte e avemmo un incontro pacato con gli ex compagni del
pil. A Rimini passammo il confine che divideva le province sotto
l’Amg e quelle già restituite all’amministrazione italiana.
Entravamo nell’Italia già liberata da un anno e più, ma per noi fu come un balzo indietro nel tempo. Di là c’erano i carabinieri con i gambali e le scalcinate divise che ci controllarono i documenti. A Narni, durante il viaggio da Roma a Castelfranco, la vista dei carabinieri ancora nella loro divisa mi aveva quasi dato la sensazione che il fascismo non avesse riconquistato proprio tutto. Dopo la Resistenza e le esaltanti giornate di Milano, la loro vista mi diede invece l’impressione di entrare in un paese un po’ fermo e alquanto ammuffito. A Perugia fummo ospitati nella signorile casa di campagna dei genitori di Leone, che a noi apparve sontuosa. cenammo in modo così ricco che, disavvezzo da tempo ai pasti abbondanti e succulenti, la notte mi sentii male.
La mattina dopo Delfino ed io ci avviammo verso Roma su una di quelle camionette che erano allora il principale mezzo di trasporto, urbano ed extraurbano. Io guardavo uomini e cose e cercavo di cogliervi i segni della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione. Arrivammo a Roma a metà del pomeriggio e la camionetta ci lasciò a piazzale Flaminio. Salii come un tempo sulla circolare nera. Nella mia casa di via Flavia, al quinto piano, l’ascensore ancora non funzionava e salii le scale carico dei miei fagotti. In casa c’era solo mia sorella Lidia, ma mia madre arrivò subito dopo. Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi, mi fu chiaro il senso del tempo trascorso.
La Repubblica – 17
aprile 2015
Claudio Pavone
La mia Resistenza
Donzelli, 2015
euro 16
Nessun commento:
Posta un commento