Dopo tante chiacchiere sulla "morte di dio" e sulla "secolarizzazione" le religioni tornano ad essere un mezzo di potere (instrumentum regni, si diceva una volta!)
Roberto Esposito
Perché Dio è tornato sulla scena
Dopo una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica.
La tradizionale tesi
della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata
avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di
fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo
Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione
tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre.
Senza voler assimilare
fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice
americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa
del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della
distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera
privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha
conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro,
ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti.
Da Habermas a Taylor, da
Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della
teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La
religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È
fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro
che scontata.
Come risulta dalla
Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende
in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è
stato causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre tra
cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le
attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della
religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti
di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga
superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello
degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e
secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i
superstiti.
Una risposta di carattere
dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara
Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la
religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da
Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani.
La sua tesi è che
inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità
attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio
divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze
innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno
giocato una funzione di aggregazione sociale. Successivamente, però,
esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione.
In questa lotta per la
sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse
specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a
divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della
originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale,
attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella
individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino.
E dunque, problema
risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto
riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è
sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale
distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere
ad una serie di dinamiche correlate.
Da un lato la
globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo
quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno
dei Paesi occidentali. Dall’altro il regime biopolitico in cui da
tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie,
rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano
non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la
sicurezza, l’ecologia – tutte contemporaneamente pubbliche e
private, individuali e collettive.
Da questo lato sembra
profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto,
perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di
senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di
supplenza. Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio
assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse
sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica
potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale.
Nel momento in cui si
afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito – si
veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da
Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) – la filosofia contemporanea
guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di
politica della teologia.
Repubblica 30.3.15
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