16 aprile 2015

SUL VITALIZIO PERCEPITO DAI PARLAMENTARI DECADUTI PER GRAVI REATI



Il caso dei parlamentari decaduti per reati gravi che continuano a percepire la “pensione”. Pur essendo la questione facile da risolvere, ci si è rivolti ai giuristi per renderla confusa e mantenere così ancora a lungo il vitalizio a ladri, corrotti e mafiosi.

Gustavo Zagrebelsky

 La politica cerca l’alibi dei giuristi per non dover decidere


Un caso da non prendere sottogamba. Le Camere si trovano a discutere se sia ragionevole che i parlamentari decaduti in conseguenza di condanna irrevocabile per reati di particolare gravità possano continuare a percepire il cosiddetto “vitalizio”; se, dunque, sia ragionevole sostenere, vita natural durante, coloro che dal Parlamento siano stati allontanati per una ragione di indegnità. “Indegnità” è parola della Costituzione, insieme a “disciplina e onore”.

Quando si è saputo che ciò tranquillamente accade, ai più (forse, salvo che ai diretti interessati) non è sembrato vero. Cosa da non credere. Così, si sono messe in moto iniziative interne alle Camere per rimuovere un’anomalia che sembra fatta apposta per giustificare e alimentare il già tanto diffuso pregiudizio anti-parlamentare che circola nel nostro Paese. Pareva facile. Invece no. Sono stati chiamati in causa i costituzionalisti e i loro “pareri pro veritate”, e ciò che sembrava chiaro è diventato oscuro.

Il senso comune pensa che, per risolvere una questione controversa ci si possa rivolgere al diritto per ricavare la risposta che mette tutti d’accordo. Qui, succede il contrario: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti al diritto per renderla confusa. I giuristi hanno espresso le loro verità e hanno sostenuto di tutto: che quei tali vitalizi sono intoccabili e vanno bene così come sono; che, devono o possono essere eliminati tout court; che li si deve sospendere solo per un certo numero d’anni; che li si può mantenere, ma se ne deve ridurre l’entità; che, infine, in ogni caso non sarebbe sufficiente una delibera parlamentare interna, occorrendo una legge.

Come giuristi, non stiamo facendo una bella figura e nella brutta figura stiamo trascinando l’oggetto della nostra professione, il diritto e la Costituzione. Se tutto è giuridicamente sostenibile, allora i nostri argomenti sono perfettamente inutili. Se tutto è sostenibile, allora: liberi tutti. Non si alimenta, così, l’idea corrente che i giuristi siano essenzialmente dei consulenti, e che il diritto, alla fine, non sia che un mezzo e, spesso, un mezzuccio?

Poiché chi scrive queste righe è anch’egli giurista e costituzionalista, gli sia lecito ricordare la reazione stizzita di Vittorio Emanuele III, al “parere pro veritate” di un famoso professore che aveva giustificato la legge che equiparava Mussolini al re, entrambi “Primi Marescialli dell’Impero”: “I professori di diritto costituzionale […] trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere” (R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936 1-940 , Torino, Einaudi, 1981, p. 33). Questo è il rischio dei giuristi quando le loro opinioni si offrono come merci sul banco d’un mercato, a disposizione degli acquirenti. Tra i marescialli e i vitalizi c’è una certa differenza, così come tra gli interessi di un dittatore e quelli di parlamentari decaduti. Ma la fertilità dei giuristi è ugualmente all’opera. Vediamoli, alcuni di questi argomenti.

Il primo: i vitalizi sarebbero pensioni; le pensioni sono “retribuzioni differite” che maturano nel corso del rapporto di lavoro e sono erogate a partire dal momento della messa a riposo; le retribuzioni non si possono toccare, in forza di diverse disposizioni costituzionali (l’art. 36, in particolare) che proteggono i diritti dei lavoratori, tra cui il diritto alla retribuzione, cioè del corrispettivo del rapporto di servizio.

Il ragionamento fila, ma la premessa non regge. Per i deputati e i senatori non si può parlare di “rapporto di servizio”. La loro attività come rappresentanti della Nazione non è in cambio di una “retribuzione”. È prevista una “indennità”, stabilita per legge (art. 69). Indennità e retribuzione sono cose diverse. Non ci si fa eleggere per guadagnarci qualcosa.

È giusto, però, che chi si dedica all’attività parlamentare possa farlo senza preoccupazioni economiche. Altrimenti, avremmo un Parlamento di redditieri. Il mandato parlamentare deve essere aperto a tutti. L’indennità serve a rendere “indenni” dalle ristrettezze economiche, ma non è retribuzione. Se così fosse, dovrebbe commisurarsi alla quantità e qualità del lavoro prestato in un “rapporto di lavoro”. Dunque, i principi del diritto del lavoro sono diversi da quelli del diritto parlamentare.

Secondo: la revoca dei vitalizi in conseguenza di condanne sarebbe una sanzione penale e, come tale, non potrebbe avere valore retroattivo. Ma, è facile rispondere che si avrebbe retroattività se si imponesse - il che non è - la restituzione delle rate del vitalizio riscosso in passato. Ciò di cui si discute è l’eliminazione per il futuro come conseguenza di una disciplina che introduce un nuovo requisito di accesso al beneficio.

Non si tratta d’una “revoca”, ma d’una “cessazione” per il futuro d’un beneficio che non ha nulla in comune con una sanzione. In realtà, gli argomenti che si spendono a proposito della pretesa retroattività sono un modo mascherato per introdurre un argomento di cui si ha ritegno a parlare, in casi come questo: i “diritti quesiti”. In sostanza: i parlamentari, quando hanno concorso per l’elezione, potevano fare affidamento su un particolarmente favorevole trattamento para-previdenziale. Perciò non lo potrebbe modificare in senso restrittivo. Ma, chi potrebbe sostenere, senza offendere l’onore dei nostri rappresentanti, che questa sia la ragione, o anche solo una ragione, dell’impegno politico parlamentare? E, se anche lo fosse per qualcuno particolarmente venale, dovrebbe essere protetta dal diritto?

Terzo: la disciplina della condizione giuridica dei parlamentari dovrebbe essere stabilita dalla legge, non da deliberazioni interne alle Camere. L’abitudine invalsa, quando scoppia uno scandalo (sui partiti, sugli appalti, sulla televisione, sulla prescrizione, ora sui vitalizi) è invocare “subito una legge”: parole al vento. Si ricorrerà anche ora a questa formula dell’ipocrisia?

Che sia necessaria una legge si potrebbe sostenere solo se la revoca del beneficio fosse – e non è una sanzione penale. Il vitalizio è un beneficio unilateralmente deciso da ognuno dei due rami del Parlamento. Oltretutto, la loro incompetenza a togliere proverebbe troppo. Sarebbe un argomento suicida. Togliere è l’altra faccia del dare. Se le Camere non potessero togliere, non avrebbero potuto nemmeno dare, e tutto il sistema degli attuali vitalizi crollerebbe, non solo per i parlamentari condannati, ma per tutti.

Riprendiamo da capo. I giuristi di mondo sanno motivare qualsiasi cosa. Ma, ci sono cose che ci si dovrebbe rifiutare di motivare. Quali? La ragionevolezza è l’àncora di salvezza del diritto, è la direttrice che serve a separare gli argomenti buoni da quelli cattivi. In assenza, il diritto perderebbe se stesso e diventerebbe fattore di disfacimento sociale. Altrimenti, dovremmo dare ragione al Bartolo delle Nozze di Figaro: “con un equivoco, con un sinonimo qualche garbuglio si troverà”.

Ora, è ragionevole che persone decadute per avere commesso reati e che non possono essere ricandidate per avere disonorato la carica, continuino ad appartenere alla cerchia dei protetti, alla stessa stregua di coloro che, invece, l’hanno onorata? Questa è la domanda che i cittadini comprendono, alla quale le Camere devono una risposta. Gli argomenti dei giuristi seguiranno.


La Repubblica – 15 aprile 2015

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