Il
caso dei parlamentari decaduti per reati gravi che continuano a
percepire la “pensione”. Pur essendo la questione facile da
risolvere, ci si è rivolti ai giuristi per renderla confusa e
mantenere così ancora a lungo il vitalizio a ladri, corrotti e
mafiosi.
Gustavo Zagrebelsky
La politica cerca l’alibi dei giuristi per non dover decidere
Un caso da non prendere sottogamba. Le Camere si trovano a discutere se sia ragionevole che i parlamentari decaduti in conseguenza di condanna irrevocabile per reati di particolare gravità possano continuare a percepire il cosiddetto “vitalizio”; se, dunque, sia ragionevole sostenere, vita natural durante, coloro che dal Parlamento siano stati allontanati per una ragione di indegnità. “Indegnità” è parola della Costituzione, insieme a “disciplina e onore”.
Quando si è saputo che ciò tranquillamente accade, ai più (forse, salvo che ai diretti interessati) non è sembrato vero. Cosa da non credere. Così, si sono messe in moto iniziative interne alle Camere per rimuovere un’anomalia che sembra fatta apposta per giustificare e alimentare il già tanto diffuso pregiudizio anti-parlamentare che circola nel nostro Paese. Pareva facile. Invece no. Sono stati chiamati in causa i costituzionalisti e i loro “pareri pro veritate”, e ciò che sembrava chiaro è diventato oscuro.
Il senso comune pensa
che, per risolvere una questione controversa ci si possa rivolgere al
diritto per ricavare la risposta che mette tutti d’accordo. Qui,
succede il contrario: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti
al diritto per renderla confusa. I giuristi hanno espresso le loro
verità e hanno sostenuto di tutto: che quei tali vitalizi sono
intoccabili e vanno bene così come sono; che, devono o possono
essere eliminati tout court; che li si deve sospendere solo per un
certo numero d’anni; che li si può mantenere, ma se ne deve
ridurre l’entità; che, infine, in ogni caso non sarebbe
sufficiente una delibera parlamentare interna, occorrendo una legge.
Come giuristi, non stiamo facendo una bella figura e nella brutta figura stiamo trascinando l’oggetto della nostra professione, il diritto e la Costituzione. Se tutto è giuridicamente sostenibile, allora i nostri argomenti sono perfettamente inutili. Se tutto è sostenibile, allora: liberi tutti. Non si alimenta, così, l’idea corrente che i giuristi siano essenzialmente dei consulenti, e che il diritto, alla fine, non sia che un mezzo e, spesso, un mezzuccio?
Poiché chi scrive queste
righe è anch’egli giurista e costituzionalista, gli sia lecito
ricordare la reazione stizzita di Vittorio Emanuele III, al “parere
pro veritate” di un famoso professore che aveva giustificato la
legge che equiparava Mussolini al re, entrambi “Primi Marescialli
dell’Impero”: “I professori di diritto costituzionale […]
trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il
loro mestiere” (R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato
totalitario 1936 1-940 , Torino, Einaudi, 1981, p. 33). Questo è il
rischio dei giuristi quando le loro opinioni si offrono come merci
sul banco d’un mercato, a disposizione degli acquirenti. Tra i
marescialli e i vitalizi c’è una certa differenza, così come tra
gli interessi di un dittatore e quelli di parlamentari decaduti. Ma
la fertilità dei giuristi è ugualmente all’opera. Vediamoli,
alcuni di questi argomenti.
Il primo: i vitalizi sarebbero pensioni; le pensioni sono “retribuzioni differite” che maturano nel corso del rapporto di lavoro e sono erogate a partire dal momento della messa a riposo; le retribuzioni non si possono toccare, in forza di diverse disposizioni costituzionali (l’art. 36, in particolare) che proteggono i diritti dei lavoratori, tra cui il diritto alla retribuzione, cioè del corrispettivo del rapporto di servizio.
Il ragionamento fila, ma
la premessa non regge. Per i deputati e i senatori non si può
parlare di “rapporto di servizio”. La loro attività come
rappresentanti della Nazione non è in cambio di una “retribuzione”.
È prevista una “indennità”, stabilita per legge (art. 69).
Indennità e retribuzione sono cose diverse. Non ci si fa eleggere
per guadagnarci qualcosa.
È giusto, però, che chi
si dedica all’attività parlamentare possa farlo senza
preoccupazioni economiche. Altrimenti, avremmo un Parlamento di
redditieri. Il mandato parlamentare deve essere aperto a tutti.
L’indennità serve a rendere “indenni” dalle ristrettezze
economiche, ma non è retribuzione. Se così fosse, dovrebbe
commisurarsi alla quantità e qualità del lavoro prestato in un
“rapporto di lavoro”. Dunque, i principi del diritto del lavoro
sono diversi da quelli del diritto parlamentare.
Secondo: la revoca dei vitalizi in conseguenza di condanne sarebbe una sanzione penale e, come tale, non potrebbe avere valore retroattivo. Ma, è facile rispondere che si avrebbe retroattività se si imponesse - il che non è - la restituzione delle rate del vitalizio riscosso in passato. Ciò di cui si discute è l’eliminazione per il futuro come conseguenza di una disciplina che introduce un nuovo requisito di accesso al beneficio.
Non si tratta d’una
“revoca”, ma d’una “cessazione” per il futuro d’un
beneficio che non ha nulla in comune con una sanzione. In realtà,
gli argomenti che si spendono a proposito della pretesa retroattività
sono un modo mascherato per introdurre un argomento di cui si ha
ritegno a parlare, in casi come questo: i “diritti quesiti”. In
sostanza: i parlamentari, quando hanno concorso per l’elezione,
potevano fare affidamento su un particolarmente favorevole
trattamento para-previdenziale. Perciò non lo potrebbe modificare in
senso restrittivo. Ma, chi potrebbe sostenere, senza offendere
l’onore dei nostri rappresentanti, che questa sia la ragione, o
anche solo una ragione, dell’impegno politico parlamentare? E, se
anche lo fosse per qualcuno particolarmente venale, dovrebbe essere
protetta dal diritto?
Terzo: la disciplina della condizione giuridica dei parlamentari dovrebbe essere stabilita dalla legge, non da deliberazioni interne alle Camere. L’abitudine invalsa, quando scoppia uno scandalo (sui partiti, sugli appalti, sulla televisione, sulla prescrizione, ora sui vitalizi) è invocare “subito una legge”: parole al vento. Si ricorrerà anche ora a questa formula dell’ipocrisia?
Che sia necessaria una legge
si potrebbe sostenere solo se la revoca del beneficio fosse – e non
è una sanzione penale. Il vitalizio è un beneficio unilateralmente
deciso da ognuno dei due rami del Parlamento. Oltretutto, la loro
incompetenza a togliere proverebbe troppo. Sarebbe un argomento
suicida. Togliere è l’altra faccia del dare. Se le Camere non
potessero togliere, non avrebbero potuto nemmeno dare, e tutto il
sistema degli attuali vitalizi crollerebbe, non solo per i
parlamentari condannati, ma per tutti.
Riprendiamo da capo. I giuristi di mondo sanno motivare qualsiasi cosa. Ma, ci sono cose che ci si dovrebbe rifiutare di motivare. Quali? La ragionevolezza è l’àncora di salvezza del diritto, è la direttrice che serve a separare gli argomenti buoni da quelli cattivi. In assenza, il diritto perderebbe se stesso e diventerebbe fattore di disfacimento sociale. Altrimenti, dovremmo dare ragione al Bartolo delle Nozze di Figaro: “con un equivoco, con un sinonimo qualche garbuglio si troverà”.
Ora, è ragionevole che
persone decadute per avere commesso reati e che non possono essere
ricandidate per avere disonorato la carica, continuino ad appartenere
alla cerchia dei protetti, alla stessa stregua di coloro che, invece,
l’hanno onorata? Questa è la domanda che i cittadini comprendono,
alla quale le Camere devono una risposta. Gli argomenti dei giuristi
seguiranno.
La Repubblica – 15
aprile 2015
Nessun commento:
Posta un commento