08 aprile 2015

ABUSI DELLA POLIZIA IN ITALIA



La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani  che ha condannato l'Italia per i fatti connessi al blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, può sorprendere soltanto coloro che hanno la memoria corta. 
Noi stamattina -  oltre a  ricordare le denuncie circostanziate degli anni cinquanta di Danilo Dolci pubblicate in Banditi a Partinico, Processo all'art.4 e Inchiesta a Palermo - riproponiamo l'analisi accurata di un sociologo pubblicata l'anno scorso sul sito http://www.aldogiannuli.it/

Gli abusi delle forze di polizia e la “civilizzazione della guerra”

Salvatore Palidda


Ogni volta che si verificano, tanti tornano a interrogarsi sul perché dei comportamenti violenti da parte delle polizie nel corso della cosiddetta gestione dell’ordine pubblico o durante azioni repressive (oltre a quanto successo a Roma il 12 aprile scorso, ricordiamo i “pestaggi” dei pastori sardi, dei terremotati dell’Aquila e altri ancora, oltre al G8 di Genova, ma non meno gravi sono i casi di Aldovandi, di Uva, Bianzino e altri ancora riguardanti anche agenti delle polizie municipali -si pensi al caso Bonsu ecc.).
Nelle reazioni a questi fatti appare spesso stupore, ingenuità o vi si ripropone l’auspicio di un mondo pacificato così come lo pensavano possibile i discepoli di Norbert Elias, fra i quali Egon Bittner, considerato il padre della sociologia della polizia. Negli anni Settanta questi arrivò a teorizzare che probabilmente saremmo approdati a una organizzazione politica della società che non avrà più bisogno di disporre di un’istituzione dotata del monopolio legittimo del ricorso all’uso della violenza. A ben guardare, non si tratta solo di ingenuità o di pie illusioni derivanti da una visione teleologica e lineare che non ha mai avuto riscontro nella storia dell’umanità. Mi sembra invece che si tratti di ignoranza dovuta non solo alla scarsa conoscenza della realtà effettiva dello stato e delle polizie, ma forse soprattutto al perpetuo credo in una visione astratta se non dogmatica dello stato e delle istituzioni. E’ qui che forse si spiega l’incapacità o l’ottusità rispetto alla comprensione delle pratiche concrete che marcano i continui tentativi di governo (o sgoverno) della società.
Tentativi spesso fallimentari anziché insoddisfacenti per la maggioranza della popolazione e che comunque non possono essere altro che continue sperimentazioni sovente ben al di là delle norme, dei codici e della Costituzione.
Provo a descrivere e analizzare il fenomeno delle violenze delle polizie alla luce di ricerche e della letteratura sull’argomento.
1) La riproduzione delle violenze e anche di crimini (torture, assassinio) da parte delle polizie nella “gestione dell’ordine pubblico” come nel corso di ogni azione repressiva “esemplare” si ripete da sempre e si riprodurrà anche in futuro. Contrariamente all’illusione che la democratizzazione possa effettivamente cancellare tale possibilità e ben al di là di ogni visione di progressiva “civilizzazione” (alla Norbert Elias e altri), l’attenta riflessione critica sulla storia passata e recente mostra che c’è sempre riproduzione della coesistenza di autoritarismo e democrazia, conflitti e mediazioni, guerra e pace (segnalo anche: “Conflict, Security and the Reshaping of Society: The Civilization of War”).
Non si tratta quindi di “transizioni” da uno stato democratico a uno “stato di polizia”, dalla democrazia allo “stato d’eccezione”; ambedue questi opposti coesistono (da qui quella famosa formula “fascismo democratico” usata già negli Stati Uniti ai tempi del maccartismo, ancora oggi plausibile anche se semplificatoria). La durata di periodi di “pacificazione” o di limitazione del ricorso all’uso e soprattutto all’abuso della forza estrema da parte delle istituzioni dotate di questo potere e anche da parte di chi vi si oppone, dipende sempre dalla capacità e dalla disponibilità degli attori in conflitto a impiegare i rapporti di forza a favore della mediazione pacifica per evitare l’approdo allo scontro (che ovviamente fa prevalere l’attore più forte).
La gestione del disordine si muove sempre sul filo dello scivolamento nella violenza e ci sono sempre da una sola o anche da ambedue le forze in campo soggetti che consapevolmente o inconsapevolmente (“schegge impazzite”) remano contro la mediazione pacifica. E in genere questi soggetti riescono a uscirne indenni, mentre chi crede nello svolgimento pacifico e non prevede alcuno scontro ha la peggio (anche fra chi sta nei ranghi del più forte e ancora di più in quelli dei perdenti).
2) La congiuntura o il contesto politico sono più favorevoli allo scivolamento verso la violenza estrema e persino i crimini quando c’è accentuazione dell’asimmetria di potere. E’ appunto quanto è avvenuto a seguito della rivoluzione liberista che ha trionfato a seguito della profonda destrutturazione economica e sociale iniziata con lo smantellamento dell’assetto della società industriale. S’è quindi prodotta una profonda disgregazione sociale, cioè una fortissima erosione del potere contrattuale e delle possibilità e capacità di azione collettiva da parte di chi non ha potere (precarizzazione, atomizzazione, impotenza rispetto alle delocalizzazioni, alle neo-schiavitù ecc.).
Le responsabilità degli intellettuali e dei leader del movimento operaio spesso convertiti al neo-liberismo sono note e sono culminate nel favorire l’accentuazione dell’asimmetria di potere e quindi scelte economiche, sociali e istituzionali che hanno aumentato la distanza fra ricchezza e povertà e anche il libero arbitrio degli attori più forti (dal caporalato sino ai Marchionne, ai politici corrotti e agli alti burocrati “inossidabili”, fra i quali alcuni dei vertici delle polizie).
In tale contesto chi è preposto alla gestione del disordine, al controllo sociale atto a imporre condizioni di lavoro, di remunerazione e di vita sempre più a favore dell’aumento dei profitti e del potere dispone di molta più possibilità di rifiutare negoziazioni e quindi concessioni ai subalterni, può usare la forza quasi senza temere e si sente dotato di strapotere. E’ anche questo che spiega l’aumento dei casi di corruzione, abusi e criminalità nei ranghi delle polizie, grazie anche all’assenza di qualsiasi effettivo controllo democratico indipendente mentre, nei fatti, prevale una sorta di garanzia di impunità se non di legittimazione del libero arbitrio anche criminale (una legittimità che può essere anche antitetica alla legalità e che trova consenso in una parte della stessa “opinione pubblica” e dei media che come i politici sono quasi sempre riverenti nei confronti delle polizie).
3) In questo contesto s’è imposta anche una sorta di conversione militare delle forze di polizia e la conversione poliziesca delle forze militari nelle pratiche, nei mezzi, nel personale, sia nel governo della sicurezza interna che nelle cosiddette missioni militari all’estero (dette anche di polizia internazionale, camuffate da peace keeping o peace enforcing ma palesemente di guerra secondo la dottrina della RMA –revolution in military affairs- e della RPA –revolution in police affairs-). E come noto, c’è stata una certa diffusione del “rambismo” persino fra le polizie municipali.
4) Nel caso italiano vanno osservati i seguenti aspetti principali:
a) non c’è mai stato controllo politico sulle polizie (ci fu parzialmente e solo per poco tempo sulle forze armate grazie agli sforzi dell’on. PCI Cerquetti, di Falco Accame e di qualche altro socialista liberale). La stragrande maggioranza degli stessi parlamentari delle Commissioni Interni non hanno mai avuto conoscenza della realtà delle polizie. I pochi che ne hanno avuto e ne hanno cognizione sono in genere del tutto embedded, cioè impegnati nel sostenere la causa delle gerarchie o lobby delle polizie e del settore sicurezza in genere. Da parte loro anche nel vecchio PCI e nel PSI, chi si occupava di police affairs ha sempre pensato di negoziare una sorta di tacito accordo con l’allora partito-stato (la DC) per garantirsi la sopravvivenza e per limitare l’ostilità da parte dell’alleato dominante (gli Stati Uniti).
D’altro canto, la componente stalinista della sinistra è sempre stata adesa all’idea di stato forte e assai sdegnosa nei confronti del liberalismo democratico tanto quanto rispetto agli anarchici. Di fronte alle messe in scena di tentativi di golpe e ai terrorismi (entrambi quasi sempre manipolati da frazioni dei servizi segreti legati alla CIA e a volte anche ad altri), la sinistra ha sempre cercato la pacificazione e la difesa a ogni costo dell’ordine costituito dopo il 1945 (per alcuni quello della Costituzione e per altri anche quello della NATO).
Al di là del giudizio positivo o negativo su questa tattica forse dettata innanzitutto dallo stesso buon senso che in alcuni casi permise alla Resistenza di evitare il bagno di sangue e ancora più distruzioni (vedi esempio di Genova), resta il fatto che le forze conservatrici sono riuscite ad arroccarsi, a volte ad ampliare il loro potere e limitare la democratizzazione che sarebbe derivata dall’effettiva applicazione della Costituzione e successivamente da alcune misure e leggi fra le quali la riforma della polizia del 1981.
b) Tanto è stato scritto sul fallimento di questa riforma. In realtà, a parte alcuni aspetti assai debolmente o del tutto parzialmente riformatori, questa legge non è stata applicata o (come altre) è stata in parte deformata anche perché alquanto tardiva e perché nel frattempo s’è andato affermando un rapporto di forza via via sfavorevole ai veri democratici (che nel secondo dopoguerra stanno nella sinistra e meno altrove … si pensi a Vittorini o ai politici Altiero Spinelli, Loris Fortuna ecc.). La grande maggioranza dei parlamentari italiani ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei confronti delle gerarchie delle polizie (anche Grillo lo fa) sia perché si tratta di un universo che ha un peso elettorale non trascurabile, sia perché ha creduto di garantirsi così una certa indulgenza se non collusione per le sue illegalità, sia ancora perché ha rinnovato in tal modo quel suo controllo politico che consiste nel baratto fra concessione di una certa autonomia e la prerogativa di nominare i vertici sino a livello di prefetto e questore (diceva un vecchio politologo: “chi controlla i prefetti vince sempre le elezioni”).
c) Questo spiega perché l’Italia è l’unico paese al mondo ad avere tanti corpi di polizia dello stato oltre a una quantità assai rilevante di polizie municipali/locali, e un tasso di personale di queste forze che non ha eguali al mondo. Gli sprechi, le sovrapposizioni, l’irrazionalità organizzativa oltre che nell’uso di tutte le risorse allocate sono noti; ciononostante l’opinione pubblica è costantemente sollecitata a criticare i tagli alle polizie “che non avrebbero più i soldi per le attività indispensabili e quindi non potrebbero più garantire la sicurezza dei cittadini”.
Nessuna maggioranza parlamentare osa proporre una razionalizzazione democratica del “comparto sicurezza” che non sembra per nulla più efficace di quanto lo siano le polizie negli USA e negli altri grandi paesi cosiddetti democratici e ricchi, dove il tasso di personale delle polizie è la metà o un terzo di quello italiano. Inoltre, in Italia persino per il controllo del territorio urbano e per l’ordine pubblico si continuano a usare più centrali operative, più forze e anche forze militari, contravvenendo alle precise norme europee in materia. L’idea che più forze di polizia siano una garanzia democratica appare del tutto ridicola ieri come oggi mentre sembra evidente che si tratti di perpetuare grandi contenitori con tanti posti di potere e quindi tante clientele.
d) Da circa 15 anni il reclutamento del personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei diversi teatri di guerra. Nei fatti è questo il fatto che più palesemente mostra la militarizzazione delle polizie che ha conseguenze alquanto inquietanti in particolare in tante occasione di gestione dell’ordine pubblico. E’ peraltro in queste occasioni che l’impiego di diverse unità di forze differenti, anche militari, è spesso all’origine di scivolamenti facili nella gestione violenta. E’ infatti frequente che il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che non sempre segue quelli del comandante della piazza (che ufficialmente –per legge- è sempre un funzionario -“civile”- di polizia). Numerosi sono gli episodi che dimostrano questo epilogo non solo in occasione di eventi “straordinari” come il G8 di Genova, ma anche nei cosiddetti scontri con gli ultrà.
Da anni le unità mobili sono spesso mantenute in una sorta di spirale che esaspera la tensione, l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista. Del resto tutta la formazione professionale nelle polizie è improntata soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza.
Perché il personale di polizia non è formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei? Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia qualità accademica?
Non è poi casuale che in Italia non sia ancora stata recepita la raccomandazione del Comitato dei Ministri dell’Interno del Consiglio d’Europa riguardante il Codice europeo di etica delle polizie (del 19 settembre 2001). E non è neanche un caso che l’Italia non abbia adottato neanche il trattato europeo e quindi una legge contro la tortura. Non sono solo personalità come l’attuale ministro Alfano a respingere o neanche preoccuparsi di questi aspetti, ma anche i predecessori di sinistra fra i quali spicca anche non tanto l’attuale presidente della Repubblica quanto l’insigne costituzionalista G. Amato.
D’altro canto anche i più illustri democratici garantisti non sembrano aver fatto tanti sforzi per favorire lo studio indipendente delle polizie e serie iniziative a favore della loro democratizzazione anche perché sempre ancorati all’idea che le leggi possano produrre garanzie mentre la realtà dimostra ampiamente che le possibilità di “anamorfosi dello stato di diritto” sono sempre facile appannaggio di chi dispone di abbastanza asimmetria di potere e quindi ampia discrezionalità.
Come suggeriva lo stesso Bittner a partire delle sue ricerche empiriche: “non appena si osserva ciò che fanno veramente i poliziotti [aggiungo: anche parte del personale di tutta la pubblica amministrazione] ci si rende conto che la frequenza alla quale la maggioranza di essi lavorano all’applicazione del codice penale si situa da qualche parte tra praticamente mai e molto raramente”.
Chi ha il potere di stabilire quali illegalità possono essere tollerate e quali invece vanno punite con modalità esemplari? Quale magistrato cerca (ardua impresa) di valutare con effettiva pari dignità la versione del cittadino comune e quella del personale delle polizie? Quanti agenti di polizia giudiziaria rispondono in totale autonomia a ciò che imporrebbe la rigorosa applicazione della legge? E quanti magistrati non danno per indiscutibile l’asserto degli atti a loro trasmessi dalle polizie?
I casi in cui il potere giudiziario ha cercato di sanzionare le condotte illecite del personale delle polizie sono rarissimi e sempre “eroici” e comunque con risultati alquanto modesti (vedi i processi per il G8 di Genova). E’ infatti evidente che la democratizzazione dipende da una effettiva mobilitazione popolare… ma oggi la maggioranza degli opinion leader, dei media e dei parlamentari sono solo riverenti rispetto alle polizie.

 Da http://www.aldogiannuli.it/

2 commenti:

  1. C'è chi non ha aspettato l'ultima Sentenza della CEDU per scoprire l' antica pratica della tortura, ben sperimentata dalla "Santa Romana Chiesa" con l'Inquisizione che, non a caso, ha fatto da scuola a tutti i regimi totalitari. Chi si è illuso che, dopo Cesare Beccaria, non se ne facesse più uso ha tenuto gli occhi chiusi. Eppure in Italia Danilo Dolci ne ha denunciato la persistente pratica fin dagli anni cinquanta; e Leonardo Sciascia, introducendo una ristampa della manzoniana Storia della Colonna Infame, ha scritto: "La tortura c'è ancora. E il fascismo c'è sempre".

    RispondiElimina
  2. Penso inoltre che se si volessero davvero eliminare tutti gli abusi non sarebbero necessarie altre leggi. Condivido al riguardo quanto segue:
    “Sa quanti decreti ci sono stai dal 2011 ad oggi che hanno cambiato le regole di bilancio per i Comuni? 64, uno ogni 15 giorni”, dice Fassino, sindaco di Torino, sconsolato a Lorenzo Salvia sul “Corriere della sera”. Lo stesso giorno in cui da Strasburgo arriva l’obbligo di un nuovo capitolo di leggi penali, attorno alla tortura.
    Se si voleva “efficientare” i Comuni, e tagliarne gli sprechi, questa è la maniera per impedirlo. Lo stesso nel penale: se non si vuole punire un delitto basta moltiplicare le leggi.
    La moltiplicazione delle leggi è inutile e dannosa. Ed è un chiaro segno dell’inettitudine dell’epoca. Dell’Europa a questo punto, venendo la richiesta di leggi speciali contro la tortura dalla Corte Europea, che si lusinga di essere all’avanguardia nella protezione del cittadino. Lasciando credere che i problemi si risolvono con le leggi, non con l’applicazione della legge.
    Per punire eccessi e abusi alla scuola Diaz c’erano e ci sono leggi rigorose, volendole applicare. Sia per le responsabilità dei singoli che per quelle della catena di comando. Ma la società dei diritti queste cose non le sa più. Favorita da presidenti delle Camere ignoranti e inetti, anche se a volte giudici. Che i Parlamenti impegnano e esauriscono nella legificazione. Una legge, un nugolo di leggi, ogni poche settimane o mesi: leggi speciali contro lo stupro, per le quote rosa, contro gli incidenti stradali, contro la corruzione, e ora contro la tortura.
    È principio di Rousseau incontestato che una democrazia bene ordinata vuole poche leggi, giacché la loro moltiplicazione le rende inefficaci, e favorisce gli abusi e la corruzione. Senza contare la concussione, della burocrazia e della stessa magistratura – in favori e onori, se non in soldi. Più leggi più avvocati: una via d’uscita il criminale la trova sempre. "
    Pubblicato da astolfo@antiit.com

    RispondiElimina