La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che ha condannato l'Italia per i fatti connessi al blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, può sorprendere soltanto coloro che hanno la memoria corta.
Noi stamattina - oltre a ricordare le denuncie circostanziate degli anni cinquanta di Danilo Dolci pubblicate in Banditi a Partinico, Processo all'art.4 e Inchiesta a Palermo - riproponiamo l'analisi accurata di un sociologo pubblicata l'anno scorso sul sito http://www.aldogiannuli.it/
Gli abusi delle forze di polizia e la “civilizzazione della guerra”
Salvatore Palidda
Ogni volta che si verificano, tanti
tornano a interrogarsi sul perché dei comportamenti violenti da parte
delle polizie nel corso della cosiddetta gestione dell’ordine pubblico o
durante azioni repressive (oltre a quanto successo a Roma il 12 aprile
scorso, ricordiamo i “pestaggi” dei pastori sardi, dei terremotati
dell’Aquila e altri ancora, oltre al G8 di Genova, ma non meno gravi
sono i casi di Aldovandi, di Uva, Bianzino e altri ancora riguardanti
anche agenti delle polizie municipali -si pensi al caso Bonsu ecc.).
Nelle reazioni a questi fatti appare
spesso stupore, ingenuità o vi si ripropone l’auspicio di un mondo
pacificato così come lo pensavano possibile i discepoli di Norbert
Elias, fra i quali Egon Bittner, considerato il padre della sociologia
della polizia. Negli anni Settanta questi arrivò a teorizzare che
probabilmente saremmo approdati a una organizzazione politica della
società che non avrà più bisogno di disporre di un’istituzione dotata
del monopolio legittimo del ricorso all’uso della violenza. A ben
guardare, non si tratta solo di ingenuità o di pie illusioni derivanti
da una visione teleologica e lineare che non ha mai avuto riscontro
nella storia dell’umanità. Mi sembra invece che si tratti di ignoranza
dovuta non solo alla scarsa conoscenza della realtà effettiva dello
stato e delle polizie, ma forse soprattutto al perpetuo credo in una
visione astratta se non dogmatica dello stato e delle istituzioni. E’
qui che forse si spiega l’incapacità o l’ottusità rispetto alla
comprensione delle pratiche concrete che marcano i continui tentativi di
governo (o sgoverno) della società.
Tentativi spesso fallimentari anziché
insoddisfacenti per la maggioranza della popolazione e che comunque non
possono essere altro che continue sperimentazioni sovente ben al di là
delle norme, dei codici e della Costituzione.
Provo a descrivere e analizzare il
fenomeno delle violenze delle polizie alla luce di ricerche e della
letteratura sull’argomento.
1) La riproduzione delle violenze e
anche di crimini (torture, assassinio) da parte delle polizie nella
“gestione dell’ordine pubblico” come nel corso di ogni azione repressiva
“esemplare” si ripete da sempre e si riprodurrà anche in futuro.
Contrariamente all’illusione che la democratizzazione possa
effettivamente cancellare tale possibilità e ben al di là di ogni
visione di progressiva “civilizzazione” (alla Norbert Elias e altri),
l’attenta riflessione critica sulla storia passata e recente mostra che
c’è sempre riproduzione della coesistenza di autoritarismo e democrazia,
conflitti e mediazioni, guerra e pace (segnalo anche: “Conflict, Security and the Reshaping of Society: The Civilization of War”).
Non si tratta quindi di “transizioni” da
uno stato democratico a uno “stato di polizia”, dalla democrazia allo
“stato d’eccezione”; ambedue questi opposti coesistono (da qui quella
famosa formula “fascismo democratico” usata già negli Stati Uniti ai
tempi del maccartismo, ancora oggi plausibile anche se semplificatoria).
La durata di periodi di “pacificazione” o di limitazione del ricorso
all’uso e soprattutto all’abuso della forza estrema da parte delle
istituzioni dotate di questo potere e anche da parte di chi vi si
oppone, dipende sempre dalla capacità e dalla disponibilità degli attori
in conflitto a impiegare i rapporti di forza a favore della mediazione
pacifica per evitare l’approdo allo scontro (che ovviamente fa prevalere
l’attore più forte).
La gestione del disordine si muove
sempre sul filo dello scivolamento nella violenza e ci sono sempre da
una sola o anche da ambedue le forze in campo soggetti che
consapevolmente o inconsapevolmente (“schegge impazzite”) remano contro
la mediazione pacifica. E in genere questi soggetti riescono a uscirne
indenni, mentre chi crede nello svolgimento pacifico e non prevede
alcuno scontro ha la peggio (anche fra chi sta nei ranghi del più forte e
ancora di più in quelli dei perdenti).
2) La congiuntura o il contesto politico
sono più favorevoli allo scivolamento verso la violenza estrema e
persino i crimini quando c’è accentuazione dell’asimmetria di potere. E’
appunto quanto è avvenuto a seguito della rivoluzione liberista che ha
trionfato a seguito della profonda destrutturazione economica e sociale
iniziata con lo smantellamento dell’assetto della società industriale.
S’è quindi prodotta una profonda disgregazione sociale, cioè una
fortissima erosione del potere contrattuale e delle possibilità e
capacità di azione collettiva da parte di chi non ha potere
(precarizzazione, atomizzazione, impotenza rispetto alle
delocalizzazioni, alle neo-schiavitù ecc.).
Le responsabilità degli intellettuali e
dei leader del movimento operaio spesso convertiti al neo-liberismo sono
note e sono culminate nel favorire l’accentuazione dell’asimmetria di
potere e quindi scelte economiche, sociali e istituzionali che hanno
aumentato la distanza fra ricchezza e povertà e anche il libero arbitrio
degli attori più forti (dal caporalato sino ai Marchionne, ai politici
corrotti e agli alti burocrati “inossidabili”, fra i quali alcuni dei
vertici delle polizie).
In tale contesto chi è preposto alla
gestione del disordine, al controllo sociale atto a imporre condizioni
di lavoro, di remunerazione e di vita sempre più a favore dell’aumento
dei profitti e del potere dispone di molta più possibilità di rifiutare
negoziazioni e quindi concessioni ai subalterni, può usare la forza
quasi senza temere e si sente dotato di strapotere. E’ anche questo che
spiega l’aumento dei casi di corruzione, abusi e criminalità nei ranghi
delle polizie, grazie anche all’assenza di qualsiasi effettivo controllo
democratico indipendente mentre, nei fatti, prevale una sorta di
garanzia di impunità se non di legittimazione del libero arbitrio anche
criminale (una legittimità che può essere anche antitetica alla legalità
e che trova consenso in una parte della stessa “opinione pubblica” e
dei media che come i politici sono quasi sempre riverenti nei confronti
delle polizie).
3) In questo contesto s’è imposta anche
una sorta di conversione militare delle forze di polizia e la
conversione poliziesca delle forze militari nelle pratiche, nei mezzi,
nel personale, sia nel governo della sicurezza interna che nelle
cosiddette missioni militari all’estero (dette anche di polizia
internazionale, camuffate da peace keeping o peace enforcing ma
palesemente di guerra secondo la dottrina della RMA –revolution in
military affairs- e della RPA –revolution in police affairs-). E come
noto, c’è stata una certa diffusione del “rambismo” persino fra le
polizie municipali.
4) Nel caso italiano vanno osservati i seguenti aspetti principali:
a) non c’è mai stato controllo politico
sulle polizie (ci fu parzialmente e solo per poco tempo sulle forze
armate grazie agli sforzi dell’on. PCI Cerquetti, di Falco Accame e di
qualche altro socialista liberale). La stragrande maggioranza degli
stessi parlamentari delle Commissioni Interni non hanno mai avuto
conoscenza della realtà delle polizie. I pochi che ne hanno avuto e ne
hanno cognizione sono in genere del tutto embedded, cioè impegnati nel
sostenere la causa delle gerarchie o lobby delle polizie e del settore
sicurezza in genere. Da parte loro anche nel vecchio PCI e nel PSI, chi
si occupava di police affairs ha sempre pensato di negoziare una sorta
di tacito accordo con l’allora partito-stato (la DC) per garantirsi la
sopravvivenza e per limitare l’ostilità da parte dell’alleato dominante
(gli Stati Uniti).
D’altro canto, la componente stalinista
della sinistra è sempre stata adesa all’idea di stato forte e assai
sdegnosa nei confronti del liberalismo democratico tanto quanto rispetto
agli anarchici. Di fronte alle messe in scena di tentativi di golpe e
ai terrorismi (entrambi quasi sempre manipolati da frazioni dei servizi
segreti legati alla CIA e a volte anche ad altri), la sinistra ha sempre
cercato la pacificazione e la difesa a ogni costo dell’ordine
costituito dopo il 1945 (per alcuni quello della Costituzione e per
altri anche quello della NATO).
Al di là del giudizio positivo o
negativo su questa tattica forse dettata innanzitutto dallo stesso buon
senso che in alcuni casi permise alla Resistenza di evitare il bagno di
sangue e ancora più distruzioni (vedi esempio di Genova), resta il fatto
che le forze conservatrici sono riuscite ad arroccarsi, a volte ad
ampliare il loro potere e limitare la democratizzazione che sarebbe
derivata dall’effettiva applicazione della Costituzione e
successivamente da alcune misure e leggi fra le quali la riforma della
polizia del 1981.
b) Tanto è stato scritto sul fallimento
di questa riforma. In realtà, a parte alcuni aspetti assai debolmente o
del tutto parzialmente riformatori, questa legge non è stata applicata o
(come altre) è stata in parte deformata anche perché alquanto tardiva e
perché nel frattempo s’è andato affermando un rapporto di forza via via
sfavorevole ai veri democratici (che nel secondo dopoguerra stanno
nella sinistra e meno altrove … si pensi a Vittorini o ai politici
Altiero Spinelli, Loris Fortuna ecc.). La grande maggioranza dei
parlamentari italiani ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei
confronti delle gerarchie delle polizie (anche Grillo lo fa) sia perché
si tratta di un universo che ha un peso elettorale non trascurabile, sia
perché ha creduto di garantirsi così una certa indulgenza se non
collusione per le sue illegalità, sia ancora perché ha rinnovato in tal
modo quel suo controllo politico che consiste nel baratto fra
concessione di una certa autonomia e la prerogativa di nominare i
vertici sino a livello di prefetto e questore (diceva un vecchio
politologo: “chi controlla i prefetti vince sempre le elezioni”).
c) Questo spiega perché l’Italia è
l’unico paese al mondo ad avere tanti corpi di polizia dello stato oltre
a una quantità assai rilevante di polizie municipali/locali, e un tasso
di personale di queste forze che non ha eguali al mondo. Gli sprechi,
le sovrapposizioni, l’irrazionalità organizzativa oltre che nell’uso di
tutte le risorse allocate sono noti; ciononostante l’opinione pubblica è
costantemente sollecitata a criticare i tagli alle polizie “che non
avrebbero più i soldi per le attività indispensabili e quindi non
potrebbero più garantire la sicurezza dei cittadini”.
Nessuna maggioranza parlamentare osa
proporre una razionalizzazione democratica del “comparto sicurezza” che
non sembra per nulla più efficace di quanto lo siano le polizie negli
USA e negli altri grandi paesi cosiddetti democratici e ricchi, dove il
tasso di personale delle polizie è la metà o un terzo di quello
italiano. Inoltre, in Italia persino per il controllo del territorio
urbano e per l’ordine pubblico si continuano a usare più centrali
operative, più forze e anche forze militari, contravvenendo alle precise
norme europee in materia. L’idea che più forze di polizia siano una
garanzia democratica appare del tutto ridicola ieri come oggi mentre
sembra evidente che si tratti di perpetuare grandi contenitori con tanti
posti di potere e quindi tante clientele.
d) Da circa 15 anni il reclutamento del
personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che
hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei
diversi teatri di guerra. Nei fatti è questo il fatto che più
palesemente mostra la militarizzazione delle polizie che ha conseguenze
alquanto inquietanti in particolare in tante occasione di gestione
dell’ordine pubblico. E’ peraltro in queste occasioni che l’impiego di
diverse unità di forze differenti, anche militari, è spesso all’origine
di scivolamenti facili nella gestione violenta. E’ infatti frequente che
il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che
non sempre segue quelli del comandante della piazza (che ufficialmente
–per legge- è sempre un funzionario -“civile”- di polizia). Numerosi
sono gli episodi che dimostrano questo epilogo non solo in occasione di
eventi “straordinari” come il G8 di Genova, ma anche nei cosiddetti
scontri con gli ultrà.
Da anni le unità mobili sono spesso
mantenute in una sorta di spirale che esaspera la tensione,
l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista.
Del resto tutta la formazione professionale nelle polizie è improntata
soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto
superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre
all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza.
Perché il personale di polizia non è
formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei?
Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più
democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che
come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia
qualità accademica?
Non è poi casuale che in Italia non sia
ancora stata recepita la raccomandazione del Comitato dei Ministri
dell’Interno del Consiglio d’Europa riguardante il Codice europeo di
etica delle polizie (del 19 settembre 2001). E non è neanche un caso che
l’Italia non abbia adottato neanche il trattato europeo e quindi una
legge contro la tortura. Non sono solo personalità come l’attuale
ministro Alfano a respingere o neanche preoccuparsi di questi aspetti,
ma anche i predecessori di sinistra fra i quali spicca anche non tanto
l’attuale presidente della Repubblica quanto l’insigne costituzionalista
G. Amato.
D’altro canto anche i più illustri
democratici garantisti non sembrano aver fatto tanti sforzi per favorire
lo studio indipendente delle polizie e serie iniziative a favore della
loro democratizzazione anche perché sempre ancorati all’idea che le
leggi possano produrre garanzie mentre la realtà dimostra ampiamente che
le possibilità di “anamorfosi dello stato di diritto” sono sempre
facile appannaggio di chi dispone di abbastanza asimmetria di potere e
quindi ampia discrezionalità.
Come suggeriva lo stesso Bittner a
partire delle sue ricerche empiriche: “non appena si osserva ciò che
fanno veramente i poliziotti [aggiungo: anche parte del personale di
tutta la pubblica amministrazione] ci si rende conto che la frequenza
alla quale la maggioranza di essi lavorano all’applicazione del codice
penale si situa da qualche parte tra praticamente mai e molto
raramente”.
Chi ha il potere di stabilire quali
illegalità possono essere tollerate e quali invece vanno punite con
modalità esemplari? Quale magistrato cerca (ardua impresa) di valutare
con effettiva pari dignità la versione del cittadino comune e quella del
personale delle polizie? Quanti agenti di polizia giudiziaria
rispondono in totale autonomia a ciò che imporrebbe la rigorosa
applicazione della legge? E quanti magistrati non danno per
indiscutibile l’asserto degli atti a loro trasmessi dalle polizie?
I casi in cui il potere giudiziario ha
cercato di sanzionare le condotte illecite del personale delle polizie
sono rarissimi e sempre “eroici” e comunque con risultati alquanto
modesti (vedi i processi per il G8 di Genova). E’ infatti evidente che
la democratizzazione dipende da una effettiva mobilitazione popolare… ma
oggi la maggioranza degli opinion leader, dei media e dei parlamentari
sono solo riverenti rispetto alle polizie.
Da http://www.aldogiannuli.it/
Da http://www.aldogiannuli.it/
C'è chi non ha aspettato l'ultima Sentenza della CEDU per scoprire l' antica pratica della tortura, ben sperimentata dalla "Santa Romana Chiesa" con l'Inquisizione che, non a caso, ha fatto da scuola a tutti i regimi totalitari. Chi si è illuso che, dopo Cesare Beccaria, non se ne facesse più uso ha tenuto gli occhi chiusi. Eppure in Italia Danilo Dolci ne ha denunciato la persistente pratica fin dagli anni cinquanta; e Leonardo Sciascia, introducendo una ristampa della manzoniana Storia della Colonna Infame, ha scritto: "La tortura c'è ancora. E il fascismo c'è sempre".
RispondiEliminaPenso inoltre che se si volessero davvero eliminare tutti gli abusi non sarebbero necessarie altre leggi. Condivido al riguardo quanto segue:
RispondiElimina“Sa quanti decreti ci sono stai dal 2011 ad oggi che hanno cambiato le regole di bilancio per i Comuni? 64, uno ogni 15 giorni”, dice Fassino, sindaco di Torino, sconsolato a Lorenzo Salvia sul “Corriere della sera”. Lo stesso giorno in cui da Strasburgo arriva l’obbligo di un nuovo capitolo di leggi penali, attorno alla tortura.
Se si voleva “efficientare” i Comuni, e tagliarne gli sprechi, questa è la maniera per impedirlo. Lo stesso nel penale: se non si vuole punire un delitto basta moltiplicare le leggi.
La moltiplicazione delle leggi è inutile e dannosa. Ed è un chiaro segno dell’inettitudine dell’epoca. Dell’Europa a questo punto, venendo la richiesta di leggi speciali contro la tortura dalla Corte Europea, che si lusinga di essere all’avanguardia nella protezione del cittadino. Lasciando credere che i problemi si risolvono con le leggi, non con l’applicazione della legge.
Per punire eccessi e abusi alla scuola Diaz c’erano e ci sono leggi rigorose, volendole applicare. Sia per le responsabilità dei singoli che per quelle della catena di comando. Ma la società dei diritti queste cose non le sa più. Favorita da presidenti delle Camere ignoranti e inetti, anche se a volte giudici. Che i Parlamenti impegnano e esauriscono nella legificazione. Una legge, un nugolo di leggi, ogni poche settimane o mesi: leggi speciali contro lo stupro, per le quote rosa, contro gli incidenti stradali, contro la corruzione, e ora contro la tortura.
È principio di Rousseau incontestato che una democrazia bene ordinata vuole poche leggi, giacché la loro moltiplicazione le rende inefficaci, e favorisce gli abusi e la corruzione. Senza contare la concussione, della burocrazia e della stessa magistratura – in favori e onori, se non in soldi. Più leggi più avvocati: una via d’uscita il criminale la trova sempre. "
Pubblicato da astolfo@antiit.com