Francesco Marchianò
La metafisica del
popolo sovrano
Il successo che
molti partiti di protesta hanno ottenuto nelle
elezioni europee dello scorso maggio ha riacceso
i riflettori sul populismo, un fenomeno in
realtà presente da molti anni nel continente europeo
che appare tuttavia sempre più consolidarsi
nelle democrazie avanzate.
Il termine
populismo, si sa, non gode di ottima fama, sia perché
è utilizzato spesso in termini polemici
e non descrittivi, e sia perché molto varia
è stata la concettualizzazione che ne
hanno dato gli specialisti i quali hanno
contribuito alla fortuna della diagnosi che nel
1967, durante il primo tentativo fatto per definire il
populismo, fece Isaiah Berlin.
Secondo il filosofo
liberale, il populismo soffriva del «complesso
di Cenerentola»: esisteva, cioè, una scarpa, ossia
la definizione del populismo, ma non un piede al
quale calzasse a pennello. Per questa ragione, il
ricercatore, continuava a vagare come un
principe azzurro in cerca della sua amata. Da allora
i contributi si sono moltiplicati così
come il numero di coloro che hanno enfatizzato i contorni
troppo incerti del populismo.
Di diverso orientamento è Marco Tarchi, ordinario di Scienza politica all’università di Firenze, ritenuto per molti anni il teorico per eccellenza della «nuova destra» che da anni spiega come sia possibile per le scienze sociale liberarsi di questo complesso. L’ultimo sforzo compiuto in questa direzione è dato dalla pubblicazione deL’Italia populista. Dal Qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino, 2015, pp. 394, Euro 20), una versione ampliata e praticamente riscritta di un testo che apparve per la prima volta nel 2003.
Un problema di
mentalità
L’autore parte dal
presupposto che esistano ormai tutti gli
elementi per giungere a una definizione
generale del populismo cui perviene rifiutando
di stabilire se esso sia un’ideologia o semplicemente
uno stile politico. Per il politologo, la formula
migliore da utilizzare è quella di «mentalità
caratteristica», un’espressione introdotta da
Theodor Geiger e meglio adoperata da Juan
Linz che la distingue proprio dall’ideologia per il suo
forte carattere emotivo più che razionale, per essere
informe, fluttuante, generica, per coincidere più
con un atteggiamento intellettuale che non con un
contenuto.
Il populismo,
perciò, è per Tarchi una mentalità che
vede il popolo come un insieme organico, unito da un’etica
innata, non diviso da conflitti di alcun tipo al suo interno, al
quale vi si contrappongo i suoi nemici che sono
i politici di professione, i tecnocrati,
le élite economiche e quelle intellettuali
che tradiscono quotidianamente la
volontà popolare.
Questa mentalità
si concretizza con l’utilizzo di un appello diretto al
popolo, a opera spesso di leader dotati di forte
personalità, con una visione anti-establishment e con
un’insofferenza verso i meccanismi di
mediazione e di rappresentanza, giudicati
come ostacoli alla vera sovranità popolare. Il
populismo condivide, inoltre, molti
elementi tipici dell’estrema destra dalla quale, tuttavia,
l’autore suggerisce di distinguerlo per
comprendere meglio entrambi i fenomeni.
La ricognizione sull’Italia comincia con un caso paradigmatico: il «Fronte dell’Uomo qualunque». Il movimento di Giannini, nell’immediato dopoguerra raccoglie le ansie di quell’Italia non antifascista, confusa dal cambio di regime, timorosa di perdere i piccoli privilegi che aveva mantenuto nel corso del ventennio e perciò critica nei confronti dei partiti politici, del parlamento, della Repubblica. Per alcuni anni, al grido di «abbasso tutti!», l’«Uomo qualunque» riscuoterà un certo successo fino a quando, chiusi i rubinetti della Confindustria, che ne aveva finanziato l’epopea, scomparirà dalla scena politica.
Quel che non scompare,
secondo Tarchi, è invece il potenziale populista
che resta a covare come brace sotto la cenere. La forte
ideologizzazione dello scontro politico,
la Guerra fredda, la grande azione dei partiti di massa,
contengono le esplosioni del populismo che
si manifesta solo con sporadiche eccezioni
come nel caso di Achille Lauro a Napoli.
Il giacobinismo
giudiziario
Quando, però, il sistema
politico comincia a scricchiolare, ecco che
il populismo ricompare, prima con l’attacco alla
partitocrazia lanciato da Marco Pannella
e dai radicali e poi, nel 1992, con Tangentopoli
quando crolla la repubblica dei partiti. È in questa
fase, infatti, che le declinazioni del populismo
diventano prevalenti innestandosi su una
narrazione nella quale alla politica corrotta,
disonesta e inefficacie, viene
contrapposta la società civile onesta, operosa,
produttiva, eticamente giusta, che al
parlare oppone il fare.
È un discorso che
diventa dominante, grazie ai principali organi di
informazione che la sostengono e non prima che
l’allora presidente della Repubblica Francesco
Cossiga e il democristiano Mario Segni (aiutato
in maniera determinante dal Pds di Achille Occhetto)
abbiano indebolito la struttura del sistema dei
partiti a colpi di piccone e referendum.
A sinistra e al
centro sono così emersi movimenti e forze che, sotto
le insegne della società civile, hanno imposto il
direttismo, il «gentismo» e il
giacobinismo giudiziario. Si pensi
alla Rete di Orlando, al movimento formatosi attorno
alla rivista Micromega e, ancor più, a quello di
Antonio Di Pietro.
A destra ha trionfato, invece, Silvio Berlusconi che ha realizzato una leadership populista ma, secondo Tarchi, non ha fatto di Forza Italia un vero partito populista in senso stretto. Soprattutto, a destra, si è imposta la Lega Nord, che per lo studioso è la seconda vera espressione di massa del populismo in Italia. Nata sulla protesta antifiscale, anticentralistica e antimeridionale, la Lega, più che un partito etnoregionalista, rientra nella famiglia dei partiti populisti, come dimostrerebbero la retorica antieuropea, la xenofobia e la leadership tribunizia prima di Bossi e ora di Salvini.
La «terza ondata» del
populismo, quella degli ultimi anni, acuita dalla crisi
economica, ha sancito in Italia il successo
di Beppe Grillo e del M5s che Tarchi giudica come
«populismo allo stato puro». Col suo essere
postideologico (né di destra né di sinistra),
con la sua sfiducia nella rappresentanza
(ognuno vale uno), con la sua visione dicotomica che vede
da una parte il popolo e dall’altra i suoi nemici
(l’Europa, le banche, i politici, i tecnocrati,
gli intellettuali, gli immigrati), con un leader
che sa aizzare le piazze grazie a dosi di teatralità
e volgarità, il M5s rappresenta una delle
più riuscite espressioni del populismo in
Italia.
Se questa è la situazione del nostro Paese, va detto che non siamo soli. In molte parti d’Europa, infatti, sono emersi attori politici della famiglia populista. Uno dei casi più esemplari e duraturi è senza dubbio quello del Front National dei Le Pen — che ambisce, grazie ai buoni risultati elettorali, a diventare il primo partito in Francia — alla cui evoluzione è dedicato il volume Il Front National. Da Jean-Marie a Marine Le Pen (Rubbettino, pp. 202, Euro 18), ultimo lavoro di un giovane studioso, Nicola Genga.
Se questa è la situazione del nostro Paese, va detto che non siamo soli. In molte parti d’Europa, infatti, sono emersi attori politici della famiglia populista. Uno dei casi più esemplari e duraturi è senza dubbio quello del Front National dei Le Pen — che ambisce, grazie ai buoni risultati elettorali, a diventare il primo partito in Francia — alla cui evoluzione è dedicato il volume Il Front National. Da Jean-Marie a Marine Le Pen (Rubbettino, pp. 202, Euro 18), ultimo lavoro di un giovane studioso, Nicola Genga.
L’autore affronta
l’argomento cercando di verificare alcune
interpretazioni prevalenti, spesso date per
scontate, a cominciare dal presunto carisma
del leader Jean Marie che secondo Genga è stato un
elemento conseguente al successo, non tanto una
sua causa; non fosse altro che nei suoi primi anni di vita il Front
raccoglie risultati irrisori, inferiori
all’1%, e solo nel 1984 ottiene il primo successo
a sorpresa dovuto, in gran parte, alla forte esposizione
mediatica che ricevono in quella circostanza il
partito e il suo leader.
Lungi dal considerare
il Front come un partito «solo» populista, Genga ne
inquadra la sua cultura politica all’interno della
destra francese mettendo in luce i forti legami che
esistono tra i due, determinanti soprattutto
nella fase di incubazione. Tra gli anni Ottanta e Novanta,
poi, quando il Front comincia a crescere, l’autore
nota un intensificarsi di rapporti e,
soprattutto, di scambi di personale politico con
la destra gollista.
Ciò lo induce
a preferire l’utilizzo dell’espressione «destra
radicale», sia per distinguere il Front
dall’isolazionismo, tipico delle destre estreme, e sia per
distinguerlo dalle destre liberal-conservatrici
e repubblicane. Una destra radicale
a connotazione «nazional-populista», insomma,
secondo la formula di un altro studioso che si è a
lungo cimentato con l’argomento, Pierre-André Taguieff. Non
va dimenticato, infatti, che Jean Marie Le Pen venne eletto
per la prima volta nelle liste del partito poujadista
che Tarchi considera come il prototipo del
populismo europeo.
Il successo di
Marine Le Pen
Il legame profondo
che il Front ha con la destra francese emerge anche in
negativo. Analizzando la parabola di Sarkozy,
Genga sottolinea l’inversa proporzionalità
tra queste due destre spiegando che parte del successo
che l’ex presidente riscosse nel 2007 fu dovuto alla sua
capacità di rappresentare valori e parole
d’ordine della destra lepenista in chiave più
rispettabile, riuscendo così a sottrarre
consensi al Front.
Il volume si chiude con
un focus sulle novità introdotte da quando alla guida
è passata la figlia di Le Pen, Marine. Il nuovo Front ha
tentato, per ora con successo, un’operazione di cosmesi
nella quale ha modernizzato la propria
comunicazione, realizzato il restyling
del simbolo, espunto dal proprio lessico riferimenti
troppo estremisti, come i diversi scivolamenti
nel negazionismo.
Quelle che non sono
cambiate, da Jean-Marie a Marine, sono però le proposte
politiche: sicurezza contro gli immigrati,
la preferenza nazionale, o meglio un Welfare
state che funzioni solo per i cittadini
francesi, l’attacco alle istituzioni europee
e alla finanza senza che però sia mai messo in dubbio il
sistema capitalistico. Non si dimentichi che
il Front è stato per anni un fervente sostenitore
del liberismo economico.
Con questa formula
politica Marine è arrivata al successo del
maggio scorso nelle elezioni europee, ma il merito
è solo in parte suo visto che, certamente, vi ha
contributo l’inefficacia della presidenza
Hollande di far fronte a fattori esterni come la crisi
economica e le politiche economiche
rigoriste. Fattori che incidono ancora in molti
Paesi europei e che inducono a ritenere che
la storia dei populismi sia ancora lunga.
Il Manifesto – 1 aprile
2015
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