06 aprile 2015

LA VARIETA' E COMPLESSITA' DEL MONDO ISLAMICO





Non so quanti lettori di questo blog hanno visto il bel film Timbuktu di Abderrahmane Sissako. Tra le cose che mi hanno maggiormente colpito  ricordo il dialogo serrato  fra il capo integralista che guida l'occupazione del  piccolo centro africano e l'imam sufi della comunità:  due visioni antitetiche dell'Islam che si confrontano e scontrano apertamente
Elisa Pelizzari
Jihad e feticci in Mali
Tutto è nel Corano: il testo sacro può dun­que essere uti­liz­zato a fin di bene o di male», afferma con sem­pli­cità Sou­ley­mane Maïga, un impor­tante imam di Bamako. La capi­tale maliana è ancora incre­dula per l’attentato di stampo jiha­di­sta del 7 marzo scorso uffi­cial­mente riven­di­cato dai mili­tanti di Al-Mourabitoune, agli ordini di Mokh­tar Bel­mo­kh­tar, noto traf­fi­cante, un tempo legato ai gruppi armati alge­rini (Gia) e poi con­ver­tito all’ideologia salafita.
Maïga dirige la pre­ghiera nella moschea di Sébé­ni­koro, uno dei sei comuni del distretto di Bamako, ed è ori­gi­na­rio di Gao. La sua figura minuta si sposa per­fet­ta­mente con il tono pacato che ado­pera per spie­gare quanto, agli occhi di tanti, nell’islam come al di fuori dell’ambito reli­gioso, appare incom­pren­si­bile: come si pos­sono legit­ti­mare atti di estrema vio­lenza ricor­rendo al nome di Dio? Il suo punto di vista – lon­tano da orien­ta­menti sala­fiti che si rifanno, tal­volta in maniera pre­te­stuosa, al pen­siero del teo­logo arabo Muham­mad Bin Abd al-Wahhab (XVIII sec.) –, è quello di chi ritiene una realtà tan­gi­bile sia la pre­senza di satana (shay­tan) nel cuore delle per­sone, sia la facoltà, per gli indi­vi­dui, di uti­liz­zare il Corano in maniera «inversa», distor­cen­done il mes­sag­gio di mise­ri­cor­dia.
Non sug­ge­ri­sce dun­que una let­tura poli­tica degli eventi attuali, con accenni anti­oc­ci­den­tali o di con­danna rispetto a una moder­nità che relega la fede a una sfera pri­vata, ma rimanda a valori fon­da­men­tali e al libero arbi­trio umano. Tali con­cetti appa­iono forse desueti, eppure, per com­pren­dere l’islam nel con­te­sto sahe­liano, biso­gna ade­guarsi al lin­guag­gio uti­liz­zato in loco, al modo in cui la gente (il Mali è un paese al 90% musul­mano) per­ce­pi­sce il mondo, avendo pre­sente un ele­mento di fondo: la dimen­sione del «non cre­dere» all’intervento divino, cioè all’intromissione di una com­po­nente sovran­na­tu­rale nella vita quo­ti­diana, è qui un’opzione scar­tata a priori.
La por­tata del fat­tore reli­gioso è sot­to­li­neata, sep­pure con altra valenza, da Omar Sylla, con­su­lente del mini­stero dell’Istruzione e mem­bro della con­fra­ter­nita Tija­nia. Che rileva – con mal­ce­lata iro­nia – come l’attacco al bar La Ter­rasse abbia col­pito un luogo «pec­ca­mi­noso», sim­bolo di lus­su­ria. Gli assa­li­tori (uno dei quali sarebbe stato ucciso dalla poli­zia in un’irruzione nel suo nascon­di­glio, il 13 marzo) non si sono dun­que diretti in maniera esclu­siva con­tro gli stra­nieri, ma hanno pre­teso di lan­ciare un mes­sag­gio di carat­tere «morale», che li avrebbe nobi­li­tati agli occhi della popolazione.
Osser­va­zioni del genere bilan­ciano una visione che inqua­dra la crisi maliana in chiave di stra­te­gie e gio­chi di potere met­tendo, al cen­tro, le riven­di­ca­zioni di auto­no­mia dell’Azawad.
Paul Pou­diougo, di con­fes­sione cri­stiana e diret­tore della casa edi­trice Togouna, insi­ste con fer­mezza sulla dif­fi­coltà, per il governo in carica, di man­te­nere posi­zioni lai­che, come pre­vede la costi­tu­zione del 1992, e giunge ad accu­sare la Fran­cia d’ingenuità, nei con­fronti delle forze del nord che oggi si rico­no­scono, sep­pure con sfu­ma­ture signi­fi­ca­tive, nella Coor­di­na­tion des Mou­ve­ments de l’Azawad (Cma).
Egli sostiene che i nego­ziati di pace in corso in Alge­ria non sfo­ce­ranno in un accordo dura­turo: i tua­reg armati e i gruppi inse­diati nella regione (dal Mou­ve­ment Natio­nal de Libé­ra­tion de l’Azawad, Mnla, all’Haut Con­seil pour l’Unité de l’Azawad, Hcua, più i rela­tivi sot­to­gruppi nati da scis­sioni ope­rate dai sin­goli lea­der) ambi­scono a man­te­nere il caos per gestire a pia­ci­mento i loro com­merci ille­gali, nell’ampia fascia del deserto sahariano.
Oltre a tutto ciò, vi è però un ele­mento che, in un’ottica socio-antropologica, potrebbe offrire una pro­spet­tiva di ana­lisi ori­gi­nale dello scac­chiere maliano, incu­nean­dosi nella realtà interna di que­sto affa­sci­nante paese. Come accen­nato sopra, la dimen­sione del sacro – l’influenza (bene­fica o fune­sta) del mondo «invi­si­bile» e delle sue com­po­nenti sull’esistenza della gente – segna in maniera inde­le­bile le men­ta­lità, indu­cendo le per­sone a vivere con un sen­ti­mento di pre­ca­rietà e di timore insor­mon­ta­bili.
Que­sta per­va­si­vità del sacro impone, per essere in qual­che modo amman­sita, misure di sal­va­guar­dia, che si tra­du­cono di solito nel lin­guag­gio della pre­ghiera, dell’invocazione della pro­te­zione divina e in una sorta di nego­zia­zione col sovran­na­tu­rale che passa per il sacri­fi­cio rituale o, in casi estremi, per il martirio.
Para­dos­sal­mente, nem­meno il discorso jiha­di­sta sfugge a tale dina­mica, pur pre­sen­tan­dosi come avulso da super­sti­zioni popo­lari, rispetto alle quali pro­pu­gna il ritorno alla purezza di un islam delle ori­gini, quello dei primi seguaci di Mao­metto (il ter­mine «sala­fita» deriva dall’espressione al-salaf al-salih che, in arabo, desi­gna gli ante­nati e, in par­ti­co­lare, gli anti­chi com­pa­gni del Pro­feta).
Il mes­sag­gio jiha­di­sta è riletto come por­ta­tore di una forza, l’islam com­bat­tente oggi vit­to­rioso, che non fa altro se non sovrap­porsi ad altre fedi o ad altre inter­pre­ta­zioni del Corano dif­fuse in area musul­mana. Insomma, vi sarebbe una sorta di com­pe­ti­zione nell’accesso al sacro, in cui risulta man mano imporsi, per­ché giu­di­cata più «effi­cace», una reli­gione piut­to­sto che l’altra (ad esem­pio, l’islam rispetto all’animismo tra­di­zio­nale) oppure una certa let­tura dell’insegnamento del Pro­feta rispetto alle molte dispo­ni­bili (si pensi alla con­trap­po­si­zione che si è creata in Africa fra l’islam waha­bita e le con­fra­ter­nite di matrice sufi o mistica).

La realtà del Pays Dogon e del suo capo­luogo, Ban­dia­gara, situato a circa 800 km a est della capi­tale, evi­den­zia in maniera con­creta que­sti com­plessi rap­porti. In mas­sima parte, i dogon ade­ri­scono all’islam, ma la pre­senza, fra loro, di cri­stiani, non è rara; ciò nono­stante l’influenza dell’animismo rimane un dato incon­tro­ver­ti­bile.
Durante una serie d’incontri con gua­ri­tori locali, di fede musul­mana e resi­denti in vil­laggi che ospi­tano almeno una moschea e una pic­cola scuola cora­nica, abbiamo veri­fi­cato la capa­cità della cul­tura autoc­tona di assor­bire, nel seno della cre­denza isla­mica, il prin­ci­pio cru­ciale della ricerca di un con­tatto col divino per fron­teg­giare le disgra­zie e pre­ser­varsi dal male, non solo rispet­tando i 5 pila­stri della fede (in pri­mis, la pre­ghiera), ma ese­guendo sacri­fici rituali, che ven­gono con­si­de­rati come segno di un patto stretto col sovran­na­tu­rale, dal carat­tere prov­vi­so­rio e da rin­no­vare costantemente.
Sono la paura e il biso­gno d’ingraziarsi l’aldilà a for­giare il rap­porto col divino, e ciò indi­pen­den­te­mente dall’ambito reli­gioso in cui si evolve: fra jiha­di­smo e pra­ti­che feti­ci­ste, il Mali sem­bra dun­que stretto in una morsa in cui è la con­sa­pe­vo­lezza della fra­gi­lità umana a svol­gere il ruolo maggiore.
il manifesto-18 marzo 2015

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