26 aprile 2015

UOMINI IN GABBIA



Il “diverso” come attrazione spettacolare o pseudoscientifica. Per secoli uomini e donne sono stati usati come attrazioni nelle corti di re e imperatori, nei circhi, nei giardini zoologici, alle esposizioni universali, nelle università.

Gian Antonio Stella

Quando negli zoo finivano gli uomini. Storie del nostro ordinario razzismo

«I barbari tengono i capelli sciolti e chiudono i loro abiti sul lato sinistro. Hanno volti umani e il cuore di bestie selvagge. Portano abiti diversi da quelli usati nell’impero di Mezzo, hanno altri usi e costumi, altro cibo e altre bevande, parlano una lingua incomprensibile... Di conseguenza, un governo saggio deve trattarli come bestie selvagge».

Lo storico e poeta cinese Ban Gu (…) viveva duemila anni fa alla corte di Chang’an, l’attuale Xi’an, a ottomila chilometri da Atene. Ma la pensava esattamente come Aristotele, che tre secoli prima, in una lettera ad Alessandro Magno, aveva teorizzato più o meno le stesse cose: «Con i Greci comportati da stratego, con i barbari da padrone, e curati degli uni come di amici e familiari, mentre gli altri trattali come animali o piante». (…)

Certo, già ventidue secoli fa c’era chi riconosceva l’assurdità di distinguere tra «noi» e «loro». Come gli autori del Libro del maestro di Huainan , una grande opera collettiva del II secolo a.C. composta alla corte dell’imperatore cinese Liu An: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. Questo perché sono diverse la loro educazione e le loro usanze. Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neppure quali costumi esistono nella sua patria».

Parole sagge. Eppure l’idea che gli altri fossero sempre meno «umani» e sempre più simili alle bestie, man mano che ci si allontanava da casa, è rimasto per secoli così radicato da spingere perfino Marco Polo, al ritorno dal suo viaggio in Cina durato complessivamente 17 anni, a raccontare, tra tante cose vere, alcune frottole inventate di sana pianta. Come quella sull’arcipelago delle Andamane, che lui chiama Angaman: «Angaman è un’isola, e no ànno re. E’ sono idoli, e sono come bestie salvatiche. E tutti quelli di quest’isola ànno lo capo come di cane e denti e naso come di grandi mastini».
Che senso c’era, a raccontare una balla così? C’era. I suoi contemporanei infatti, spiegano gli studiosi del tema, erano così convinti che nelle contrade più lontane delle Indie vivessero uomini bestia con la testa di cane, che se lui non l’avesse raccontato non l’avrebbero preso sul serio: «Chissà se Marco Polo è arrivato davvero in Cina, dato che non ha neanche visto gli uomini con la testa di cane…». In buona sostanza: avrebbe scritto quella sciocchezza per accontentare le aspettative dei suoi concittadini.

Un po’ quello che avrebbe spinto due secoli dopo il canonico di Magonza Bernhard von Breitenbach a popolare la mitica Terrasanta, Peregrinatio in terram sanctam , nel 1486, di giraffe con le corna e cammelli tirati per la cavezza da pelosissimi uomini-scimmia nudi con tanto di coda. E la Chronica Mundi del tedesco Hartmann Schedel insisteva ancora nel 1493, cioè dopo la scoperta dell’America, su una serie di figure mitologiche: la donna-scimmia, l’uomo-uccello, l’uomo-lupo, lo sciàpodo con un piede solo, il panozio dalle immense orecchie, di cui si serviva la notte come fossero coperte.

Spiega George L. Mosse, autore del fondamentale Il razzismo in Europa , che il concetto dell’uomo-bestia, radicato nelle leggende dei secoli bui, si protrasse a lungo in Occidente «dove era diffusa la credenza che le scimmie fossero effettivamente non un genere totalmente differente, ma una specie inferiore di uomo, che si rifiutava di parlare per non essere ridotta in schiavitù». E cita ad esempio lo scienziato e medico britannico Edward Tyson, il quale pensava che i pigmei fossero «scimmie perché avevano i nasi schiacciati e una statura piccola».

I pregiudizi si radicarono a tal punto, nella scia di «scienziati» come G. Battista Della Porta che nel 1610 pubblicò Della fisionomia dell’uomo (teorizzando ad esempio che «Le labra grosse dimostrano stoltizia, come scrisse Aristotele ad Alessandro. (…) Quei ch’han le labbra grosse (…) sono giudicati ignoranti, perché così sono quelle dell’Asino, della Simia») che nel 1869 il filosofo tedesco Eduard von Hartmann si spinse a sostenere, nel saggio Philosophie des Unbewussten , una tesi spaventosa.

«Non si fa certo un favore al cane, la cui coda dev’essere tagliata, quando gliela si taglia gradualmente, centimetro per centimetro», scrisse. «Altrettanto poco umano è prolungare artificialmente la lotta contro la morte dei selvaggi che si trovano sull’orlo dell’estinzione... Il vero filantropo non può altro che desiderare un’accelerazione dell’estinzione dei popoli selvaggi, e prodigarsi per questo scopo».

Il filosofo inglese Herbert Spencer, nei Principi di sociologia dove plaudiva al colonialismo al servizio della civilizzazione, era d’accordo: «Le forze che stanno elaborando il grande schema della felicità perfetta, non tenendo conto della sofferenza incidentale, sterminano quei settori del genere umano che intralciano la loro strada... Siano esseri umani oppure bestie l’ostacolo deve essere rimosso».

Non c’è dunque da stupirsi se moltissimi uomini «strani», come racconta Viviano Domenici nel libro Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica , sono stati usati a lungo come attrazioni nelle corti di re e imperatori, nei circhi, nei giardini zoologici, alle esposizioni universali. Perfino in quella del 1889 che a Parigi celebrò un secolo dopo la Rivoluzione francese e la solenne Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Perfino allora, all’ombra della torre Eiffel appena costruita, fu offerto ai trentadue milioni di visitatori lo show di un «villaggio africano» con 400 «selvaggi» della Guinea al seguito del re Dinah Salifou più 18 angolani, 18 ghanesi e decine di senegalesi, indocinesi e tahitiani.

Trabocca di storie stupefacenti, il libro di Domenici: da quella di José Calafate che dalla Terra del Fuoco fu portato a Parigi per essere mostrato sotto il cartello «Cannibali» a quella dell’apache Geronimo, che dopo aver combattuto per tre decenni i bianchi, che gli avevano massacrato la madre, la moglie e tre figlioletti, finì per essere un’attrazione nel 1904 all’esposizione di Saint Louis, dove il giornale locale scrisse che guardava i visitatori «con la stessa curiosità che loro riservano a lui». Per non dire della tragedia di otto inuit portati nel 1880 dal Labrador in Europa e decimati dal vaiolo o dei congolesi messi in mostra a Bruxelles nel 1897, chiusi in recinti con cartelli simili a quelli che diffidano dal dare noccioline agli elefanti: «Non dare da mangiare ai negri, sono nutriti».

Un libro affascinante e tremendo. Che ci obbliga a rileggere la nostra storia con una vertigine di sensi di colpa. E magari a dire una preghiera, finalmente, per tanti esseri umani che sono stati traditi. Come il pigmeo «Ota Benga» che nel 1906 attirò l’attenzione del «New York Times» sotto il titolo «Boscimano divide una gabbia con le scimmie dello zoo del Bronx» e dieci anni dopo, una sera che non ce la faceva più, si spogliò nudo tenendo solo il perizoma e cominciò a ballare intorno al fuoco, finché prese una pistola chissà come recuperata e si sparò al cuore.


Il Corriere della sera – 23 aprile 2015
 
 

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