23 aprile 2015

RICORDARE I CRIMINI DEL FASCISMO




Ricordare la Resistenza significa prima di tutto fare i conti con i crimini del fascismo. Come la guerra chimica di Badoglio e Graziani in Etiopia, a lungo nascosta anche dopo la fine del regime.

Corrado Stajano

Etiopia, l’infamia del gas negato


L’incapacità o, meglio, il rifiuto dell’Italia ufficiale di fare i conti con il proprio passato è il doloroso tema del libro di Simone Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza editore). L’argomento affrontato dal giovane storico è la guerra italiana contro l’Etiopia del 1935-1936, la conquista dell’impero, dimenticata dopo il 1945, un po’, comprensibilmente, per tutto quanto è accaduto dalla Liberazione in poi, un po’, dolosamente, per la volontà di cancellare la memoria dell’essenza del fascismo.
Quella d’Etiopia fu per l’Italia una «guerra nazionale», come la definisce Belladonna, il conflitto più importante del Novecento, se si eccettuano le due guerre mondiali. Fu una guerra del fascismo in competizione con le grandi potenze mondiali, non solo un’avventura coloniale alla ricerca di un «posto al sole».

Il fascismo, in quegli anni, era arrivato all’apice del consenso, ma Mussolini, come tutti i dittatori, era sempre desideroso di nuove gratificazioni, di nuovi successi, di nuovo prestigio, mentre l’astro di Hitler aveva cominciato a risplendere in Germania. Secondo qualche storico la Seconda guerra mondiale cominciò proprio con l’aggressione all’Etiopia, si dimentica però come fu importante internazionalmente, politicamente, culturalmente la guerra civile spagnola. Il celebre discorso di Carlo Rosselli, pubblicato da «Giustizia e Libertà» il 20 novembre 1936, «Oggi in Spagna domani in Italia», infiammò le nuove generazioni e fu il test dell’immane conflitto che doveva scoppiare tre anni dopo.

La guerra d’Etiopia — 3 ottobre 1935-9 maggio 1936 — fu per l’Italia la vergognosa guerra del gas, la guerra del colonialismo più becero, dei crimini più efferati: «Alla vista di questi indigeni nasce in noi l’orgoglio che prima non conoscevamo: quello di esser bianchi». (È la testimonianza di una camicia nera, Niccolò Giani, scritta in un libro di memorie, che rappresenta bene lo spirito del tempo).

Il saggio di Belladonna è rigoroso, addirittura ossessivo, come dovrebbe essere ogni ricerca storica. Allarga il suo raggio d’azione all’eterno pregiudizio espresso dalla frasetta mitologica «italiani brava gente»: la digressione è utile, il saggio racconta anche quel che successe nei Balcani nel 1942, le gesta impunite di Mario Roatta che in Croazia ordinò di incendiare case, di fucilare ostaggi, di arrestare i famigliari dei partigiani. Il generale andò anche oltre i desideri di Mussolini: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali e incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta».

La guerra del gas, dunque, pervicacemente negata dagli anni Trenta del Novecento ad appena ieri. In Etiopia fu usato ogni tipo di proiettile caricato a fosfene, arsine, iprite. Micidiale, poi, la bomba C.500.T: goccioline corrosive e mortali dall’odor di senape. Qualche azione, tra le molte altre: l’11, il 12 e il 15 febbraio 1936 quegli ordigni furono usati contro l’Amba Aradam; il 16 marzo sei bombe C.500.T caddero su Quoram dove, fino agli ultimi giorni del mese, furono lanciate 125 bombe all’iprite.
Secondo il Diario storico del Comando della Regia Aeronautica, tenuto a lungo nascosto, dal 22 dicembre 1935 al 31 marzo 1936 furono 991 le bombe C.500.T gettate sull’esercito etiopico. Il 23 gennaio migliaia di donne e bambini asserragliati nella grotta di Zeret furono uccisi da 9.724 kg di aggressivi chimici e da 10.868 kg di iprite.

I marescialli Badoglio e Graziani furono gli esecutori senza mai un dubbio, risulta, degli ordini del duce: l’acritica apologia del regime, il culto vitalistico della guerra furono la loro religione. Accumulammo i morti per salire, si potrebbe dire.

Il segreto del gas in Etiopia ha gravato per tanto tempo su quelle azioni criminali. Le incolpevoli istituzioni dell’Italia democratica dopo la Liberazione l’hanno difeso coi denti. Gas in Etiopia rende onore a Angelo Del Boca, lo storico che con la sua testarda passione, la sua pazienza, il suo coraggio e i suoi saperi non confutabili ha squarciato quei vergognosi veli.
Autore della monumentale opera Gli italiani in Africa Orientale (Laterza) , ha viaggiato a lungo in Etiopia, ha raccolto testimonianze preziose — dall’Imperatore Hailé Selassié al ras Leul Immirù —, ha cercato, dal 1965, documenti negli archivi militari e diplomatici e ha dovuto subire divieti, superare muri massicci di rifiuti e di silenzi. Dei ministeri, degli stati maggiori, delle associazioni di reduci, dei nostalgici, degli ultimi complici, dei fedeli al principio di continuità dello Stato.

Indro Montanelli che, volontario, aveva preso parte all’impresa etiopica, autore di tre libri su quel tema, fu a lungo polemico con Del Boca per i suoi severi giudizi. Il giornalista negava le atrocità italiane in Etiopia: non aveva né visto né sentito nulla, diceva. Il fatto, poi, aggiungeva, non corrisponde mai al documento. La nostalgia della giovinezza cancella la ragione, replicava Del Boca. «La mia papera sul gas rimane e ne chiedo scusa», si convertì Montanelli anni dopo.

Dovevano passare sessant’anni perché l’Italia riconoscesse ufficialmente che in Etiopia il gas era stato usato in modo sistematico soprattutto dall’aviazione, «l’arma azzurra», la preferita dal fascismo. Ad aprire gli archivi fu il governo Dini, nel 1995. Saltarono fuori allora i telegrammi del duce, gli ordini degli stati maggiori, i documenti della guerra chimica.

C’è davvero poco da negare o da sottovalutare quel che allora accadde. La guerra d’Etiopia fu, se non l’inizio della Seconda guerra mondiale, una prova generale di quel che doveva venire dopo, il napalm, gli ordigni a frammentazione, le mine antiuomo, il gas nervino, i proiettili all’uranio, le bombe intelligenti e quelle sporche. Senza dimenticare mai l’atomica.

Il Corriere della sera – 3 aprile 2015

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