Ancora sull'Armenia.
Questa volta parliamo del giovane Gramsci, giornalista socialista a
Torino, che nel 1916 con grande coraggio e onestà denunciò il
genocidio armeno.
Nadia Urbinati
Gramsci e l’Armenia
«Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità».
Cominciava così
l’articolo che Antonio Gramsci dedicava al massacro degli armeni,
uscito su Il Grido del Popolo l’11 marzo 1916 (e tradotto ora in
inglese da Ara H. Merjian). Ci commuoviamo per ciò che succede
vicino a noi e siamo indifferenti a tutto il resto. Per questo, il
ruolo del giornalismo è importante: per rendere pubblico e noto a
tutti quel che avviene in ogni angolo della terra e non lasciare,
come scriveva Kant, che nessuna offesa alla vita di un essere umano
passi senza eco.
L’indifferenza,
scriveva Gramsci, è figlia dell’ignoranza. «È un gran torto non
essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio
dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per
una razza, significa il lento dissolvimento, l’annientarsi
progressivo di ogni vincolo internazionale, l’abbandono a se
stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la
spada e la coscienza di obbedire a un obbligo religioso distruggendo
gli infedeli».
Il torto di non essere conosciuti aveva decretato la sorte degli armeni, una premonizione di altri massacri coperti dall’oblio. «Così l’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici; “le stragi armene” divennero proverbiali, ma erano parole che suonavano solo, che non riuscivano a creare dei fantasmi, delle immagini vive di uomini di carne e ossa».
Si era all’inizio della
Prima guerra mondiale. E la guerra aveva tolto il velo al massacro
del popolo armeno; prima di allora, «niente mai fu fatto» anche se
i Paesi europei avrebbero potuto «costringere la Turchia, legata da
tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal
modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in
pace».
Il genocidio degli armeni
ha messo a nudo diverse responsabilità, quelle dirette di chi li
massacrò e quelle indirette di chi non fece nulla per fermare il
massacro e farlo conoscere. Pochi anni dopo, con la Lega delle
Nazioni fallita miseramente, l’umanità avrebbe assistito, inerme,
al genocidio degli etiopi per opera dell’esercito italiano. Il
genocidio degli armeni era un segno di quel che la Prima guerra
avrebbe portato con sé. Gramsci toccava un nervo sensibilissimo
della politica europea, quello delle responsabilità della comunità
internazionale nella violazioni dei diritti umani.
«La guerra europea ha
messo di nuovo sul tappeto la questione armena. Ma senza molta
convinzione. Alla caduta di Erzurum in mano ai russi, alla probabile
ritirata dei turchi in tutto il paese armeno non è stato dato nei
giornali neppure lo stesso spazio che all’atterramento di uno
“Zeppelin” in Francia».
Gramsci si rivolgeva ai
membri della comunità armena disseminati nei Paesi europei affinché
facessero, loro per primi, conoscere «la loro patria, la loro
storia, la loro letteratura», confidando nel fatto che la conoscenza
li facesse diventare un oggetto di simpatetica solidarietà. Rendere
conto con vivide descrizioni e parole per muovere le emozioni e far
nascere un giudizio di condanna. Sapere e fare conoscere, non mettere
sotto silenzio o censurare (come ancora oggi pare chiedere il governo
turco con le sue rimostranze per le parole pronunciate domenica da
Papa Francesco).
Quando Gramsci scriveva il suo articolo, l’Italia era da alcuni mesi entrata in guerra contro gli ex-alleati austro-tedeschi. Era prevedibile che contro i nuovi nemici tedeschi, e gli imperi alleati a loro come quello turco-ottomano, gli italiani venissero invitati a simpatizzare con le sofferenze armene.
Ma Gramsci non si prestò
a questo uso strumentale della simpatia per le vittime. La sua
“attiva e operante” azione giornalistica voleva avere la funzione
di denunciare le atrocità turche senza usarle per aizzare sentimenti
anti-tedeschi. Ciò che lo interessava prima di tutto era la
“solidarietà disinteressata” internazionale verso gli armeni e
altre potenziali vittime di massacri collettivi. E infatti, la
carneficina degli armeni per opera dell’esercito guidato dal
Sultano Abdul Hamid aveva destato l’ammirazione del re Leopoldo II
del Belgio, impegnato nell’eliminazione di milioni di congolesi.
La tragedia del popolo
armeno era dunque, come Gramsci aveva ben compreso, premonizione e
rappresentazione al tempo stesso dell’epilogo tragico di quel che,
vista da dentro l’Europa, era apparsa come una lunga età di pace,
e che aveva invece approntato le condizioni per i massacri e i
genocidi del ventesimo secolo, a cominciare da quelli che con un
eufemismo i nostri libri di scuola chiamano ancora oggi “guerre
coloniali”.
La costellazione di
implicazioni che il massacro armeno portava con sé rendeva ancora
più necessario che se ne parlasse, dunque. «Gli armeni dovrebbero
far conoscere l’Armenia — concludeva Gramsci — renderla viva
nella coscienza di chi ignora, non sa, non sente».
La Repubblica – 15
aprile 2015
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