Nelle sale cinematografiche è arrivato l'ultimo film di Nanni Moretti. Riproponiamo di seguito l'intervista di Elena Stancanelli al regista.
Elena Stancanelli intervista Nanni Moretti
L’ultimo film di Nanni Moretti si intitola Mia madre. Semplicemente. È un film potente, commovente, importante. Racconta il nostro spaesamento di fronte alla morte. La protagonista, Margherita, è una regista che sta girando un film ambientato in una fabbrica. Mentre insieme al fratello Giovanni, ingegnere, assiste la madre – sempre più debole, sempre più confusa – in ospedale.
Incontro Nanni Moretti nel suo studio, alla Sacher Film.
«Semplicemente… La semplicità… Non so. Cos’è la semplicità? Mia madre mi sembrava il titolo giusto, ecco».
Philip Roth, in quel libro meraviglioso in cui racconta la morte del padre, “Patrimonio”, chiama il suo personaggio Philip Roth e non più Nathan Zuckerman o David Kepesh. In “Mia madre” il suo personaggio si chiama Giovanni e quello di Margherita Buy, Margherita.
«Sì, ma si tratta sempre di un film, o di un libro. Non è una confessione. Ci sono inquadrature, scelte, interpretazioni. Non è la vita».
Indica la parete alla mia destra.
«Questi sono i finti manifesti dei finti film che produceva Silvio Orlando nel Caimano: Cataratte, Mocassini assassini. Maciste contro Freud è il mio preferito».
Nelle prima scene, lei sembra divertirsi a far fare e dire a Margherita cose “alla Nanni Moretti”. Perché ha scelto di non interpretare lei stesso, quel personaggio?
«Ho sempre pensato che la protagonista di questo film sarebbe stata una donna, e una regista. E che quella donna sarebbe stata Margherita Buy per un motivo molto semplice: un film che ha per protagonista Margherita Buy e non me, viene meglio. Lei è molto più brava. E poi perché volevo raccontare questo senso di inadeguatezza – nei confronti della madre, della figlia, del lavoro – con un personaggio femminile».
Per questo ha scritto il soggetto con tre donne, tre scrittrici e sceneggiatrici, Chiara Valerio, Gaia Manzini, Valia Santella?
«Forse sì, ma non era una cosa pensata a tavolino, programmata. Però forse sì: Gaia Manzini e Chiara Valerio quasi non le conoscevo, le avevo incontrate a una lettura. Ognuno di noi leggeva un pezzo da un libro di Sandro Veronesi. Poco dopo, quando ho deciso di cominciare a lavorare a questo soggetto le ho chiamate. Valia invece è una mia amica, lavoriamo insieme da tanto tempo».
Ma la sceneggiatura l’ha scritta invece soltanto con Valia Santella e Francesco Piccolo.
«Sì, non so perché. Mi sembrava la cosa giusta da fare. Negli anni ho sperimentato che scrivere in tre è la formula migliore».
La narrazione di questo film ha un andamento emotivo, non lineare. Il confine tra quello che è vero e quello che non è vero è incerto. C’è una scena molto suggestiva, una lunga fila di spettatori davanti al cinema Capranichetta, dove proiettano Il cielo sopra Berlino. Tra loro una Margherita giovanissima, Margherita adesso, la madre anziana e Giovanni che dice: «Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso. Dai, rompi almeno un tuo schema. Uno su duecento.Non riesci ogni tanto a lasciarti andare, a essere un po’ leggera? Dai».
«Il tempo del film è il tempo di Margherita, dei suoi stati d’animo in cui tutto convive e con la stessa urgenza, l’apprensione per la madre, l’inadeguatezza, i sogni, i ricordi. Di solito faccio passare parecchio tempo tra un film e l’altro. Ho bisogno di lasciarmi alle spalle l’investimento psicologico, emotivo. Ci metto sempre un bel po’ di tempo per ricaricarmi. Stavolta invece, appena uscito Habemus papam, ho cominciato subito a pensare a questo film. Ho iniziato a scrivere quando nella mia vita erano appena successe le cose che ho poi raccontato nel film. Forse questo ha influito sulla sua qualità narrativa».
Un film così è più difficile degli altri, da pensare, girare, raccontare?
«No, direi di no. C’è stato solo un momento, dopo la prima stesura delle sceneggiatura, quando sono andato a rileggere i miei diari scritti durante la malattia di mia madre. L’ho fatto perché immaginavo che quei dialoghi, quelle battute, avrebbe potuto aggiungere peso e verità alle scene tra Margherita e la madre. Ecco, rileggere quei quaderni è stato doloroso».
Mia madre è un film sobrio ma commuove, commuove moltissimo. Lo scambio di battute finale tra Margherita e la madre (che non vi racconto) spezza il cuore, resta piantato nella testa per sempre. Che effetto le fa questa commozione?
«Da una parte, intimamente, mi fa piacere perché mi sembra di commuovere senza essere stato ricattatorio, dall’altra mi verrebbe da dire allo spettatore “dai, non ti preoccupare, la prossima volta farò un film che sarà tutta una commedia…”».
Parlerebbe di autobiografia, o auto-fiction per il suo lavoro?
«Il termine auto-fiction non l’ho capito bene. E auto-biografia… Ogni storia è autobiografica. Parlavo di me quando raccontavo del senso di inadeguatezza del papa interpretato da Michel Piccoli e quando, invece, mettevo in scena le vicende private di Silvio Orlando nel Caimano, o il suo lavoro. Più che misurare il tasso di autobiografia penso che sia importante un approccio personale a qualsiasi storia».
Nel modo di raccontare o dando forza al racconto inserendo qualcosa di privato?
«Tutte e due le cose. È importante un modo non ovvio di raccontare, un modo non accademico, una narrazione che non si accontenti di fare bene i compiti. Che conoscendo le regole del racconto possa farne a meno. Ma è importante anche che risuoni sempre qualcosa di te, dentro quello che stai raccontando. Non bisogna mai avere un rapporto qualunque con la materia che si vuole rappresentare».
Cosa ha letto o visto per preparare questo film?
«A casa ho più di un scrivania e nei periodi di grande lavoro, durante le riprese, gli oggetti si accumulano. Quando ho finito di girare Mia madre mi sono reso conto che film e libri che avevo immaginato di dover rivedere e rileggere – perché avevano a che fare col dolore, la perdita e la morte - non avevo fatto in tempo a rileggerli o rivederli. È stato un enorme sollievo rendermi conto che ormai non ce n’era più bisogno. Ho rivisto Un’altra donna di Woody Allen, ma non ho rivisto il film di Haneke, Amour che avevo sulla scrivania. E soprattutto non ho letto Roland Barthes. Dopo la morte di mia madre un’amica mi aveva regalato Dove lei non è, il diario del lutto, che Barthes scrisse durante la malattia della madre. Quell’amica mi aveva detto che a lei aveva fatto molto bene. L’ho aperto, una pagina a caso, ho letto due righe che mi hanno fatto stare molto male e l’ho richiuso. Alla fine delle riprese l’ho tolto dalla scrivania e messo nella libreria. Per fortuna non avevo più bisogno di immergermi nel dolore».
In una scena la madre chiede a Margherita come mai le è venuto in mente di fare un film sulle persone che perdono il lavoro e lei risponde “Guarda mamma che non è un film triste, è un film pieno di energia, di speranza”: ma la madre non sembra convinta, e forse neanche Margherita. La fabbrica, quella che rischia la liquidazione, è in effetti un luogo angosciosissimo. Dove ha girato?
«Sono due posti diversi, una tipografia sulla Tiburtina e un’industria di carta a Pomezia. C’è una scena che ho tagliato in cui Margherita dice alla figlia: “Nei miei film io non ci sono mai”. E la figlia le risponde “Vabbè, ma non è che devi per forza parlare di te”. E Margherita le dice “No, per forza no, ma mi piacerebbe fare dei film più personali”. Ecco, volevo che Margherita, investita dalla vita e dai suoi problemi, facesse un film politico più che personale. Nella scena della conferenza stampa, un giornalista le chiede: “In un momento così delicato per la nostra società, lei pensa che il suo film riuscirà a parlare alla coscienza del Paese?”. Lei inizia a rispondere in modo standard: “Ma oggi è proprio il pubblico che ci chiede un impegno diverso…”. Ma dopo un po’ la sua voce sfuma e noi sentiamo i suoi pensieri: “Sì, certo… il compito del cinema… Ma perché continuo a ripetere le stesse cose da anni? Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente”. Volevo che la solidità, le certezze del suo film fossero completamente in contrasto con lo stato emotivo di Margherita, quello che sta vivendo e quello che lei percepisce di sé. Volevo che ci fosse anche questo scollamento tra un film molto strutturato e il momento delicato che lei sta attraversando».
Il protagonista del film che sta girando Margherita è un industriale, interpretato da John Turturro. Come è arrivato a lui, come l’ha scelto?
«Bisogna sempre partire da come si è fatti, da come sono fatto io. Alcuni registi, che hanno fatto molti meno film di me, non hanno problemi a chiamare una qualsiasi star internazionale. Ecco io non sono fatto così. Ho chiamato lui perché mi piaceva molto, e non mi sembrava un attore naturalistico. Ma anche perché un po’ ci conoscevamo, perché lui aveva già un rapporto con l’Italia (ha girato anche un bel documentario sulla musica napoletana, Passione)».
E lui senz’altro conosceva i suoi film.
«Aveva visto qualche mio film, sì, e questo mi rassicurava molto. Non ho difficoltà ad ammettere che avrei dei problemi a dover partire spiegando chi sono, cosa voglio, com’è il mio cinema… Turturro parla e capisce un po’ l’italiano. E poi è anche un regista. È una bella cosa lavorare con attori che sono anche registi, è più facile capirsi».
«Voglio vedere l’attore accanto al personaggio», è una battuta che dice spesso Margherita, quando dà indicazioni sul set.
«Questa è una cosa che dico sempre io. Non lo so se viene capita dagli attori ma alla fine riesco a ottenere dalle loro interpretazioni quello che avevo in mente».
La madre è interpretata da una superba Giulia Lazzarini.
«Lei, attrice del Piccolo Teatro, ha una storia molto diversa dalla mia, ma è stato un incontro fortunato. Non solo ha capito me, è entrata dentro il mio film ma, non so come, ha anche capito mia madre».
Sua madre era un’insegnante.
«Ha insegnato 33 anni al liceo Visconti di Roma. Lettere al ginnasio e, negli ultimi anni, latino e greco al liceo. Ogni settimana incontro almeno una persona che mi dice di essere stata sua allieva. A volte anche qualcuno che è stato allievo di mia madre al liceo e di mio padre all’università (insegnava epigrafia greca). Molti alunni sono venuti a trovarla per anni, dopo aver fatto la maturità. Io non ho mai avuto un rapporto così con nessun professore di scuola. Sto per dire una cosa un po’ dolorosa che mi scoccia un po’ dire però la dico: dopo la morte di mia madre, attraverso le cose che dicevano i suoi ex alunni, ho avuto la sensazione che mi fosse sfuggito qualcosa di importante di lei, che loro, i suoi ex alunni, erano riusciti a cogliere e comunicarmi. Qualcosa di sostanziale».
Non è sempre così? Le persone non si rivelano mai per intero, hanno segreti, sono diverse a seconda di chi hanno davanti.
«Non so…».
Cosa ha imparato, facendo film? Cose che all’inizio non sapeva e adesso sa?
«A questa domanda posso rispondere con precisione: mi sento esattamente come al primo film. La stessa angoscia, confusione, insicurezza. Non penso che per tutti sia così, penso che per molti valga l’esperienza, il mestiere che si accumula o una certa freddezza. Io ho questa sensazione netta: mi sento sempre come se fosse il mio primo film. Anzi, stavolta sono anche più in ansia. Qualcuno mi dice che è il mio film più personale, forse è per questo. Ma io non lo so».
Se lo aspettava, che sarebbe andata così?
«No, non me lo aspettavo. Però qualcosa ho imparato. Sono un po’ più buono con gli attori, più solidale, più dalla loro parte, ecco. Cos’altro ho imparato… Ecco, questa è una cosa che ho capito abbastanza presto: che quando il film esce non è più soltanto una cosa tua. Il pubblico lo vede, lo trasforma. Ci sono delle cose che ti erano sfuggite e che il rapporto con il pubblico svela, ti si chiariscono».
C’è stato un momento nella sua storia di artista…
«A me fa impressione quando mi dicono artista… Meglio regista».
…nella sua storia di regista, in cui, dopo i primi film, ha deciso di cominciare a scrivere con qualcun altro.
«Ho preso questa decisione in un momento esatto. La mia storia di regista è sempre stata collegata alle mie esperienze di spettatore. Da giovane guardavo i film in maniera arida, formale, razionale. E i miei film, i primi, erano legati a quel rigore. Quello che mi piaceva negli altri registi, e che in loro era rigore, nei miei film forse diventava rigidità. Ero fissato, per esempio, con la camera da presa fissa. Volevo che lo spettatore non dimenticasse mai che non era realtà quella che aveva di fronte, ma una messinscena. Poi un pomeriggio sono andato al cinema Empire di Roma a vedere La signora della porta accanto, di Truffaut. Di solito prima di andare al cinema leggevo tutto, perché, brechtianamente, pensavo non ci fosse niente di male a conoscere la trama di un film prima di vederlo, anzi. Ma quella volta non sapevo niente e la scena finale, quella dell’omicidio-suicidio, mi sorprese e mi colpì come non mi era mai capitato. A luci accese, rimasi qualche minuto fermo, sulla mia poltrona. Ecco, quell’esperienza è stata l’inizio di un modo nuovo di vedere i film, meno arido, più emozionato. E anche di farli».
Ed è in quel periodo che inizia a scrivere con Sandro Petraglia.
«Volevo un intreccio, una trama, volevo emozionare perché avevo cominciato a emozionarmi come spettatore. Abbiamo scritto insieme Bianca e La messa è finita. Poi, il mio “lavoro” di spettatore mi ha spostato di nuovo da un’altra parte. Era la fine degli anni Ottanta e uscivano solo film in cui la scrittura aveva sì ritrovato lo spazio che meritava, ma era diventata accademica. Chi scriveva si accontentava di fare benino quello che era stato fatto molto bene venti, trent’anni anni prima. Allora per reazione ho scritto film narrativamente più liberi, da solo, Palombella rossa e poi Caro diario e Aprile. Film per i quali non avevo bisogno di una sceneggiatura rigida, che mi lasciavano spazio per quello che accadeva durante le riprese. E con i quali mi sono anche affrancato da Michele Apicella. In Palombella rossa Michele, dirigente del Partito comunista, soffre di amnesia, per colpa di un incidente stradale, e non si ricorda più chi è. Quell’amnesia non era lì soltanto perché avevo individuato nella memoria un problema della politica e della società italiana, oltre che del Partito comunista. Ma l’ho capito dopo: Michele aveva un’amnesia perché io volevo dimenticarlo, staccarmi da lui, creare una discontinuità. Cercavo un nuovo rapporto con lo spettatore. Ero stufo di quella sfida western che c’era tra il mio personaggio da una parte e tutti gli altri personaggi dall’altra. Tornando a che cosa ho imparato: se sono cambiato come sceneggiatore, come attore, come regista non per una maturazione professionale, ma è perché, forse, un po’ sono cambiato come persona. Quel poco, pochissimo che si può cambiare nella vita».
Secondo lei è più importante essere seri o coraggiosi?
(Ride) «E questa che domanda è?».
È una domanda scema, ha ragione. Ma sono due aggettivi che io associo sempre al suo lavoro di regista. E che mi sembrano le doti più importanti per riuscire a fare qualcosa di buono.
«La parola serietà mi fa venire in mente che intorno al cinema ci dovrebbe essere serietà e allegria e, invece, in Italia spesso c’è mestizia e sciatteria (e lo dice proprio con quel tono di «Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne». Irresistibile…)».
Cosa serve per diventare un bravo regista?
«Tutto. Serve una scuola di cinema, serve cominciare conuna telecamera e fare i propri film – magari creando un proprio gruppo di lavoro perché la solitudine può essere esaltante ma alla fine è faticosa e noiosa – serve fare l’assistente volontario sui set. Serve tutto. Serve vedere bei film e serve vedere brutti film, per costruirsi un proprio senso critico».
Ma lei non ha fatto una scuola di cinema?
«No. Però un giorno ho preso il motorino e da Prati sono andato fino a Cinecittà. Avevo appena finito il liceo. Sono andato a informarmi al Centro Sperimentale ma mi hanno detto che per iscriversi serviva la laurea. Così me ne sono tornato nel mio quartiere. Felicissimo. Poco dopo dissi ai miei genitori che volevo provare a fare il cinema e che non mi sarei laureato e loro mi dissero va bene. Non mi hanno mai ostacolato. Come padre sono meno discreto e più apprensivo (Pietro che abbiamo visto appena nato in “Aprile” adesso ha 19 anni e dipinge…)… Meno discreto e più apprensivo, già… Ma non ci posso fare niente».
Cosa le rimane in testa del suo film, adesso che è finito?
«Mah… Quando giravo, mi chiedevo spesso che cosa stesse provando la ragazzina che fa la parte della figlia di Margherita. Aveva tredici anni, allora, adesso ne ha quattordici. Vedevo che aggiungeva delle parole, cambiava i movimenti anche solo di pochissimo… Chissà cosa sentiva, del film e del suo personaggio. Ma naturalmente non gliel’ho mai chiesto».
Questa intervista è uscita su il Venerdì di Repubblica. Noi l'abbiamo ripresa da http://www.minimaetmoralia.it/.
Mi è piaciuta soltanto la parte più intima del film, quella che analizza e descrive realisticamente il legame affettivo dei figli con la madre e di quest'ultima con la nipote. Il resto mi è apparso posticcio
RispondiEliminaE' stato presentato come il film della riflessione sulla morte.....mah,convince poco sotto questa prospettiva...Moretti parla sempre di Moretti, e a volte stanca e sembra la solita solfa....sono troppo critica?
RispondiEliminaCara Grazia, sono sostanzialmente d'accordo con te; e, anche se non siamo dei critici cinematografici, credo che abbiamo diritto di esprimere le nostre opinioni
RispondiEliminaDevo confessare che alcune inquadrature erano efficaci, passavano messaggi di speranza e di intensità affettiva tra nonna e nipote, insegnante e allievi, mamma e figli.....ma credo sia stato ingigantito il valore del film, tutto qui.
RispondiEliminaHai ragione Francesco, non siamo critici cinematografici ma un film è diretto soprattutto a quelli come noi, giusto?
Moretti è bravo, non eccellente:(