03 aprile 2015

ALIMENTAZIONE E RELIGIONE





E' in libreria Homo dieteticus dell'antropologo Marino Niola. Un viaggio (non privo di ironia) fra crudisti, sushisti, vegetariani, vegani e le altre "tribù" che della dietetica hanno fatto una nuova religione. Il libro riprende e sviluppa una serie di articoli già apparsi su Repubblica. Ne riproponiamo uno che tratta del rapporto tra alimentazione e religione.

Marino Niola

Quello che passa il convento

Più che sulla bilancia il cibo pesa sulla coscienza. Lo dimostrano le privazioni cui ci sottoponiamo da millenni. In principio per la salvezza dell'anima, oggi per la salute del corpo. Una volta in nome di dio, adesso in nome dell'io. Ma al di là delle motivazioni, spesso gli argomenti e i comportamenti si somigliano in maniera sorprendente.

Certo è che da che mondo è mondo religione fa rima con restrizione. Penitenza con astinenza. Magrezza con purezza. Ne erano arciconvinti i Padri della Chiesa, come Tertulliano che considerava il digiuno un passaporto per la vita eterna. Di fatto il moralista di Cartagine trasforma peso e taglia in misure spirituali. Sostenendo che i corpi superslim passano più agevolmente per la porta del Paradiso, che è notoriamente stretta come la cruna di un ago. Oltretutto, se si è molto leggeri, il giorno del giudizio la resurrezione della carne sarà rapida.

E non era da meno sant'Atanasio, per il quale «il digiuno guarisce le malattie, libera il corpo dalle sostanze superflue, scaccia i demoni, espelle i cattivi pensieri, purifica il cuore». Insomma depura l' anima e redime la carne. Come dire che l' Onnipotente è il supremo dietologo dell' umanità e allontanarsi dalle sue prescrizioni non solo nuoce gravemente alla salute ma è anche di ostacolo alla salvezza.

Non a caso san Tommaso d' Aquino nella Summa Teologica teorizza la necessità di eliminare dal regime del buon cristiano tutti quei bocconi prelibati che danno piacere e predispongono al peccato. Perché appetito e desiderio sono due facce della stessa medaglia.

Lo diceva anche Platone, cinquecento anni prima del Cristianesimo, quando considerava copule e crapule, "etère e manicaretti", due bombe a tempo per la Repubblica. E in fondo dall' antica cena di Trimalcione ai più recenti Bunga Bunga corre un lungo filo rosso che unisce letti e tavole.

E questo resta vero perfino in una società apparentemente secolarizzata come la nostra. A dirlo è l' antropologa femminista Elspeth Probyn dell' Università di Sidney nel suo Carnal Appetites: Foodsexidentities che individua negli chef televisivi - come Gordon Ramsey, Jamie Olivere Carlo Cracco-i sex symbol del nostro tempo proprio in quanto dispensatori di piaceri, ancorché alimentari.

Su questa linea rigorista sono sempre state d' accordo tutte le religioni, monoteiste e non solo. Se gli antichi Greci erano tenuti ad astenersi dal cibo per prendere parte ai Misteri Eleusini e a quelli Orfici, i Farisei non mangiavano per ben due giorni alla settimana, il lunedì e giovedì.

Gli Ebrei invece praticano l' astinenza in occasione dello Yom Kippur, il giorno dell' Espiazione. Mentre i Musulmani lo fanno durante il periodo del ramadan, quando la doppia rinuncia, alimentare e sessuale, purifica l' uomo eliminando i principali fattori di corruzione spirituale e di contaminazione fisica.

E nell'I n d u i s m o , c o m e d i c e v a Gandhi, non c' è preghiera senza digiuno. Stare a stomaco vuoto diventa una sorta di misura immunitaria e al tempo stesso iniziatica. Una sacra quarantena. Come quella di Pitagora che per quaranta giorni non tocca neanche una foglia d' insalata alla vigilia del suo viaggio in Egitto per compiere il suo percorso sapienziale di pensatore-guaritore.

Idem per Mosè che resta a bocca asciutta "quaranta dì e quaranta nott" - per dirla con il grande Enzo Iannacci - prima di ricevere le Tavole della legge. E ripete la dieta quando si prepara a distruggere il vitello d' oro.

Stessa durata ha il digiuno di Gesù nel deserto e quello di san Francesco prima di dettare la frugalissima regola del suo Ordine. Mendicante e rinunciante. Al punto da vietare ai confratelli di possedere terra da coltivare, scorte in dispensa e cantine piene. Un tantino più concessivi i laboriosi Benedettini, i pazienti Certosini e i sapienti Domenicani che in ogni caso devono accontentarsi di quel che passa il convento. E comunque nei monasteri tirare la cinghia è un atto di devozione quotidiana, a metà tra terapia e liturgia.

Insomma il minimo comune denominatore di tutti questi stenti e patimenti è che diminuire il peso del cibo compensa quello eccedente dei peccati. Una bilancia metà fisica che mette su un piatto la carne e sull' altro lo spirito. La sacralizzazione di un principio dietologico. Come dire che il drenaggio del corpo elimina le tossine dell'anima. E rende buoni, puliti e giusti. Più adatti all' incontro con Dio.

È per questo che i cristiani osservano il cosiddetto digiuno eucaristico prima della comunione. E per la stessa ragione le grandi sante, Caterina da Siena, Chiara d' Assisi, Teresa d' Avila, sono passate alla storia per il loro ascetismo estremo. Che trasforma le privazioni in un superamento dei limiti del corpo.

Il celebre storico americano Rudolph Bell, professore all' Università del New Jersey, ha parlato di "santa anoressia". Una volta la chiamavano anorexia mirabilis, cioè miracolosa, quasi fosse opera divina. È questo il modello cui si ispirano le cosiddette fasting girls, le ragazze inappetenti che nell' Inghilterra vittoriana trasformano il digiuno in un gesto di contestazione dell' ordine patriarcale. Una sorta di femminismo alimentare che svuota letteralmente il loro corpo per renderlo inadatto alle funzioni e alle mansioni cui sarebbe destinato. Come dire che se la società maschilista vuole chiudere la bocca alle donne, loro non la aprono neanche per mangiare. Facendo di questo singolare sciopero della fame la fragorosa rottura di un format etico ed estetico.

Così la privazione si smarca dalla religione. E lascia il campo alla medicina, alla politica, all' estetica. E alla dietetica. Che fa dell' astinenza un cammino di salvezza terrena, una forma di ascetismo secolarizzato. Un decalogo della wellness. Fatto di comandamenti igienisti e di fioretti laici. Che trasformano ancora una volta il cibo in un campo di battaglia tra bene e male, mascherati da salute e malattia. Esasperando il culto del benessere fino a farne una forma di penitenza, con il Bio al posto di Dio. È quel che facciamo un po' tutti noi quando ricorriamo al tè verde come esorcismo e alla prugna umeboshi come vade retro. Rischiando qualche volta di vivere da malati per morire sani.


La Repubblica - 29 luglio 2013 
 
 

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