19 aprile 2015

UOMINI E NO



Angelo Del Boca, uno dei più importanti storici italiani (sua è la ricostruzione dei crimini italiani nelle guerre coloniali), fu giovanissimo partigiano. Oggi, a novant'anni, ricostruisce in un libro quell'esperienza. Ne presentiamo una pagina e la bella recensione di Giovanni De Luna.

Giovanni De Luna

Il momento della scelta tra barbarie e umanità

Nel 1944 Angelo Del Boca aveva 19 anni ed era stato arruolato nell’esercito della Rsi, alpino della Divisione «Monterosa». Dopo un duro addestramento in Germania, era tornato in Italia dislocato con il suo reparto sull’Appennino emiliano, in una zona dove, per un breve periodo, nacque una Repubblica partigiana con capitale Bobbio.

Coinvolto in una spietata guerra civile, disgustato dalle efferatezze dei suoi camerati, decise di disertare. Fu una scelta consapevole; invece di buttare la divisa e tornare a casa, organizzò il passaggio ai partigiani con dieci suoi commilitoni, portandosi dietro tutte le armi e l’equipaggiamento possibile. E per questo fu condannato a morte dal Tribunale Militare della Rsi.

Il Diario che ora viene pubblicato insiste proprio su questa vicenda. Siamo nell’inverno 1944, il più duro per la Resistenza, quando, dopo il «proclama Alexander», le operazioni militari degli Alleati sulla «linea gotica» avevano subito una brusca battuta d’arresto e i partigiani furono lasciati soli nel fronteggiare l’aggressività dei nazifascisti. Con una scrittura avvincente Del Boca ci restituisce insieme lo scoramento di quei momenti vissuti in un paesaggio aspro e desolato e gli umori di una popolazione affollata di naufraghi e spettatori, ma anche attraversata da un rapporto di profonda empatia e solidarietà con i partigiani.

Nella Rsi ci si sentiva stranieri in patria: «più lontani e più isolati che nelle terre inospitali della Croazia e della Slovenia», scrive Del Boca. Un sentimento che è alla radice di comportamenti altrimenti inspiegabili: il surplus di ferocia nei confronti della popolazione civile, il saccheggio delle case, le liti furibonde per la spartizione del bottino. Eravamo «una lercia torma di lanzichenecchi». E ancora: «Ho lasciato degli assassini; se questi altri fossero della medesima specie, mi ritirerò presso qualche contadino a custodire mucche».Sì, perché, per qualche giorno, Del Boca non fu più un repubblichino, ma non divenne subito partigiano, accolto anzi con diffidenza dai nuovi compagni. In quella «terra di nessuno» ebbe modo di riflettere sul suo passaggio di campo. Il timore era che i partigiani fossero «come gli altri».

Ma i partigiani «non erano come gli altri». Del Boca ne scruta i comportamenti, ne esplora le motivazioni e, entrando nelle loro file, alla fine si sente rinascere, attribuendo alla sua partecipazione alla lotta armata i tratti di una sorta di rifondazione esistenziale. Oggi, con il suo Diario, ci fa capire come la Resistenza sia nata da una scelta: ci fu chi si rintanò nell’attesa che «passasse la nottata»; altri - protetti dalle armi naziste - si schierarono con Salò, in difesa di una dittatura al tramonto; altri ancora scelsero in modo opposto, interpretando la lotta partigiana come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze.

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Angelo Del Boca

Parlano di Liberazione, ma per l’Italia che si fa?


Ma ecco che, sotto Buoi di Pentema, da una stalla e da dietro uno steccato sbucano fuori sei o sette uomini armati di pistole mitragliatrici. La nostra bandiera bianca li ha rassicurati fino ad un certo punto, ci dicono poi: pellacce come le nostre sanno di certo giocare dei tiri anche al padre eterno. Così ci tengono sotto tiro dal momento che ci hanno visti uscire da Pentema. Anche ora, non che non si fidino di noi, ma tanto per alleggerirci di peso ci tolgono gli otturatori dai fucili. A parte questo po’ di brutalità giustificata, si manifestano subito per bravi ragazzi. Loro mancano di tabacco e noi abbiamo fame. Presto sui nostri scambi in natura nasce un’amicizia sincera.

Siamo intanto saliti ancora per qualche centinaio di metri fino a raggiungere una cappella abbandonata dal culto, chiusa alle raffiche di neve da una tenda di sacchi. All’interno c’è ancora poca brace; non appena ci avevano avvistati erano corsi fuori e avevano dato l’allarme ai posti di avvistamento.

«Rimanete con noi?» dice uno di loro.
«Non so», rispondo io, «loro vogliono andare a casa».
«Andare a casa?», chiede un patriota che porta una fascia rossa legata intorno alla fronte. «A farvi prendere un’altra volta?».

I ragazzi non sanno che rispondere. A dire il vero, noi non ne vorremmo più sapere di fare dell’altra naia. Non si vorrebbe passare da una parte all’altra, ad occhi chiusi, contenti solo di aver cambiato aria, costumi, disciplina; di aver qualcosa di più da mettere sotto i denti, di poter dare del tu ai nostri ufficiali. Io, almeno, conterei di non commettere una leggerezza.
Se il programma di questa gente della montagna non mi andasse a genio, non esiterei un solo istante a dire di no a tutte le offerte di amicizia. Ho lasciato degli assassini; se questi altri fossero della medesima specie, mi ritirerò presso qualche contadino a custodire le mucche. Tutti vogliono liberare l’Italia. Ma per l’Italia che si fa? […]

Presto siamo circondati da tanti ragazzi della nostra età che vestono le fogge più bizzarre; sembra di essere fra le quinte di un teatro gremito di comparse. Per la prima volta vedo anche, fra di loro, qualche viso di uomo maturo. Mi sembra allora che sarò giudicato con più mitezza da un occhio paterno. Poi da una casa esce un uomo alto vestito di panno bleu: porta una lunga pistola al fianco, e degli stivali da carabiniere. Ha gli occhi di chi sa comandare; quegli occhi che ammaliano chi non sa che ubbidire. La filettatura dei pantaloni è rossa: non può essere che un carabiniere.

Ci rivolge la parola e gli altri cessano di parlottare e di interrogarci su mille cose. Ci domanda di che reparto eravamo, chi erano i nostri ufficiali, quali sono stati i nostri movimenti. Saputo che siamo intervenuti nella scaramuccia di Loco, cambia improvvisamente di umore. «Abbiamo lasciato cinque morti», dice. «I feriti ce li avete uccisi con dei calci nella testa. Abbiamo giurato di uccidere tutti quelli che ci capiteranno nelle mani. Ora dovremmo uccidervi, per tener fede al nostro giuramento. Voialtri avete sparato? Con quale compagnia eravate quando abbiamo aperto il fuoco? In testa o in coda della colonna? Li avete visti i nostri morti? L’avete visto quello di sedici anni? È stata una curva disgraziata quella di Loco. Eravamo scesi tanto in basso che vi abbiamo sentito parlare delle vostre faccende…».

Tutti rispondono che non hanno mai sparato. Il brigadiere apre le braccia e scoppia in una risata. Ma ancora i miei compagni si ostinano a dire che essi erano addetti al magazzino, che erano schiappine segnate a dito, che il fucile nelle loro mani diventava più pericoloso per loro stessi che per quelli che dovevano offendere.

Io sento tutt’intorno accumularsi il disprezzo e la diffidenza la si può leggere nelle facce che ci scrutano continuamente. Sento in me una ribellione di sentimenti. Non voglio che ci giudichino soltanto dei timidi che non pensano a chiedere altro che la vita, portiamo anche noi i segni di un sacrificio consumato nelle lontane terre di Germania; abbiamo il desiderio di abbracciare chi per primo ha portato in salvo la fiaccola della libertà, sapere dei loro morti, delle loro battaglie; parlare dei nostri morti, che non loro della montagna hanno ucciso, ma gli aguzzini che ci hanno fatto battere queste valli; parlare delle nostre battaglie, che abbiamo vinto piangendo.

Ma loro ci guardano ridendo. Vorrei morire per non scendere alla meschinità di scolparmi di colpe che non sento di aver commesse. In questo momento si unisce alla folla che ci circonda un sacerdote dall’aspetto molto giovanile. Lui, sant’uomo, ci guarda con quella serafica aria da imbonitore, dimenticando cause e discordie. È questo il momento in cui mi sento venire in bocca una quantità di parole, tutto un discorso che sentivo prepararmisi di dentro, mentre tutti quegli occhi si fissavano su di noi; e non sono più capace di celare col silenzio il nostro desiderio di tendere loro la mano.

«Sì, abbiamo sparato», dico, «chi più chi meno; io ho sparato molto; ero mitragliere della prima squadra del primo plotone, ero sempre in testa, ho dovuto sparare molto. Voi al nostro posto avreste sparato né più né meno che noi. Il destino ci ha divisi, ci ha messo su strade diverse; abbiamo sofferto di questa disunione; ma ci potevamo forse fare qualcosa? Dovevamo morire tutti colpiti alla schiena? È presto fatto, costruire piani di fughe e di evasioni; tutto sembra facile a chi ha avuto la via facile.
Forse chi ha penato di più comprenderà maggiormente perché la struttura fisica è per tutti all’incirca uguale, ma quale non è la diversità del morale, e come è facile suggestionarlo, e come sa essere tenuto al guinzaglio! Ieri sera ci siamo scrollati tutto dalle spalle; molti vedendoci partire hanno pianto: per loro non è ancora venuto il momento. Voi direte: “Perché non siete scappati prima?”. Noi potremmo domandare a voi: “Perché ci avete lasciati deportare in Germania?”. […]

«Ora siamo qui. Siamo venuti. Noi non sappiamo niente della vostra giustizia. Può darsi che ci siamo sbagliati e che la pianura doveva salire alla montagna. Ci hanno condannati a morte, laggiù. Ora voi diteci che cosa dobbiamo fare: se ci giudicate voi o se dobbiamo tornare laggiù a farci giudicare.»

La Stampa – 17 aprile 2015

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