Le questioni che Giorgio La Pira porrebbe a Matteo Renzi
di Vanessa Roghi
Mi capita in questi giorni di pensare spesso a Matteo Renzi, ma non per il suo nuovo incarico di Governo, né per il suo ruolo all’interno del PD. Penso al Renzi sindaco di Firenze perché sto lavorando a un progetto su Giorgio La Pira, e, mano a mano che approfondisco la figura del politico democristiano, mi interrogo sui motivi per cui Renzi spesso lo cita come uno dei suoi padri spirituali e come un modello politico.
La Pira, infatti, non è stato soltanto un abile e intelligente uomo politico, come, immagino, vorrebbe essere ricordato Renzi, ma anche un pacifista radicale, un uomo convinto della necessità di tradurre il dettato costituzionale nell’azione concreta dell’amministrazione, un raffinato alleato di Enrico Mattei nella costruzione di una via mediterranea alla politica estera nazionale. Un democristiano sui generis, inviso alla destra del partito, alla Confindustria del suo periodo, ai liberisti convinti. Duro e niente affatto populista al punto da mettersi contro don Mazzi, in nome dell’obbedienza alla Chiesa, ma mai supino di fronte ai suoi compagni di partito. Nessuna di queste caratteristiche di radicale alterità rispetto ai suoi la ritrovo in Matteo Renzi. Ma forse mi sbaglio, perché di Renzi non so molto. Però so due o tre cose su La Pira, ne vorrei ricordare una.
Fra il 1949 e il 1950 La Pira compie il percorso inverso rispetto a Matteo Renzi, dal governo, dove ricopre l’incarico di sottosegretario al lavoro, passa all’amministrazione locale, candidandosi alla poltrona di sindaco di Firenze (lui siciliano) e venendo eletto nel 1951. L’abbandono della politica nazionale è frutto di scelte dolorose condivise con parte della corrente dossettiana che precipitano in un celebre scontro congressuale con Alcide De Gasperi. Ma non sono certo questioni di corrente che spingono La Pira all’impegno “locale”, vi è la convinzione che il dettato costituzionale sia non solo un orizzonte progressivo al quale tendere ma una potenzialità in atto da inverare ogni giorno all’interno dell’azione concreta dell’agire politico. Il 29 ottobre del 1949 a Melissa, in Calabria, la polizia dello Stato democratico e antifascista spara sui braccianti che occupano le terre, né la prima né l’ultima repressione dei moti contadini e anche se grazie alla spinta di Fanfani viene varata la riforma agraria e il piano casa, le prospettive politiche generali del paese preoccupano il politico siciliano. C’è bisogno di rispondere alle speranze dei poveri, dei disoccupati, dei lavoratori con azioni concrete e non generiche prese di posizione che naufragano sotto il richiamo alle cosiddette leggi economiche. Così La Pira scrive un saggio che si intitola così: Le attese della povera gente. «L’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere?) La risposta è chiara: un Governo ad obbiettivo, in certo modo, unico: strutturato organicamente in vista di esso: la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. Un Governo, cioè, mirante sul serio (mediante l’applicazione di tutti i congegni tecnici, finanziari, economici, politici adeguati) alla massima occupazione e, al limite, al «pieno impiego ». Altra attesa – rispetto al governo – la povera gente né aveva, né ha: senza saperlo essa fa propria la tesi dell’Economist del Febbraio scorso: il «pieno impiego» è l’imperativo categorico fondamentale di un governo che sia consapevole dei compiti nuovi affidati agli Stati moderni. Ma volere seriamente la massima occupazione e, al limite, il pieno impiego, significa accettare alcune premesse e volere alcuni strumenti senza l’uso dei quali non è possibile raggiungere quel fine. C’è, anzitutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano – per un Governo – parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno che sono i più temibili nemici esterni della persona. Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace «propensione» di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. (…) Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo: -che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle c. d. «leggi economiche» può farmi deviare da questo fine: devo sempre ricordarmi che il Vangelo non è un «libro di pietà» [anche!]: esso è anzitutto un «manuale di ingegneria» [parabola del costruttore, Mt. VII, 24-29]: cioè un rivelatore delle leggi costituzionali, ontologiche dell’uomo; le sole leggi che permettono una solida costruzione della vita personale, sociale e storica dell’uomo. Tutta la liturgia quaresimale, con i continui riferimenti all’antico Testamento, è incentrata attorno a questo pensiero salutare: digiuno sì, ma ricordati che l’essenza più profonda del digiuno sta nell’amore fraterno: frange esurienti panem tuum egenos vagosque induc in domum tuam: spezza il tuo pane all’affamato e dà nella tua casa abitazione ai senza tetto [Is. 58, 1-9]. (….) 1) È il governo persuaso che la disoccupazione, con la miseria morale che provoca, va combattuta come uno dei fondamentali nemici e delle fondamentali contraddizioni della società cristiana? 2) È il governo persuaso che la disoccupazione costituisca uno sperpero economico che incide gravemente sul reddito nazionale e che, a lungo andare, produce anche inflazione? 3) È il governo persuaso che la eliminazione della disoccupazione presuppone un regolamento del mercato del lavoro da operarsi mediante una pianificazione della spesa (pubblica e privata) che esso solo può compiere? 4) È il governo persuaso che nessun ostacolo di natura finanziaria può e deve impedire il raggiungimento almeno graduale di questo obbiettivo? Che i «danari» in ogni. caso non possono non esistere anche se è estremamente faticoso -ed esige sforzi intellettuali, volitivi ed anche di preghiera!- il reperirli? Che se c’è un bisogno essenziale umano non può mancare -poiché Dio esiste ed è Padre- il mezzo adeguato per soddisfarlo? Che questa proposizione dettata dalla fede è perfettamente convalidata dalla esperienza e dalla più recente e vitale teoria economica? 5) È il governo persuaso che l’assunzione di questo compito nuovo e così fondamentale importa un mutamento in certo senso radicale della sua politica economica e finanziaria, interna ed internazionale? Che esso importa l’elaborazione di un bilancio del Tesoro totalmente diverso, per struttura e per finalità, da quello attuale? Che esso importa un mutamento adeguato nella struttura del Gabinetto e nella struttura dell’apparato burocratico statale? 6) Ed, infine, vuole intanto il governo procedere alla immediata erogazione delle somme necessarie per sovvenire in qualche modo alle prime ed inderogabili esigenze dei disoccupati? Ecco le domande precise che la povera gente fa al Governo: se il Governo può dare ad esse una risposta positiva allora la «crisi» sarà risolta ed il Governo -attirando sopra di sé le benedizioni della povera gente- farà come il sapiente costruttore del Vangelo: costruirà saldamente l’edificio sopra la roccia (S. Mt. VII, 24-29) 1. Se il Governo darà ad esse una risposta negativa allora la «crisi» assumerà dimensioni più vaste ed il Governo farà come lo stolto costruttore del Vangelo: costruì l’edificio sulla sabbia, venne la tempesta e vi fu grande rovina (S. Mt. VII, 24-29)».
Fonte: Christian Raimo ha pubblicato questo pezzo su http://www.minimaetmoralia.it
sabato, 1 marzo 2014
Nessun commento:
Posta un commento