Lo
studioso francese Thomas Piketty analizza tre secoli di evoluzione
dei paesi occidentali: il capitalismo non si autoregola. Per evitare
la crescita delle diseguaglianze ci vuole l'intervento dello Stato e
dunque della politica.
Fabio Gambaro
Il ritorno del
Capitale
Il ritorno del
Capitale. Potrebbe essere questo il sottotitolo di un vasto studio
intitolato Le capital au XXIe siècle, che in Francia sta avendo
un notevole successo e innescando moltissime discussioni. L’autore,
Thomas Piketty, uno dei più brillanti economisti francesi della
nuova generazione, vi ha raccolto i risultati di una lunga ricerca
in cui, incrociando l’economia con le altre scienze sociali, ha
ricostruito l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo durante
gli ultimi tre secoli.
Affrontando in particolare le problematiche
della ripartizione della ricchezza e della disuguaglianza
economica, il corposo volume — che in Italia verrà tradotto da
Bompiani — individua nello squilibrio tra crescita economica e
rendita del capitale una delle principali contraddizioni del
capitalismo. Squilibrio che sarebbe responsabile di un aumento
quasi meccanico dei grandi patrimoni, la cui inesorabile
progressione minaccia sempre più i valori di giustizia sociale su
cui poggiano le società democratiche.
«Rispetto a un secolo fa, anche se le disuguaglianze restano ancora enormi, il capitale del XXI secolo è meglio distribuito », spiega lo studioso che insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all’Ecole d’économie de Paris. «All’inizio del Novecento, il 90% del patrimonio era nelle mani del 10% della popolazione più ricca. Oggi, in Europa, questo 10% detiene circa il 60% del patrimonio, mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra si arriva al 70%. Nel corso del XX secolo, il 20-30% del capitale è dunque passato nelle mani della classe media. Parallelamente, il capitale ha cambiato natura. Oggi infatti è prevalentemente finanziario e immobiliare, mentre all’inizio del secolo scorso era soprattutto agrario o legato alle aziende familiari».
La crisi però sembra erodere il nuovo patrimonio della classe media. Leggendo il suo libro, si ha l’impressione che si stia tornando al XIX secolo, quando il capitale cresceva più rapidamente della produzione, accentuando le disuguaglianze. La situazione descritta da Marx nella sua opera più celebre. È così?
«Negli ultimi decenni ci siamo allontanati radicalmente dalla situazione che ha prevalso nel secolo scorso, quando l’economia, segnata dai traumi delle due guerre mondiali, ha conosciuto tassi di crescita molti alti. Era però una situazione eccezionale, a cui si è aggiunta un’azione politica molto incisiva per far partecipare il capitalismo privato allo sforzo di ricostruzione. Così, nel periodo 45-80 è stato possibile ridurre le disuguaglianze. Oggi però, finita questa fase, stiamo tornando al capitalismo delle origini, dove l’eredità aveva un peso preponderante. C’è un ritorno di prosperità patrimoniale che ricorda quella della belle epoque, all’inizio del XX secolo. Il che naturalmente potrebbe anche essere un dato positivo, giacché è sempre meglio avere dei capitali invece dei debiti».
Significa che siamo più ricchi di quanto pensiamo?
«Globalmente sì. Oggi in Europa, e in particolare in Italia, si insiste molto sul debito. In realtà però abbiamo molto più capitale che debito. Il nostro patrimonio, al netto del debito pubblico e privato,
non è mai stato così elevato. In Europa, corrisponde a circa sei anni di Pil, e in Italia addirittura ci si avvicina a sette anni. Nel 1950, il valore dei patrimoni privati in Europa rappresentava solo due anni di Pil. Il nostro patrimonio nell’ultimo mezzo secolo è cresciuto costantemente. Si dice spesso che lasceremo ai nostri figli una montagna di debiti, in realtà lasceremo loro un patrimonio che non ha eguali in passato».
Si pone però il problema della ripartizione di questo capitale, in una fase in cui le disuguaglianze sono tornate a crescere…
«In effetti, quando — come oggi — la rendita del capitale supera durevolmente il tasso di crescita dell’economia si crea uno squilibrio che tende a ampliare le disuguaglianze, erodendo soprattutto il patrimonio della classe media. In realtà, a parte i periodi in cui l’economia cerca di colmare un ritardo, come ad esempio nel dopoguerra, sul lungo periodo la crescita della produzione non supera mai di molto l’1-1,5% all’anno. Senza dimenticare che quando l’incremento demografico è debole o addirittura negativo, la crescita del Pil ne risente. È quello che accade oggi e continuerà ad accadere in futuro. Dobbiamo farcene una ragione e smetterla di sognare un’illusoria crescita dell’economia».
A fronte di questa crescita debole, il rendimento dei capitali invece più sostenuto…
«La rendita media del capitale è del 4-5% all’anno. Naturalmente esistono alcuni investimenti a rischio che possono essere più redditizi, ma sul lungo periodo la media è questa, un po’ come accadeva fino all’inizio del XX secolo. Di conseguenza, come nella prima fase del capitalismo ottocentesco, oggi il rendimento del capitale è più elevato della tasso di crescita. E questa situazione scava sempre di più le disuguaglianze patrimoniali. Il capitale si riproduce da solo molto più rapidamente della crescita economica, e i ricchi diventano sempre più ricchi ».
L’ipotesi dell’autoregolazione del sistema economico è del tutto illusoria?
«Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le disuguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le disuguaglianze restano e anzi si accentuano. In passato, per ridurre le disuguaglianze e mettere un freno alla concentrazioni dei capitali si è fatto ricorso alle imposte sul reddito e sulle successioni. Ciò ha permesso di allargare la base sociale su cui poggia il patrimonio globale. Il che dimostra che per crescere non c’è bisogno della grande concentrazione patrimoniale del XIX secolo né di penalizzare la classe media».
La cultura e l’educazione contribuiscono a ridurre le disuguaglianze economiche?
«Certamente, ma si tratta di un processo molto lento e secondo me non sufficiente. La tendenza del capitale a riprodursi e a accentuare le disuguaglianze non potrà essere combattuta solamente dalle migliori università. Per questo mi sembra necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale, da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà politica. Potremmo cominciare a livello europeo, visto che la nostra economia rappresenta un quarto del Pil mondiale».
Le leggi dell’economia sono spesso state assimilate a delle leggi di natura indiscutibili, lei invece sostiene il primato della politica sull’economia.
«Certo. Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro»
la Repubblica - 6 marzo
2014
Thomas Piketty
Le capital au XXIe
siècle
Seuil, 2013
euro 25
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