Con Montaigne e Goethe, l’Italia nello specchio del Grand Tour.
Daria
Galateria
I gentlemen inglesi, in viaggio per l’Italia, si portavano dietro
le lenzuola, e anche i materassi; Michel de Montaigne, nei Saggi,
lamentava l’assenza di camere singole; e si mangiava, padroni e
servi, allo stesso tavolo! — ma con la forchetta, precisava, a
inizio Seicento, l’inglese Fynes Moryson.
Dal Medioevo l’Italia,
ombelico del Mediterraneo, è percorsa da pellegrini e penitenti,
mercanti e crociati. Ma è Montaigne che teorizza il viaggio in
Italia come tappa necessaria per la formazione: «Non conosco scuola
migliore».
Sei e Settecento
formalizzeranno il viaggio d’istruzione per i rampolli delle classi
dirigenti d’Europa; e Cesare De Seta, lo specialista del Grand
Tour, pubblica ora una summa erudita e amabilissima del viaggio in
Italia.
I viaggiatori
collezionano antichità, acquistano vedute, si fanno ritrarre sugli
sfondi del Bel Paese. Anche le donne viaggiano — il 20% del totale.
Lady Montagu è divertita dalla libertà delle donne italiane: c’è
il divorzio, e molte dame genovesi hanno due mariti; basta che un
signore dichiari commerci intimi con la suocera, e il matrimonio è
annullato, con i figli che restano legittimi.
Più dei vini e delle
prostitute, ricorrono nelle memorie i rischi del viaggio. «Il
bandito è parte del panorama» nel Regno di Napoli, e il Milanese e
poi la Calabria si contendono la mitologia della paura. Anche i
pericoli naturali sono oggetto di vanterie: precipizi, orsi e lupi,
cascate attraversate come un bagno di nebbia, tronchi d’abete a
ponte tra due montagne; si passano le Alpi e le valli su muli
pazienti o attaccati alla criniera del cavallo.
Sade s’indigna per i
castrati, e seduce signore incinte; Friedrich Schinkel nutre in
Sicilia il preromanticismo che edificherà a Berlino; Goethe cerca di
girare in incognito per le antichità e lo sfacelo di Roma, ma la
città è pettegola, e dovrà presto subire la lettura di una
tragedia del Monti, appena composta.
Il luterano Gottfried
Seume, che attraversa il Nord a piedi, segnala le alluvioni, che
«causano danni immensi»; ne parlano tutti i giornali, e toccherà
lavorare anni, perché «i fiumi richiedono un’assidua
manutenzione». «Il n’y a que le temps qui dure» — il tempo,
solo il tempo dura — cita a un certo punto, da Diderot, de Seta; la
formula che sarebbe piaciuta al principe di Salina, il Gattopardo.
Poi vennero la
Rivoluzione francese, il turismo borghese, le nazioni a spazzare lo
speciale cosmopolitismo del Grand Tour (i primi tedeschi lo
raccontavano nell’ubiquo latino). Nelle pagine di De Seta,
l’Italia, il Giardino d’Europa, resta il paese «in cui» (è
Lessing, nel 1751) «vivere e morire».
La Repubblica – 16
dicembre 2014
Cesare De Seta
L’Italia nello specchio del Grand Tour,
Rizzoli, 2014
euro 25
Nessun commento:
Posta un commento