02 febbraio 2015

VIAGGI NELL' ITALIA DI IERI



Con Montaigne e Goethe, l’Italia nello specchio del Grand Tour.
Daria Galateria

Splendori e miserie dei Grand Tour

I gentlemen inglesi, in viaggio per l’Italia, si portavano dietro le lenzuola, e anche i materassi; Michel de Montaigne, nei Saggi, lamentava l’assenza di camere singole; e si mangiava, padroni e servi, allo stesso tavolo! — ma con la forchetta, precisava, a inizio Seicento, l’inglese Fynes Moryson.

Dal Medioevo l’Italia, ombelico del Mediterraneo, è percorsa da pellegrini e penitenti, mercanti e crociati. Ma è Montaigne che teorizza il viaggio in Italia come tappa necessaria per la formazione: «Non conosco scuola migliore».

Sei e Settecento formalizzeranno il viaggio d’istruzione per i rampolli delle classi dirigenti d’Europa; e Cesare De Seta, lo specialista del Grand Tour, pubblica ora una summa erudita e amabilissima del viaggio in Italia.

I viaggiatori collezionano antichità, acquistano vedute, si fanno ritrarre sugli sfondi del Bel Paese. Anche le donne viaggiano — il 20% del totale. Lady Montagu è divertita dalla libertà delle donne italiane: c’è il divorzio, e molte dame genovesi hanno due mariti; basta che un signore dichiari commerci intimi con la suocera, e il matrimonio è annullato, con i figli che restano legittimi.

Più dei vini e delle prostitute, ricorrono nelle memorie i rischi del viaggio. «Il bandito è parte del panorama» nel Regno di Napoli, e il Milanese e poi la Calabria si contendono la mitologia della paura. Anche i pericoli naturali sono oggetto di vanterie: precipizi, orsi e lupi, cascate attraversate come un bagno di nebbia, tronchi d’abete a ponte tra due montagne; si passano le Alpi e le valli su muli pazienti o attaccati alla criniera del cavallo.

Sade s’indigna per i castrati, e seduce signore incinte; Friedrich Schinkel nutre in Sicilia il preromanticismo che edificherà a Berlino; Goethe cerca di girare in incognito per le antichità e lo sfacelo di Roma, ma la città è pettegola, e dovrà presto subire la lettura di una tragedia del Monti, appena composta.

Il luterano Gottfried Seume, che attraversa il Nord a piedi, segnala le alluvioni, che «causano danni immensi»; ne parlano tutti i giornali, e toccherà lavorare anni, perché «i fiumi richiedono un’assidua manutenzione». «Il n’y a que le temps qui dure» — il tempo, solo il tempo dura — cita a un certo punto, da Diderot, de Seta; la formula che sarebbe piaciuta al principe di Salina, il Gattopardo.

Poi vennero la Rivoluzione francese, il turismo borghese, le nazioni a spazzare lo speciale cosmopolitismo del Grand Tour (i primi tedeschi lo raccontavano nell’ubiquo latino). Nelle pagine di De Seta, l’Italia, il Giardino d’Europa, resta il paese «in cui» (è Lessing, nel 1751) «vivere e morire».



La Repubblica – 16 dicembre 2014
Cesare De Seta
L’Italia nello specchio del Grand Tour, 
Rizzoli, 2014
euro 25

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