Il Trattato sulla
tolleranza è una delle opere più celebri di Voltaire. Fu pubblicata in
Francia per la prima volta nel 1763 Il filosofo aveva allora 69 anni.
Michela Marzano
Bentornato Monsieur
Voltaire
«La tolleranza è una
conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti
figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta
dunque che perdonarci vicendevolmente le nostre follie». Era il 1763
quando Voltaire, nel Trattato sulla tolleranza, non solo condannava
ogni forma di fanatismo, ma invitava anche a riflettere
sull'inadeguatezza del proprio linguaggio, sull'insensatezza delle
proprie opinioni, sull'imperfezione delle proprie leggi. Non solo
spiegava che l'intolleranza è madre di ogni ipocrisia e di ogni
ribellione, ma spingeva anche i francesi a considerare tutti gli
uomini come fratelli.
«Come? Mio fratelli il
turco? Mio fratello il cinese? L'ebreo? Il siamese? Sì, senza
dubbio. Non siamo tutti figli delle stesso padre e creature dello
stesso Dio?».
Un elogio della
tolleranza, quindi. Senza alcuna riserva. Il che forse spiega perché,
dopo i fatti tragici che hanno dilaniato la Francia, questo Trattato
si ritrovi oggi in vetta alle classifiche dei libri più venduti. È
come se sembrasse inevitabile ripartire da lì per interrogarsi sui
pilastri della democrazia e della libertà.
Non è d'altronde in nome
della tolleranza che nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino del 1789 viene per la prima volta proclamato il diritto di
ogni essere umano alla libertà di opinione e di espressione? Non è
la tolleranza che rende possibile dialogo e confronto? Non è lei, e
solo lei, che permette a chi non la pensa nello stesso modo, ha
abitudini diverse, crede in Dio oppure è ateo, di vivere insieme,
accettarsi, rispettarsi, riconoscersi?
Leggere o rileggere il
Trattato sulla tolleranza , in fondo, è un modo per riappropriarsi
delle proprie radici. Scritto da Voltaire all'epoca dell' affaire
Calas – quando un protestante era stato condannato a morte dopo
essere stato ingiustamente accusato di aver ucciso il figlio
convertitosi al cattolicesimo, mentre di fatto il ragazzo si era
suicidato – il Trattato affronta il tema del fanatismo attraverso
il prisma della carità e dell'indulgenza.
A differenza di Locke che
nella Lettera sulla tolleranza ( 1689) si concentra principalmente
sulla questione politica del rapporto tra Stato e Chiesa, Voltaire fa
non solo l'elogio della ragione, ma anche della dolcezza: la
tolleranza è una virtù che porta a rispettare l'altro e le sue
differenze; è quel valore che deve spingere chi «accende un cero in
pieno giorno per celebrare Dio» a sopportare «coloro che si
accontentano della luce del sole». Ma che vuol dire, oggi,
tollerare? Si può veramente tollerare tutto, anche l'intolleranza,
in nome della tolleranza?
Per il filosofo
anglosassone Bernard Williams, la tolleranza è al tempo stesso
«necessaria» e «impossibile». È necessario tollerarsi a vicenda
se si vuole organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni
morali, politiche e religiose differenti.
Ma è anche impossibile
essere fino in fondo tolleranti con gli altri – come ammette
chiunque sia del tutto sincero con se stesso – quando gli altri
proclamano idee e valori che ci risultano intollerabili, quando
difendono idee che riteniamo sbagliate, quando esprimono opinioni che
consideriamo infondate. Siamo tutti pronti a scendere in strada per
difendere la tolleranza, ma come reagiamo poi quando qualcuno ci
offende veramente?
La tolleranza che si
invoca, purtroppo, è quasi sempre la tolleranza altrui, quella che
gli altri dovrebbero avere nei nostri confronti più che quella che
dovremmo noi avere nei loro.
Non è d'altronde lo
stesso Voltaire che, dopo essersi mobilitato per difendere Jean Calas
e aver inondato l'Europa di lettere per sensibilizzare i potenti nei
confronti di questa famiglia protestante che in privato definiva
"imbecille", a istigare le autorità contro Jean-Jacques
Rousseau considerandolo un nemico pubblico perché aveva pubblicato
il Contratto sociale in cui celebrava la superiorità dello stato di
natura?
Non è proprio in
Francia, in cui si può ridere di tutto, che si è deciso di non
ridere della battuta di Dieudonné quando ha scritto: Je suis Charlie
Coulibaly ( uno dei terroristi di Parigi) — battuta certo
dissennata, stupida e volgare, ma che resta pur sempre una battuta
come lui stesso rivendica, esattamente come quelle pubblicate da
Charlie Hebdo ?
La tolleranza, diceva
Voltaire, è la capacità di sopportare anche ciò che si disapprova.
È la voglia di immaginare, come scrive Hannah Arendt, che un'altra
persona possa aver ragione. È la possibilità di rimettersi in
discussione, anche quando qualcuno deride ciò in cui noi crediamo,
che si tratti della caricature di Maometto o di quelle del Papa, di
una battuta su nostra madre o sulla madre di un amico.
Dietro la tolleranza, per
dirla in altre parole, c'è sempre l'accettazione dell'alterità.
Anche quando quest'alterità ci disturba, ci provoca, ci
destabilizza.
Nessun limite allora?
Forse solo l'intolleranza. Visto che tollerare l'intolleranza nel
nome della tolleranza equivarrebbe a distruggerla. Tolleranza e
intolleranza si elidono reciprocamente. La tolleranza, infatti,
permette a tutti di affermare o negare qualcosa, senza imbarazzarsi
di fronte alle contraddizioni. Ci può essere chi afferma che «A
esiste» e chi, al contrario, nega l'esistenza di A affermando che «A
non esiste».
L'intolleranza, invece,
non sopporta le contraddizioni e ha come solo scopo quello di
distruggere. Non si limita a negare, ma cancella, elimina, fa tabula
rasa. Ecco perché, se la tolleranza tollerasse l'intolleranza,
finirebbe con l'esserne fagocitata. Proprio come la libertà che,
come spiega in On liberty John Stuart Mill un secolo dopo la
pubblicazione del Trattato sulla tolleranza , «non è più libertà
nel momento in cui ci consente di alienare la libertà».
La Repubblica – 10
gennaio 2015
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