A settant’anni dai
fatti immortalati dal racconto di Beppe Fenoglio i protagonisti, vivi
e morti, raccontano ognuno una storia diversa
Piero Negri
I ventitré giorni di
Alba. Caleidoscopio partigiano
Diceva Paolo Farinetti, il «comandante Paolo» della XXI Brigata Matteotti, socialista, che chi è andato più vicino a raccontare la vera storia dei ventitré giorni della città di Alba è il vescovo, monsignor Grassi, nel libro «La tortura di Alba e dell’Albese». Naturale, del passaggio dalla guarnigione fascista al governo partigiano il vescovo fu architetto e organizzatore. Beppe Fenoglio, invece, raccontando l’epopea non fece storia, ma letteratura. «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» è il celebre incipit dei Ventitre giorni della città di Alba, in cui si narra della libera repubblica partigiana di 70 anni fa.
Non importa se i numeri sono giusti, importa che la scrittura eroicomica di Fenoglio abbia trasformato quell’episodio in un affresco senza tempo delle grandezze e piccolezze umane. I troppi capi sul balcone del municipio («In proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini»), le ragazze dei postriboli che «quel giorno e nei giorni successivi fecero cose da medaglie al valore» e il colpo finale sui partigiani, autoinferto: «Ma non erano tutti a puttane, naturalmente, anzi i più erano in giro a requisir macchine, gomme e benzina. Non senza litigare tra loro con l’armi fuor di sicura, scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante scuola di guida nel viale di circonvallazione».
Beppe Fenoglio
Ciò che meno
stupisce, di tutta la vicenda, è che nel 1952, quando il racconto
uscì con Einaudi, nella raccolta che porta quello stesso titolo,
segnando così l’esordio dello scrittore di Alba, a molti sia
andato di traverso. L’Unità lo definì «una cattiva azione», e
molti ex combattenti più vicini a Fenoglio, magari così vicini da
aver partecipato ai ventitré giorni, non glielo perdonarono mai.
Pietro Chiodi, filosofo
esistenzialista e professore di Fenoglio al liceo, spiegava che in
questo consisteva l’antifascismo, nello sferzare con la critica e
l’ironia se stessi e la propria parte, ma probabilmente anche lui
sapeva che non c’era abbastanza distanza dai fatti, nel tempo e nei
sentimenti, per capire che grande narratore fosse Fenoglio e cosa
stesse cercando di fare.
Alba fu abbandonata dalla guarnigione fascista la mattina del 10 ottobre 1944. «Alle 16 non ve n’è più alcuno - scrisse il vescovo - e, a somme fatte, non c’è che un ferito leggero tra i civili».
L’ingresso in città
fu spettacolare, troppo per Fenoglio, ma non per i ragazzi delle
colline che da mesi erano in clandestinità, con poco o nulla da
mangiare e pochi improvvisati posti in cui dormire. «Dovete capirci
- dice Felice Marino, partigiano della II Divisione Langhe, di cui
farà parte anche Fenoglio -. Avevamo conquistato Alba senza sparare
un colpo. Forse non l’avremmo tenuta a lungo, ma che importava?».
Molti ragazzi di Alba iniziarono ora a sentirsi partigiani. Per loro - e Fenoglio tra questi - i ventitré giorni furono il punto di non ritorno: quasi tutti misero allora al collo un fazzoletto azzurro, quello degli autonomi, apartitici, in buona parte ex militari, in molti casi monarchici. I ventitré giorni segnarono la loro vittoria politica. Enrico Martini «Mauri», gran capo degli autonomi di tutte le Langhe nel 1961 lo spiegherà così: «I fatti di Alba devono essere considerati in stretto rapporto con la situazione della regione circostante - le Langhe - un paese interamente partigiano, un piccolo Stato libero nel territorio della repubblica fascista. Il sogno di dare una capitale a quell’area di libertà, conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifici, era nel cuore di tutti».
Ciascuno insomma da quei giorni cercò (e ottenne) qualcosa di diverso. Come Neville Darewski, detto Temple, agente del servizio segreto britannico Soe, che ebbe un ruolo fondamentale nel governo della città e che da lì si spostò più volte a Torino per vedere Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat (lo descriverà «molto filobritannico e avanti di diverse miglia rispetto agli altri industriali italiani»). Per lui la libera repubblica di Alba fu un test di ciò che sarebbe potuto accadere in Italia alla Liberazione: e anche questo va ricordato, quando si pensa al piccolo esperimento di autogoverno di settant’anni fa.
Il sogno di libertà durò ventitré giorni, forse un paio di settimane, durante le quali «sembrava di essere in un giorno di mercato tanta era la ressa, la moltitudine, l’andirivieni», si scriverà sulla Gazzetta Piemontese, il giornale nato per l’occasione. Un’euforia confermata anche da una relazione fascista: «Il mercato del sabato è stato particolarmente ricco come da tempo non lo era più».
Si sventa un primo attacco, poi appare chiaro che la resistenza potrà essere solo formale. All’alba del 2 novembre, due, tremila fascisti passano sul ponte sul Tanaro di Pollenzo, che i partigiani avevano minato senza distruggerlo. Alle 10 del mattino la sirena del municipio suona a lungo e annuncia una battaglia che finisce intorno alle 14. Il vescovo fa sostituire il tricolore sul campanile con una bandiera bianca, anzi con «un asciugamano di tela bianca del lavabo», come scrive poi. Molti se ne vanno, non solo i partigiani: «La gente cominciò a uscire affrettatamente dalle case e a correre verso le colline con lacrime, invocazioni e grida», racconta ancora.
Sul giornale fascista Noi e loro si raccontò così la vittoria: «Chiesi a uno squadrista notizie sulla città: “Pare morta, disse, poca gente e ostile, quasi tutti i negozi chiusi. Niente donne festanti, bambini accorsi a battere le mani, niente: ma ostilità quasi contenuta e trasfusa nel volto delle cose”».
La Stampa – 12 ottobre
2014
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