BREVE STORIA DEI FICHI D'INDIA
di Pippo Oddo
In Sicilia, si sa, anche la natura è cultura. Il forestiero che visita
l'isola per la prima volta deve essere re degli indifferenti per non subire il
fascino di una pianta di ficodindia carica di frutti maturi: bianchi, rossi o
gialli che siano.
Il fotografo ne fissa immediatamente l'immagine nella pellicola, il pittore
non perde tempo a dipingerla, lo scrittore prova spesso gioia a descriverla. Si
dà persino il caso che se ne enfatizzi l'importanza oltre ogni credere. È ciò
che fece John Galt, scrittore e drammaturgo britannico che visitò l'Isola nel
1808. «In ogni parte voi v'incontrate piantagioni di fichi d'India, in ogni
villaggio coperte ne sono le stalle. Se egli porta un paniere, questo non sarà
d'altro pieno che di fichi d'India. Ogni asino che la mattina s'avvii alla
città, è carico di fichi d'India. Un contadino che in sul far della sera stia
sopra una pietra a contar monete di rame, non fa se non il conto di quel che
gli hanno prodotto i suoi fichi d'India. Se un genere è cattivo, si dice che
non vale un fico d'India, mentre non v'è cosa più squisita al mondo che un fico
d'India. Ecco il solo lusso che gode il povero». Esagerato! A parte il piccolo
particolare che mai Siciliano ha scomodato un ficodindia per evocare l'immagine
di merce scadente, tutti i ficodindieti censiti nell'Isola dal Catasto
borbonico nel 1853 coprivano una superficie pari a 7.078 ettari di coltura
specializzata e 1.744 di coltura promiscua, non di più. Ma diamo a Cesare quel
che è di Cesare: qualche elemento di verità si può trovare tra le fole
propalate da Galt. Ha perfettamente ragione l'illustre suddito di Sua Maestà
Britannica nell'affermare che «non v'è cosa più squisita al mondo che un fico
d'India». Si può inoltre concordare tranquillamente con lui quando conclude che
il succulento frutto era il solo lusso di cui godeva il povero di Sicilia.
Ancora cento anni dopo il suo viaggio la letteratura folklorica siciliana era
unanime nel ritenere che, per i meno abbienti, i fichidindia facevano le veci
del pane, da agosto a dicembre. De Gasparin, agronomo francese che visitò la
Sicilia una trentina d'anni dopo, definì il popolare frutto «la manna, la
provvidenza della Sicilia [...], ciò che il banano è per i paesi equinoziali e
l'albero del pane per le isole dell'Oceano Pacifico». I fichidindia sono «la
provvidenza del popolino» gli faceva eco nel 1891 un suo illustre connazionale,
René Bazin, futuro membro dell'Accademia di Francia. «Con una ventina di fichi
d'India – il valore di due soldi forse – e un po' di pane, un Siciliano trova
la maniera di fare la prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare
nell’intervallo. Sono freschi, sono sani. Avvolti in carta sottile si
conservano fino ad aprile». Insomma, nella Sicilia dei tempi passati i
fichidindia hanno assolto alla medesima funzione cui assolvevano le castagne
nell'Italia continentale. Pane dei poveri, dunque! Ma da quando? I documenti
più antichi, letterari e iconografici, che attestano la presenza del
provvidenziale cactus nell'Isola non sono anteriori al Seicento. Ad affermarlo
sono i professori Giuseppe Barbera e Paolo Inglese dell'Istituto di
Coltivazioni Arboree dell'Università di Palermo, ossia «i maggiori conoscitori
italiani dì fichidindia». Dalle loro ricerche abbiamo appreso tante cose.
Sappiamo per certo, oramai, che la pianta è originaria dell'altopiano messicano
dove sono stati rinvenuti alcuni reperti fossili (semi di ficodindia) databili
nel settimo millennio prima dell'era cristiana. In quell'area è peraltro
fiorita una curiosa leggenda relativa alla fondazione di Tenochtitlan, già
capitale dell'impero degli Aztechi e attuale Città del Messico. «I nomadi che
scendevano dal nord verso il centro della regione erano guidati da una
profezia: la loro peregrinazione avrebbe avuto fine quando avessero incontrato
un'opunzia [pianta di ficodindia] che sorgeva dalla fenditura di una roccia con
sopra un'aquila che si nutriva di un serpente». Ebbene, questa scena è ancora
oggi riprodotta nello stemma degli Stati Uniti del Messico. Dal Messico il
ficodindia è approdato, dopo la scoperta dell'America, nel Vecchio Continente e
in alcune regioni africane. Si è però acclimatato solo dove ha trovato
l'ambiente adatto. Quello siciliano si è dimostrato tale, fino al punto
d'insinuare in qualche studioso il sospetto che la spinosa pianta potesse avere
remote origini locali. Ma che venisse da fuori non hanno mai dubitato i
Siciliani, se non altro perché il suo nome (comunque pronunciato nelle parlate
locali) ha sempre evocato l'immagine di un frutto originario dell'India. Ma non
mancano le eccezioni. A Modica, per esempio, i fichidindia si chiamano
fìcumori, cioè fichi dei Mori. Più difficile è capire quale origine gli
attribuiscano i Ragusani, visto che li chiamano ficupali, fichi delle pale,
cioè dei cladodi, di quelle strane articolazioni spinose che fungono da rami e
da foglie. Ma, a ben riflettere, anche a Ragusa si tramanda la legenda, nota in
tutta l'Isola, secondo la quale in tempi lontani i fichidindia erano velenosi e
perciò furono introdotti in Sicilia dai Turchi, che volevano far morire la
«carne battezzata», cioè i Siciliani; ma per fortuna, come ci ricorda Pitrè,
«fosse miracolo, fosse benefica diversità di clima, vi si acclimò felicemente e
cominciò a dar frutti sani e dolci». A ogni buon conto, d'origine indiana,
mora, turca o messicana, il ficodindia c'è ormai da tempo, in Sicilia. Ne
connota inconfondibilmente il paesaggio agrario, comunque allevato: in funzione
di siepe o di foraggio, di coltura promiscua o specializzata. C'è da chiedersi,
semmai, che razza di Sicilia sarebbe l'Isola senza i fichidindia. Pianta
esotica quanto si vuole, il ficodindia deve non poca della sua fortuna a questa
regione eh'è continente in miniatura, terra di grande inventiva, culla dei
primi frutti scuzzulati, di quei meravigliosi bastarduna vermigli che d'autunno
fanno a tutte le ore bella mostra di sé sui carrettini dei venditori ambulanti
delle città siciliane e sulle bancarelle di tutta l'Italia e che, dagli
aeroporti di Palermo e Catania, spiccano il volo per raggiungere mercati
lontani, ovunque li richiedano gli estimatori. Sì, sono stati prodotti in
Sicilia i primi ficodindia "scozzolati", checché ne dicano gli
Spagnoli. E non poteva essere diversamente, considerate le condizioni in cui
avvenne la prima "scozzolatura". «È voce generale – scriveva nel 1884
l'agronomo siciliano Alfonso Spagna – che un colono di Capaci si rifiutasse di
vendere la produzione dei suoi fichi d'India ad un conterraneo che vi aspirava
e che costui, indignato del diniego, vendicasse la ricusa con la violenza,
atterrandogli i frutti in piena fioritura. Quest'eccesso vandalico produsse
effetti contrari alle sinistre intenzioni del malvagio autore. I frutti
rinacquero poco dopo negli internodi in minor numero, ma turgidi e promettenti
oltre l'usato e vennero a maturazione con buccia fina e polpa così serrata e
consistente da potersi conservare a magazzino per più mesi e resistere agli
eventi delle lunghe navigazioni». Mai sfregio è stato così benefico e
illuminante. «Un cotal Vincenzo Ferrante da Bellolampo, scosso dagli effetti
meravigliosi di quel trovato, avrebbe scoccolato i suoi fichidindia in
fioritura con pari successo e da quel tempo finora lo scoccolamento delle
bacche verdi fu adoperato in larga misura per ottenere da quella Cactea i
migliori frutti desiderabili». I fichidindia un tempo si mangiavano anche per
devozione: se ne facevano grosse scorpacciate a digiuno nei giorni di
vendemmia. Oltre che allo stato fresco, si consumavano – come adesso – sotto
forma di marmellata e mostarda. Con le bucce si fanno squisite frittelle, la
polpa viene adoperata nella preparazione di ottimi liquori. Il succo di
ficodindia è importante rimedio contro la tosse. I frutti più scadenti, i
cosiddetti cularrussa (che vengono a maturazione fuori stagione) si sono sempre
dati in pasto ai porci. I fiori essiccati – che tutt'ora si vendono a caro
prezzo nelle bancarelle dei vecchi mercati di Palermo e nelle migliori
erboristerie dell’Isola – si usano per preparare, talvolta su consiglio medico,
infusi e decotti diuretici. Le pale, oltre a integrare l'alimentazione di
bovini, ovini, caprini e, all'occorrenza, anche di asini affamati, possono
essere considerate veri e propri farmaci, a voler credere a certe
"medichesse del popolo" dal sussiego da gran dottoroni. Una pala fresca
legata al collo sconfigge il mal di gola. Ma cosa non si curava un tempo con le
pale di ficodindia? A parte il tumore alla milza (per il quale bisognava
seguire un rituale complicato e recitare un'orazione che pochi conoscevano),
dalle malattie cutanee alle slogature, alle lussazioni, alle febbri malariche,
ai rilassamenti dell'ugola, alla stessa tubercolosi... tutto si curava con le
pale di ficodindia "vergini", che non avessero, cioè, mai prodotto
fiori. Il segreto stava (e per molti versi sta ancora) nel saperle spaccare
come Dio comanda e nel preparare a regola d'arte le "picate" e i
"cataplasmi". Con le pale si costruivano alcuni giocattoli:
sedioline, tavolinetti, carrettini siciliani. Le pale vecchie e ingobbite
sostituivano i guanti nella raccolta dei fichidindia. Fungevano da contenitori
per la manna fluente dai frassini sfregiati dal coltello del mannaloro; da
piatti in certi banchetti campestri, durante i quali, se mancava l'acqua e
bisognava pulire il coltello, non era un problema: bastava affondare la lama in
una pala. Le pale secche facevano degnamente le veci della paglia
nell'alimentazione del fuoco. E se non proprio le pale, quanto meno i frutti di
ficodindia hanno sempre eccitato la fantasia creativa anche di gente che vive
in città. Per incrementare le vendite, un ambulante palermitano inventò “iocu
d'a ficurinia c'a spingula”. «Il gioco consiste – si legge in un libro di
Giuseppe Piazza – nel segnare con uno spillo, ad insaputa dei clienti, un
frutto da quelli scelti da mangiare e a colui che toccherà il fico d'India
segnato, toccherà anche di pagare il conto». Insomma, questa pianta
multifunzionale importata dal Messico in Sicilia continua a testimoniare
umilmente di tante storie silenziose e di lunga durata, di cui però oramai si
sta perdendo purtroppo persino la memoria. Spetta quindi innanzitutto ai
siciliani recuperarne storia e utilizzazioni nei progetti di animazione e
sviluppo rurale eco-sostenibile.
Pippo Oddo
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