Strumento della tratta
degli schiavi ma anche incubatrice della modernità, la nave negriera
prefigura la fabbrica manchesteriana. Ma forse è solo ideologia,
perchè, come predica Matteo Renzi, i padroni sono buoni e amano i loro
operai!
Paolo Mieli
Il laboratorio nave
negriera
Il 25 agosto del 1775, quando i marinai di Liverpool avevano appena finito di attrezzare la nave «Derby» in preparazione di un viaggio alla volta dell’Angola (per trasportare schiavi dalla costa africana alla Giamaica), il comandante, Lucas Mann, annunciò che avrebbe ridotto la paga mensile da trenta a venti scellini. Tanto, disse, «di manodopera ce n’è quanta ne voglio». Per reazione i marinai sciolsero il cordame e lo lasciarono sul ponte in un ammasso aggrovigliato. L’armatore, Thomas Yates, chiamò le guardie che arrestarono nove ribelli e un giudice li condannò all’istante. A questo punto sul molo si radunò una folla decisa a liberare i «fratelli marinai». Ci riuscirono.
Di lì ebbe origine una
nuova forma di protesta, che presto si sarebbe trasformata in una
vera e propria insurrezione. Liberati i loro compagni, i marinai si
dedicarono a disattrezzare le navi dell’intero porto. Si
diressero poi al quartier generale dei mercanti per avanzare la
richiesta che si tornasse alla paga di sempre. Dal Mercantile
Exchange furono esplosi dei colpi e alcuni lavoratori del mare
restarono uccisi sul selciato.
I loro «fratelli»
risposero colpendo l’edificio con proiettili dei cannoni presi
dalle navi. Non solo. I rivoltosi marciarono compatti dietro George
Oliver che portava il bloody flag , la bandiera rossa che nel
codice dei pirati annunciava la loro intenzione di non chiedere né
dare quartiere: sarebbe stata, la loro, una battaglia all’ultimo
sangue. Liverpool ammutolì terrorizzata. La rivolta durò una
settimana, finché fu domata dal reggimento di lord Penbroke che,
dopo aver marciato una notte intera da Manchester sotto la pioggia,
si presentò in una città stremata, riuscendo in poche ore ad aver
ragione dei ribelli. Nacque in quei giorni quello che oggi
chiamiamo sciopero e che in inglese prende il nome ( strike )
proprio dall’azione compiuta dai marinai di «abbattere» le vele
delle navi. Non tutte le navi, però. Solo quelle impegnate nel
commercio di schiavi.
A questo genere di imbarcazioni è dedicato il libro La nave negriera di Marcus Rediker, in uscita dal Mulino. Su quei velieri per quattro secoli circa — dalla fine del XV alla seconda metà del XIX — viaggiarono da una parte all’altra dell’Atlantico, in quello che venne definito il «passaggio di mezzo», 12 milioni di neri deportati, due terzi dei quali tra il 1700 e il 1808. Con una quantità impressionante di morti: un milione e mezzo. Ai quali se ne deve aggiungere un numero ancora più imponente (un milione e 800 mila) di deceduti nel corso del viaggio che li aveva trasportati dalle zone interne dell’Africa a quelle costiere. Più 750 mila trapassati durante il primo anno di lavoro nel Nuovo Mondo. Per un totale di oltre quattro milioni. Una mostruosità che ha fin qui offuscato il ruolo che ebbe la protagonista di questo libro, la nave, che pure è stata un elemento fondamentale del passaggio alla modernità.
La nave negriera, rileva Rediker, «è stata un argomento trascurato nella letteratura storica sul traffico atlantico di schiavi». Sono state condotte «eccellenti ricerche sull’origine, sulla distribuzione nel tempo, sui volumi, sui flussi e sui profitti della tratta degli schiavi, ma non esistono studi sufficientemente ampi sulla nave che aveva reso possibile un commercio destinato a trasformare il mondo: non esistono analisi dei meccanismi della più grande migrazione forzata della storia, che sotto molti aspetti fu il punto chiave di un’intera fase della globalizzazione; non esistono studi sullo strumento che spianò la strada alla “rivoluzione commerciale” dell’Europa, alla creazione delle sue piantagioni e dei suoi imperi globali, allo sviluppo del suo capitalismo e per finire alla sua industrializzazione».
In breve, «la nave
negriera e le relazioni sociali al suo interno hanno dato forma al
mondo moderno» ed è giunto il momento di renderne conto. Quel
vascello, scrive Rediker, «è un fantasma che naviga ai margini
della coscienza moderna». Esso fu «uno dei cardini su cui ruotava
il sistema atlantico di capitale e lavoro che si stava rapidamente
affermando e che coinvolgeva lavoratori liberi, non liberi e in
condizioni intermedie, nelle società capitalistiche come in quelle
non capitalistiche, in più continenti». Compito del marinaio era
trasformare il prigioniero africano in un bene vendibile.
E la nave fu il luogo
dove questo processo si compiva. I primi ad accorgersi di quale
portento fosse quel mezzo di locomozione sui mari furono i futuri
schiavi, che, dopo essere stati catturati da altri neri con delle
razzie all’interno del loro continente, venivano trasportati
sulla costa in viaggi che duravano mesi. Al termine dei quali,
avevano la visione sorprendente di quella che molti di loro
definivano «casa con le ali». L’esploratore Mungo Park
riferisce nel 1797 che i «prigionieri rimanevano strabiliati alla
vista delle navi»: si chiedevano quale fosse «la maniera per
collegare insieme le tavole che componevano lo scafo e di tappare
le connessure per non fare entrare l’acqua»; erano affascinati
«dalla funzione degli alberi, delle vele, delle sartie», si
meravigliavano che «fosse possibile far muovere un oggetto così
grande con la sola forza del vento».
E ancor più si
stupivano che, come per magia, quei giganti riuscissero
all’improvviso a fermarsi. Olaudah Equiano, lo schiavo che nel
1789 scrisse un’autobiografia destinata a diventare il libro di
riferimento di tutti gli abolizionisti, racconta che ritenne
fossero gli spiriti a far arrestare la nave. Tanto più che gli
schiavi venivano rinchiusi nel ponte inferiore in modo da impedir
loro di vedere come l’imbarcazione veniva manovrata, così da
scoraggiare tentazioni di ammutinamento.
Nell’introduzione al suo libro Principles of Naval Architecture (1784), Thomas Gordon fa un’affermazione radicale: «Poiché indiscutibilmente la nave è la più nobile e fra le più utili macchine mai inventate, ogni tentativo di migliorarla va guardato come ad un’impresa di grande importanza e merita la considerazione dell’umanità tutta». L’origine della nave negriera in quanto «macchina capace di trasformare il mondo», risale alla fine del Cinquecento, allorché i portoghesi intrapresero i loro viaggi verso le coste occidentali dell’Africa. L’importanza specifica della nave negriera, secondo Rediker, fu poi legata a un’altra fondamentale istituzione collegata allo schiavismo: la piantagione. Una forma di organizzazione economica che ebbe inizio nel Mediterraneo durante il Medioevo, si diffuse nelle isole dell’Atlantico orientale per emergere infine, nel corso del Seicento, in una forma nuova e rivoluzionaria nel Nuovo Mondo, specie in Brasile, nei Caraibi e nell’America settentrionale. La nave e le piantagioni fecero compiere all’economia un salto definitivo nella modernità. In che senso?
La nave negriera era «una poderosa macchina per la navigazione», ma era anche di più: «qualcosa di unico nel suo genere». Era infatti «una factory nonché una prigione», e in questa combinazione risiedevano «la sua genialità e il suo orrore». La nave era «una fabbrica, uno stabilimento produttivo in senso moderno; il veliero oceanico era un classico luogo di lavoro, dove mercanti capitalisti ammassavano e confinavano un gran numero di lavoratori poveri e si servivano di capisquadra (comandanti e ufficiali) per organizzare, o meglio sincronizzare, le varie mansioni».
Fu il mercante e
lobbista Malachy Postlethwayt a teorizzare nel 1745 il «commercio
triangolare», secondo cui le navi dovevano partire da porti
europei con un carico di manufatti industriali alla volta
dell’Africa occidentale, dove li avrebbero scambiati con un
carico di schiavi, per poi proseguire per le Americhe dove questi
ultimi sarebbero stati scambiati con merci come zucchero, tabacco o
riso da trasportare ai porti di partenza. Nel corso di quel viaggio
uomini e donne africani erano stati trasformati in merce.
L’ingresso «nello sconvolgente, terrificante mondo della nave negriera», scrive Rediker, «rappresentò per i neri catturati una traumatica transizione dal controllo africano a quello europeo». L’unica via di fuga da questa «fabbrica» era il suicidio, compiuto con il lasciarsi cadere in acqua. Una pratica molto diffusa. I comandanti negrieri «si servivano coscientemente degli squali per generare terrore durante il viaggio: contavano infatti su quel terrore, durante le lunghe soste sulla costa africana nel tempo occorrente a completare il “carico umano”, per prevenire sia le diserzioni dei marinai sia le fughe di schiavi». Tutto appariva magico e spaventoso durante il tragitto dall’Africa all’America. Narra Equiano che, quando le onde cominciavano a sollevarsi, lui e i suoi compagni di viaggio pensavano che fossero segno dell’ira del dio dei mari, al quale si aspettavano di essere sacrificati.
Lo stesso accadeva
quando vedevano le orche, che scambiavano per «spiriti dei mari».
E quando il cibo cominciò a scarseggiare, ritennero più che
probabile essere dati in pasto all’equipaggio. Anzi, pensarono
che per questo fine erano stati ammassati a bordo. Un secondo
momento di grande paura dei neri era all’arrivo, dove,
riferiscono le loro testimonianze, al cospetto degli acquirenti,
«pensavamo che saremmo stati mangiati da quegli uomini orribili,
perché così li vedevamo». Talché dovevano essere fatti salire a
bordo «alcuni vecchi schiavi da terra per calmarci».
Ma il destino dei marinai non era molto migliore di quello degli africani. Per trasportare milioni di schiavi, si dovettero arruolare equipaggi per un totale di almeno 350 mila uomini, il 30 per cento dei quali era composto da ufficiali o lavoratori specializzati che ricevevano particolari incentivi e quindi tornavano ad arruolarsi più spesso dei marinai comuni. Ma ce n’erano poi altri 200 mila e più che si facevano ingaggiare a condizioni di lavoro durissime, paghe modeste, cibo scadente e altissimo rischio di mortalità («per incidenti, abuso di disciplina, rivolte di schiavi o malattie»).
Essi venivano descritti
dai contemporanei come «rifiuti umani, feccia della nazione». Con
le buone o con le cattive «si attiravano a bordo uomini di tutti i
tipi… alcuni, ubriachi o indebitati, erano stati costretti a
scambiare la prigione della terraferma con una galleggiante».
Ecco, appunto, anche per i marinai quel genere d’imbarcazione era
una «prigione galleggiante». Appena la nave era distante dalle
coste europee, talché nessuno avrebbe potuto scendere, si
trasformava in un «inferno sui mari».
E qualcuno come James
Field Stanfield nel 1788 pensava che in un certo senso «gli
schiavi stessero meglio dell’equipaggio, se non altro perché il
comandante aveva un incentivo economico per nutrirli e mantenerli
in vita nel passaggio di mezzo». Anche la vita del comandante,
però, non era tutta rose e fiori, esposta com’era ad avversità,
violenze, ammutinamenti. Fu fatto un calcolo, tra gli anni 1801 e
1807, che un comandante su sette moriva durante il viaggio e questo
significava che i mercanti dovevano predisporre una catena di
comando con uno o a volte due ufficiali pronti a subentrargli: «La
stessa fragilità del potere a bordo della nave può aver
contribuito ad accrescerne la spietatezza».
Paradossalmente l’odio per i trafficanti di schiavi (e con esso la battaglia abolizionista) iniziò da un uomo che era stato al loro servizio. Bartholomew Roberts, un giovane gallese, si era imbarcato come secondo di bordo sulla «Princess», una nave negriera in partenza da Londra per la Sierra Leone. Nel giugno del 1719 la «Princess» fu catturata da una banda di pirati il cui comandante, Howell Davis, propose a Roberts di unirsi alla «fratellanza». Roberts accettò, si trasformò in «Bart il Nero» e ben presto divenne il corsaro più famoso della sua epoca: era a capo di una flotta di navi e di molte centinaia di uomini, che catturarono più di 400 mercantili in un periodo di tre anni.
Le sue caratteristiche
erano quella di passeggiare sul ponte vestito da dandy (gilet
damascato, una piuma sul cappello e uno stuzzicadenti d’oro in
bocca) e quella di odiare i modi brutali dei comandanti delle navi
negriere. Al punto che «lui e la sua ciurma usavano celebrare una
sorta di cruento rituale, che chiamavano “dispensazione di
giustizia”, consistente nel somministrare una micidiale quantità
di frustate ai comandanti accusati dai marinai di comportamenti
violenti nei confronti dei neri». Roberts terrorizzò le coste
africane, gettando nel panico i mercanti locali. A seguito delle
sue imprese, le cose cominciarono a cambiare.
La nave negriera ebbe un’evoluzione dettata in un primo tempo da esigenze economiche e in un secondo anche da pressioni degli ambienti abolizionisti. Inizialmente i bastimenti usati per la tratta, ricorda Rediker, non venivano costruiti specificamente per quel tipo di commercio: per tutto il periodo 1700-1808 il traffico di schiavi fu praticato da natanti di tutti i tipi e di tutte le stazze. Dopo il 1750, però, cominciò ad apparire un nuovo genere di nave negriera, specie nei cantieri navali di Liverpool, più grande e dotata di caratteristiche particolari: prese d’aria, fondo rivestito di rame, più spazio fra i ponti. La nave negriera «era una delle più importanti tecnologie del tempo».
Il disegno delle navi
prodotte a Liverpool subì altre modifiche verso il 1790, come
risultato delle pressioni esercitate dal movimento abolizionista e
dell’approvazione da parte del Parlamento inglese di una riforma
volta a migliorare il trattamento e le condizioni sanitarie di
marinai e schiavi. Il Parlamento inglese abolirà la tratta degli
schiavi nel 1807 (ma lo schiavismo resterà in vigore fino al
1833). E quella fattispecie di modernità venuta alla luce su
quelle navi o a ridosso di esse — con un impasto di accumulazione
impetuosa, ribellioni, tensioni interrazziali, insurrezioni
violente — lasciò i mari per tornare definitivamente sulla
terraferma.
Il Corriere della sera -
30 settembre 2014
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