Quando finirà il PD?
di Rino Genovese
L’ultimo psicodramma intorno al jobs act e
alla prospettiva di un’ulteriore sterilizzazione dell’articolo 18, dopo
quella già attuata dal governo Monti, lo ha dimostrato: una parte del
Pd – sarà per risentimento, sarà per intima convinzione – resiste alla
prospettiva di vedere il partito trasformarsi in ciò che ormai è già: un
comitato elettorale, la pura cassa di risonanza di un leader dal tratto
marcatamente berlusconiano. Ma, per un residuo di lealtà nei confronti
della “ditta” come la chiama Bersani, o più probabilmente perché
spaventata dall’idea di dover ricominciare da capo facendo cadere un
governo nell’immediato senza alternativa che non sia una qualche forma
di eterodirezione da parte di Bruxelles, la minoranza del partito
rilutta a trarre tutte le conseguenze dal suo atteggiamento politico.
Del resto che cosa ci si potrebbe aspettare da chi, tenendo in piedi il
governo Monti al di là di ogni ragionevole durata, ha compromesso
irrimediabilmente il risultato elettorale successivo?
Alla lunga però il
Pd non potrà che implodere (nella peggiore delle ipotesi) o scindersi
(nella migliore): perché la sua stessa nascita come riflesso speculare
del berlusconismo, nell’incapacità della sinistra di costruire una
coalizione serbando un’identità al suo interno, fu un parto mostruoso,
un’operazione alla Frankenstein che solo in un paese scombinato come
l’Italia poteva essere pensata, e che ha aperto la strada – insieme con
la bancarotta della Rifondazione bertinottiana – al fenomeno
qualunquistico grillino, che tanta parte dell’elettorato di sinistra è
riuscito a raccogliere intorno a sé. Senza capacità di farsi carico
delle sofferenze sociali, sempre più votato alla gestione anziché
al governo, avvitato in una mimesi che ebbe il suo apice con Veltroni
(difatti il meno rottamato dei rottamandi) nei confronti dell’avversario
berlusconiano (Michele Salvati arrivò a parlare di una Forza Italia di
sinistra), smarrita ogni autonoma radice socialista con l’emulazione di
un liberalismo solo vagamente sociale come quello di Blair (non è stato
il rottamatore Renzi il primo blairiano… ma, incredibile dictu,
proprio il rottamando D’Alema…), in breve genericamente assumendo il
nome di Partito democratico (con un richiamo perfino troppo lusinghiero
all’omonimo partito americano, capace se non altro di sostenere i
diritti civili perché privo di una componente
democristiana), espressione fuori tempo di una tarda strategia da
“compromesso storico”, lo strano aggregato politico sorto per governare
il paese al posto di una destra populista ha concluso il suo non
brillante cammino firmando le grandi e le piccole intese con questa
stessa destra. Dopo di ciò, il fallimento è conclamato e non ci sarebbe
altro da fare se non mettere mano alla costruzione di qualcosa di
diverso.
Questo qualcosa da
un po’ nell’aria, che dall’opposizione del sindacato allo svuotamento
terminale dell’articolo 18 potrebbe finalmente prendere forma, non
avrebbe un futuro senza una rottura – non sappiamo di quale entità –
all’interno del Pd. Non si tratterebbe, come nella pessima tradizione
novecentesca, di una scissione dei puri che epurano i meno puri (per
parafrasare Pietro Nenni); si tratterebbe né più né meno di ricostruire
una sinistra politica e sociale adeguata ai tempi. È vero, per dirne
una, che negli scorsi decenni anche il sindacato si è sostanzialmente
disinteressato alle sorti dei lavoratori precari; ma la correzione
dell’impostazione, e la soluzione del problema, non stanno
nell’eliminare o nell’attenuare i diritti di chi già li ha, cioè
della residua forza lavoro che ancora gode di un impiego a tempo
indeterminato; stanno piuttosto nell’estenderli a chi non li ha. Una
Carta dei diritti dei lavoratori precari e informali resta ancora tutta
da scrivere. E sarebbe una delle prime proposte attorno a cui costruire
una nuova forza di sinistra.
Questo articolo è uscito oggi 13 ottobre 2014 sul sito di «Il Ponte».
Ma noi l'abbiamo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/
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