Thomas Piketty
Perché il popolo
tradisce la sinistra
Perché le classi
popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E
perché voltano le spalle in particolare ai partiti di centrosinistra
che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti
di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo.
Negli ultimi decenni le
classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna,
prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non
sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi
sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita
alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa
dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o
mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio
provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno
beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è
che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora
di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le
istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale
le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova
realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle
trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più
penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi).
Tutto questo riguarda un
insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei
treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie
regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono
di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente
anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la
progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con
una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più
elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i
più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80.
Inoltre, bisogna
sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il
tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente
scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si
ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle
che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno
servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite
si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il
consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia
all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in
Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che
si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul
mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto,
bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è
assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi
anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli
Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di
bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.
Se non si troverà nessun
compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono
reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano
di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno
benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno
decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per
cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si
rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale
assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando
assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le
elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema
destra nelle regioni francesi.
Traduzione di Fabio
Galimberti
La Repubblica – 30 marzo 2015
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