Questa sera riprendo una breve nota sciasciana da http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/07/il-sicilianismo-e-la-borghesia-mafiosa.html che ben si riallaccia ad un nostro precedente articolo http://150anniinsieme.blogspot.it/2012/10/la-sicilia-di-sciascia.html
Il "sicilianismo" e la borghesia mafiosa
In un suo breve saggio del 1968 (anno fatidico), intitolato Brigantaggio napoletano e mafia siciliana,
Leonardo Sciascia si interroga sulla natura del banditismo dell’Italia
meridionale e giunge alla conclusione che ha alla base forti
inquietudini sociali, ma quando “butta in politica” inevitabilmente si
sposa alla reazione legittimista e clericale. Egli trova infondate,
pertanto, le preoccupazioni o gli entusiasmi di taluni osservatori coevi
al fenomeno, di chi (monarchico o anarchico) pensa che la guerriglia
del Sud possa sfociare nella rivolta e nel regicidio: l’unica
politicizzazione possibile è la Vandea, il cardinale Ruffo. A Sciascia,
peraltro, appare molto diversa la situazione siciliana, ove il contesto
rende improponibili percorsi di quel tipo.
Riprendo qui il
brano che argomenta tale impossibilità. Vi fa una sua apparizione – la
prima mi pare nel dibattito di quegli anni - la categoria della borghesia mafiosa,
su cui, nello stesso torno di tempo, con un approccio marxista, sta
riflettendo Mario Mineo al circolo Labriola di Palermo (rimpolpandola di
contenuti analitici la metterà al centro del documento di fondazione
del Centro di Iniziativa Comunista per la Sicilia). Sciascia,
contrariamente alla vulgata che la connetteva all’arretratezza e al
latifondo, legge la mafia – quella storica e quella attuale – come
portatrice di un’ambigua modernizzazione e intravede la sua capacità
carratteristica di trarre potenza e profitto dallo stesso mutamento
delle condizioni politiche. (S.L.L.)
Come
mai, dunque, non nasce un brigantaggio politico in Sicilia nonostante
l'aperto disinganno succeduto, nello spirito pubblico, agli entusiasmi
suscitati da Garibaldi? La ragione principale crediamo sia da ricercare
nel «sicilianismo», cioè in quel complesso di sentimenti e di
risentimenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli avevano più
o meno efficacemente contrastato ogni attentato ai privilegi del Regno
di Sicilia e, nell'ultimo periodo, la politica unitaria (di unione al
Regno di Napoli) dei Borboni.
Elemento
importante del «sicilianismo» era l'istituto dell'Apostolica Legazia,
per cui lo Stato siciliano deteneva delega di poteri ecclesiastici e
religiosi: e ne discendeva il carattere non diciamo progressista, ma in
un certo modo laicista del clero (e più di una memoria registra la
sorpresa dei garibaldini a trovarsi accanto preti e frati). E dentro il
«sicilianismo» si agitava la formazione di una categoria sociale, se non
di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa
più esattamente, di cui è campione il Sedara del Gattopardo: la quale
categoria vedeva nel parlamentarismo, o almeno nella macchina
elettorale, quelle chances
che lo Stato dei Borboni non offriva e non prometteva. In forza del
«sicilianismo», insomma, le frange legittimiste e sanfediste si
riducevano in Sicilia a pochi funzionari e manutengoli del regime
borbonico, e ai più maldestri e ingenui per di più. A Napoli, capitale
del Regno delle Due Sicilie, c'erano invece un'aristocrazia e una
burocrazia cristallizzate intorno alla corte borbonica; un clero
direttamente legato alla Curia romana; una classe borghese (sempre
approssimativamente parlando) meno pronta e spregiudicata di quella
borghese-mafiosa, la quale aveva capito che tutto stava per cambiare
appunto perché niente cambiasse e che l'entrare nel Regno d'Italia,
abdicando a certi privilegi autonomistici, avrebbe accelerato il
passaggio di consegne dai gattopardi agli sciacalli su una realtà
destinata per molti anni ancora alla immobilità. In conclusione:
identificando il «sicilianismo» in un corpus piuttosto confuso e
contraddittorio di privilegi nazionali e di classe (e compresi tra gli
uni e gli altri quelli dell'Apostolica Legazia), di tradizioni, di
costumi, di abitudini ritenuti perfetti e superiori (e siamo nella
dimensione della follia siciliana, che tuttora esiste ed esercita un suo
fascino anche sui non siciliani), non è del tutto azzardato affermare
che la mafia ne fosse il risultato più conseguente al momento dell'Unità
d'Italia (e oltre) e che addirittura riflettesse echi di una
rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria; e da ciò la sua
funzione in senso nazionale-unitario e il venir meno di quelle
condizioni che davano luogo al brigantaggio nelle province napoletane.
Giustamente dice Hobsbawm: « La nuova classe dominante dell'economia
agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori cittadini,
scoprirono un modus vivendi
con il capitalismo settentrionale ». Una classe di uguale formazione,
che non aveva alcuna ragione di temere «la trasformazione del Sud in una
colonia agricola del Nord commerciale e industriale», una classe così
pronta e spregiudicata e refrattaria ai motivi ideali della legittimità e
della fede, non esisteva nel napoletano: per cui i briganti
continuarono in Sicilia a fare i briganti, e portarono lo Stato italiano
a patteggiare l'ordine pubblico con la mafia stessa.
Queste
considerazioni valgono, crediamo, a spiegare come le vaghe aspirazioni
sociali riscontrabili nel brigantaggio diciamo napoletano, o soltanto in
alcuni capi, si agitassero dentro il contesto di una fazione molto più
arretrata e reazionaria (oltre che effettualmente inutile in quanto di
causa persa) della mafia siciliana: e questa sarà la caratteristica di
ogni brigantaggio politico, fino a Salvatore Giuliano (il quale,
politicamente sollecitato dalla mafia, fu dalla stessa mafia spento
quando essa trovò assestamento nella democrazia post-fascista).
LEONARDO SCIASCIA, 1968.
In La corda pazza, Einaudi, 1970
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