08 febbraio 2014

PER LA RINASCITA DELLA SARDEGNA



Pubblichiamo un reportage di Paola Zanuttini uscito sul Venerdì di Repubblica ringraziando la testata e l’autrice.



Cagliari. Qualcuno, sulla stampa continentale, ha sentenziato che la candidata governatora della Sardegna Michela Murgia incarna la protesta, il grillismo fase due. «Una porcata» ribatte lei, icastica (è scrittrice, sceglie bene le parole). Ma alla presentazione ufficiale del suo movimento Sardegna Possibile e dell’eventuale giunta (scelta oltre un mese prima delle elezioni del 16 febbraio) tira aria da ceto medio riflessivo. O da prima teatrale. Una folta platea di saluti, sorrisi, abbracci. Molti abbracci. E bei cappottini.
La signora che mi siede accanto guarda la candidata presidente con palese simpatia. E buttà lì: «Come somiglia a Geppi Cucciari!». Vero, ma senza l’imprimatur della signora io non l’avrei mai affermato, per vile timore della suscettibilità isolana. Le due sarde più conosciute del momento sono Murgia e Cucciari. Quarantenni, molto simili, anche nei modi, nell’ironia tagliente. Il sottotesto potrebbe essere che sono uguali perché sono sarde. E basta. Più tardi, parlando con la candidata (che ha studiato Scienze religiose e assume un’aria curiale quando lo staff comunicazione la implora di essere seriosa) le confesso la mia viltà, confidando nella sua teologica comprensione degli umani peccati. Lei si fa una risata: «La somiglianza con Geppi è una condanna. Tre anni fa, a Cagliari, abbiamo fatto uno spettacolo insieme, Separate alla nascita».
I suoi consulenti punterebbero a un’immagine formale, compunta. Le vietano le scollature. Parlano di tailleur, che lei scarta sdegnata, optando per le mise dalla sua amica Patrizia Camba, stilista (sarda, ovvio) specializzata nel recupero dei tessuti della tradizione, che le danno una morbida aria matronale. Così matronale che il candidato assessore alla Salute Pino Frau, dopo un intervento palpitante assai, la descrive così: «Michela è un po’ una mamma chioccia per tutti noi». Reazione dell’interessata: «Basta così. Ti piacerebbe che fossi tua madre: hai il triplo dei miei anni».
In una Sardegna che si presenta alle elezioni con il Pd e il centrodestra falcidiati dalle inchieste sulle spese pazze in Regione e i 5 Stelle, primi alle politiche con il 29 per cento, incapaci di esprimere un candidato, la novità è questa scrittrice di successo (Il mondo deve sapere, Accabadora, Ave Mary), che ha fatto un’infinità di lavori, (insegnante di religione, telefonista di call center, portiere di notte…) e che, quest’estate, ha accettato di candidarsi.
Sardegna Possibile mette inseme tre liste: Gentes, ovvero la società civile degli artigiani come del volontariato, gli amministratori delle realtà locali di Comunidades e la rifondazione indipendentista di Progres, dove Murgia milita da anni. Sono state raccolte più firme di quelle necessarie alla presentazione della lista e, ai primi di gennaio, i sondaggi, che registravano un astensionismo al 54 per cento, la davano all’11 per cento. Ma gli altri contendenti non se la passavano tanto meglio: il governatore uscente Ugo Cappellacci (Forza Italia) al 17, e, al 15, il candidato del Pd, l’economista Francesco Pigliaru, che sostituisce Francesca Barracciu, trionfatrice alle primarie inciampata però nelle indagini, per 33 mila euro di rimborsi sospetti. Il partito, che non aveva digerito la sua vittoria, le ha chiesto di farsi da parte, ma ha rimesso in lista tre indagati. A destra, non si sono fatti questi problemi: tana libera tutti, visto che Cappellacci di processi ne ha tre. Nei sondaggi sulla fiducia, Murgia è in testa con un 48 per cento che le consente di lavorare sugli elettori in fuga dalle urne.
Ci voleva una scrittrice per ricreare una narrazione politica. Lei lo fa con parole suggestive. «La Sardegna si è persa perché non ha più una trama. Rimetteremo insieme i pezzi: il nostro ago è l’innovazione e il filo è la tradizione. In questi mesi abbiamo ascoltato tutti, abbiamo messo insieme città e campagna, alta tecnologia e saperi antichi. Non è vero che incarniamo solo rabbia e protesta, la nostra è una rivoluzione dolce». Non è vero nemmeno che, da cattolica, ostacolerà l’aborto, come si dice in giro da quando ha cominciato a far paura: «I diritti non si toccano e le le mie prese di posizione femministe sono una garanzia». Anche la convivenza e le nozze, prima civili e solo poi religiose, con Manuel Persico, informatico bergamasco molto discreto e suo grande supporter (12 anni più giovane!), attestano la sua laicità. E l’anticonfomismo.
L’ascolto è una prassi. Esercitata negli Ost, Open space technology, procedura born in the Usa che ha prodotto incontri su ambiente, sanità, agricoltura, energia, cultura. Ci sarà del populismo in questa prassi, ma gli interpellati non erano gente arrivata per caso: diretti interessati ed esperti dei vari settori, non necessariamente attratti dal progetto politico, ma a mettere insieme esperienze e competenze sì. In queste assise, Murgia ha scovato molti assessori e candidati di lista, giovani e no e neanche troppo fissati con twitter. Di che colore? Lei risponde che il movimento non si riconosce né in quel che resta del Pdl né nel Pd. Un po’ diverso dal dire che destra e sinistra non esistono più. Ascolto del territorio e concertazione non dovrebbero essere una gran novità, ma quando Pigliaru afferma di aver stilato il suo programma in dieci giorni viene il sospetto che sì, forse lo è. E Murgia ascolta anche i suoi. Mentre si preparava per una tribuna elettorale a Videolina, prima tv privata di Sardegna, ha subìto una specie di esame: lo staff comunicazione e gli esperti le facevano le domande che presumibilmente le avrebbero rivolto conduttore e giornalisti. In media, sapeva rispondere e, quando non sapeva, chiedeva. Poi, con l’abilità della narratrice ricomponeva le risposte a sua misura. Le competenze messe in gioco erano alte e il clima effervescente come quando l’aspirina scende nel bicchiere e fa le bollicine.
Quanto dureranno effervescenza e concordia dello stato nascente? Se Murgia vince, quanto tempo passerà prima che la politica mostri il suo lato feroce? Lei dice che ha paura della solitudine del potere: «Se mi accorgessi di essere sola, capirei di aver sbagliato. La mia idea non è singolare, non vedo il potere in termini sottrattivi: non penso che per averlo devi toglierlo a qualcun altro. Esiste un modo per essere potenti insieme ed è così che il potere si moltiplica, lo sforzo democratico è l’equilibrio fra gerarchia e orizzontalità».
Ogni tanto Murgia attacca col sardo. Anche in tv. E qualche assessore storce il naso, la considera una spericolata affettazione. Lei ribatte che l’indipendentismo sardo non c’entra niente con il leghismo. «La nostra è una lunga storia legata alla consapevolezza, negata anche da noi stessi, di essere nazione; mentre la Padania è, secondo una definizione da storici, un mito tecnicizzato: ti siedi, metti insieme i marcatori identitari, agiti. E il cocktail che vuoi far venire fuori è esattamente quello che sei. Il leghismo punta sull’identità: chi non parla, non mangia, non prega e non guadagna come te è un nemico. Noi puntiamo sull’appartenenza, dove ogni differenza ha diritto di cittadinanza. Nel mio paese nessuno è come me, ma nessuno può pensare che non gli appartengo o che non mi appartiene».
Detto questo, vuol istituire l’agenzia delle entrate regionali prevista dallo Statuto speciale (che la Sicilia ha già). Come darle torto? Il governo italiano è moroso nella restituzione dei due terzi dell’Irpef e dell’Iva versate.
In un pub per universitari, Murgia mi fa un augurio in sardo stretto. Tradotto, suona così: «Che tu possa avere tanti angeli al capezzale quante birre mi sono bevuta io». La birra è un suo cavallo di battaglia per esporre il programma dei microsistemi produttivi a filiera completa. Un programma sensato in una regione che produce miele a caterve, ma non riesce a servirlo a colazione negli alberghi perché sull’isola non c’è un’azienda che produca le vaschette per confezionarlo a norma Ue. «Noi siamo i primi consumatori di birra in Italia e i terzi in Europa. Ma non abbiamo una vetreria: mandiamo le bottiglie usate in continente, dove il vetro è riciclato per produrne di nuove e spedirle all’Ichnusa, che le paga molto più degli altri birrai italiani».
In neanche 30 pagine, il programma di Sardegna Possibile non prevede piani speciali per una regione al collasso, con la cassa integrazione in deroga cresciuta del 500 per cento. Il vero piano speciale è l’integrazione dei problemi e delle soluzioni. Il buco nella Sanità, l’abbandono dei piccoli centri e quello scolastico, la difficoltà di esportare i prodotti interni, e i supermercati dove le arance sono siciliane invece che sarde hanno un elemento critico in comune: i trasporti. Voragini stradali, ferrovie a binario unico e Nuoro che è l’unico capoluogo d’Italia a non aver mai visto un treno. Rilanciare i trasporti e i rapporti di prossimità semplifica l’accesso alle cure, favorisce le esportazioni e la distribuzione interna dei prodotti locali. Una rogna così grossa che Murgia ha avocato l’assessorato competente. Dice di averlo fatto perché i tecnici, in Regione, ci sono e pure bravi, ma serve una visione. Che compete alla politica. Con qualche cinismo si può supporre che su una rogna simile nessuno voglia giocarsi la faccia.

 di Paola Zanuttini

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