11 febbraio 2014

INTORNO ALLA MOSTRA DEL FAMOSO QUADRO DI VERMEER A BOLOGNA





Pubblichiamo un intervento di Tomaso Montanari, che tornerà a fine marzo in libreria con Istruzioni per l’uso del futuro, uscito sul blog del Fatto Quotidiano.

Tomaso Montanari

La ragazza con l’orecchino di perla: marketing o conoscenza?


Una galleria d’arte contemporanea di Bologna – la Spazio Testoni – ha appena inaugurato una mostra di interpretazioni contemporanee della Ragazza con l’orecchino di Perla, il capolavoro di Vermeer trionfalmente esibito poco lontano, a Palazzo Fava. Uno degli artisti invitati a partecipare, Giovanni de Gara, mi ha chiesto di spiegargli perché fossi contrario a questa clamorosa operazione di marketing: e ha deciso di incorniciare ed esporre in quella mostra proprio la mail con la quale gli ho risposto (vedi foto).
Così facendo, Giovanni ha interpretato il proprio ruolo di artista come quello del bambino che dice “il re è nudo”. È questa, infatti, la più antica e misteriosa funzione degli artisti: dire la verità.
E la verità – ha scritto Tony Judt – «la verità spiacevole, nella maggior parte dei casi, è di solito che ti stanno mentendo».
In questo caso, la menzogna è che l’esibizione del dipinto di Vermeer abbia qualcosa a che fare con la cultura. In effetti, non c’è nulla di culturale in tutto questo: si tratta solo dello spostamento materiale di un’opera unito a una abilissima operazione commerciale. Senza una ricerca, un progetto scientifico, un senso intellettuale: un qualunque valore aggiunto di conoscenza.
Come ogni altra opera d’arte del passato, la Ragazza con l’orecchino di perla può giocare un ruolo davvero positivo nella nostra esperienza culturale in due casi: se la conosciamo nel contesto del suo museo (la Mauritshuis), della sua città (l’Aja), del suo paese (l’Olanda); oppure se la conosciamo in una mostra che ne ricostruisca il contesto artistico, e ne aumenti dunque la comprensione scientifica, rendendocela accessibile senza tradire né le ragioni della scienza né quelle della comunicazione.
L’aspetto più perverso di questa operazione, invece, è proprio l’isolamento del ‘capolavoro’, la sua ‘assolutizzazione’, e cioè, letteralmente, lo scioglimento di ogni suo legame (artistico, storico, culturale in senso lato). Con il quadro di Vermeer sono esposte a Bologna altre opere provenienti dallo stesso museo: ma tutta la comunicazione punta su quell’unico dipinto, che anche grazie alla sua fortuna letteraria e cinematografica viene trasformato in una specie di seconda Monna Lisa, un’icona senza tempo e senza senso.
Sarebbe interessante chiedersi perché la Mauritshuis assecondi un’operazione così marcatamente trash. E una risposta è che quel museo, dal 1995, non è più dello stato olandese: è stato privatizzato. E quando un’istituzione come un museo smette di essere al servizio esclusivo di una comunità e inizia a inseguire anche scopi di mercato, come il profitto, la produzione di conoscenza cessa di essere l’unica bussola.
Anche se ogni incontro diretto con un’opera d’arte è un’occasione preziosa, dovremmo quindi guardare a questa operazione con lo stesso scetticismo con cui ci difendiamo dal martellamento pubblicitario che subiamo ogni giorno. Tutti i giornali, tuttavia, dicono esattamente il contrario, ed esaltano l’evento senza manifestare alcun dubbio: forse anche a causa dell’enorme quantità di pubblicità che gli organizzatori hanno acquistato dagli stessi giornali.
Questo è il punto più delicato: e non solo per la storia dell’arte, come dimostra per esempio il caso Stamina. Il conformismo mediatico ci abitua a giudicare la qualità in base al consenso, e ad acquisire il consenso tramite una qualche forma di marketing fondata su elementi irrazionali ed emotivi che hanno a che fare con i meccanismi del desiderio. È per questo che una diffusa retorica oppone le «emozioni» alla conoscenza, che viene guardata con sospetto e screditata con ogni mezzo.
Esibire la Ragazza con l’orecchino di perla (ma anche la Gioconda, o il David di Michelangelo) come una reliquia magica, isolata ed irrelata, non ha nulla a che fare con la conoscenza. E anche se ci sono in fila centinaia di migliaia di persone tutto questo ha anche poco a che fare con un’emozione autentica, spontanea, non indotta.
Possiamo non vedere il problema, sul momento: tutto, anzi, congiura perché non lo vediamo. Ma, sul medio e poi sul lungo periodo, gli alberi si riconosceranno dai frutti: il marketing produce clienti, inconsapevoli e tendenzialmente infantili, mentre la conoscenza aiuta a formare cittadini consapevoli, disposti a lavorare alla propria maturazione.
Le chiese di Bologna rigurgitano di opere d’arte non meno emozionanti, e che si possono vedere gratuitamente. E l’Aja è molto vicina: la Ragazza con l’orecchino di perla non scappa. Dunque, non ingrossiamo le lunghe file degli accalappiati: non andiamo a vedere la mostra bolognese.
Proviamo invece a ribaltare il paradigma: visitiamo luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo da anni al buio perché non abbiamo mai avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche a essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire. Si risparmiano tredici euro: ma si guadagna molto di più.

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