21 febbraio 2014

LA CITTA' E' UN BENE COMUNE





Dopo l'alluvione a Roma restiamo in attesa della prossima catastrofe. Devastate da trent’anni di neoliberismo, le città italiane, considerate le più belle del mondo, hanno vissuto uno sviluppo edilizio selvaggio. Dimenticando il loro rapporto con la campagna e l’aria.

Piero Bevilacqua

L’ecosistema urbano è un bene comune

Che la città nasca, si con­servi e si svi­luppi all’interno di una rete di con­di­zio­na­menti ambien­tali è una con­qui­sta sor­pren­den­te­mente recente del pen­siero sociale. Solo il pro­gre­dire, negli ultimi decenni, della cul­tura ambien­ta­li­stica e – per il nostro caso – dell’ecologia urbana, hanno comin­ciato a disve­lare ciò che a lungo la cul­tura domi­nante aveva tenuto nasco­sto. Vale a dire i vin­coli di risorse e le con­di­zioni di habi­tat entro cui sono sorte e vivono le città. E non a caso le ragioni di un così lungo e per­du­rante occul­ta­mento risie­dono nelle con­di­zioni mate­riali del loro stesso suc­cesso, della loro espan­sione: in primo luogo il mer­cato.

Nel suo sag­gio Die Stadt Max Weber non ha dubbi sul fatto che, con­di­zione essen­ziale «per­ché si possa par­lare di città è l’esistenza nel luogo dell’insediamento di uno scam­bio di pro­dotti – non sol­tanto occa­sio­nale ma rego­lare — quale ele­mento essen­ziale del pro­fitto e della coper­tura del fab­bi­so­gno degli abi­tanti: l’esistenza di un mer­cato».

Anche allor­quando gli stu­diosi pren­dono in con­si­de­ra­zione una delle risorse natu­rali più ovvie, con­di­zione impre­scin­di­bile per la nascita e la vita di un aggre­gato di popo­la­zione, l’acqua di un fiume, ne sot­to­li­neano il rilievo quale infra­strut­tura ideale per i flussi di mer­cato. È il caso, ad esem­pio, di uno stu­dioso come Lewis Mum­ford, pur attento agli aspetti siste­mici del mondo urbano. Nella sua monu­men­tale La città nella sto­ria – meri­to­ria­mente ripro­po­sta ora da Castel­vec­chi — egli con­si­dera il fiume esclu­si­va­mente come «il primo vei­colo effi­cace per il tra­sporto di massa». E aggiunge: «Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli flu­viali, e che la loro ascesa sia con­tem­po­ra­nea ai pro­gressi della navi­ga­zione, dal fascio gal­leg­giante di giun­chi o di tron­chi alla barca mossa dai remi e dalle vele». Mum­ford non è solo in que­sto richiamo del fiume che dimen­tica la risorsa acqua: «Lon­dra dipende dal suo fiume», afferma peren­to­ria­mente Brau­del, ma si rife­ri­sce ai traf­fici che esso rende pos­si­bili, all’intensa vita eco­no­mica che si svolge lungo il Tamigi e soprat­tutto nell’area della sua foce.



Natu­ral­mente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di tra­sporto dei corsi d’acqua, peral­tro dotati di una loro ener­gia motrice e dun­que, per più versi, pre­zioso per i biso­gni delle popo­la­zioni urbane in età pre­in­du­striale. Ma il tra­sporto e il com­mer­cio rap­pre­sen­tano già una forma eco­no­mi­ca­mente evo­luta della stan­zia­lità urbana, fun­zio­nal­mente sepa­rata dalla vita agri­cola. E tut­ta­via a lungo insuf­fi­ciente a ren­dere le città auto­nome dalle loro fonti di approv­vi­gio­na­mento, costi­tuite dai ter­ri­tori agri­coli dei loro din­torni.

D’altra parte, prima di com­mer­ciare e di spo­starsi i primi cit­ta­dini dove­vano vivere e dun­que ave­vano asso­luto biso­gno di bere. Eppure non c’è trac­cia, anche in grandi sto­rici che si sono occu­pati di città, di accenno a tale ele­men­tare biso­gno della vita, risorsa impre­scin­di­bile dell’ umana esi­stenza. Quasi che il com­mer­ciare fosse la prima con­di­zione della vita urbana e non un suo com­ple­mento, spesso uno sta­dio suc­ces­sivo di evo­lu­zione. La vita, nella ovvietà dei suoi biso­gni e delle sue mani­fe­sta­zioni, diventa degna di nota quando acqui­sta un rilievo eco­no­mico. Anche Fer­nand Brau­del, nel vasto affre­sco del suo Medi­ter­ra­neo, che ha inse­gnato a tutti noi come la sto­ria si svolga negli spazi fisici delle mon­ta­gne e delle pia­nure, non ha occhi che per le con­di­zioni com­mer­ciali dell’esistenza urbana. «Non c’è città senza mer­cato e senza strade: esse si nutrono di movimento».

Oggi, nella fase sto­rica in cui il mer­cato mon­diale pene­tra negli anfratti più recon­diti della vita locale, è ancora visi­bile un eco­si­stema come inte­la­ia­tura fon­da­men­tale della vita urbana? Men­tre le città rice­vono tutto ciò che è loro neces­sa­rio da ter­ri­tori lon­tani e anche lon­ta­nis­simi, pos­siamo guar­dare ad esse come a nuclei di realtà mate­riale con­di­zio­nati, se non domi­nati, da vin­coli natu­rali costanti e neces­sari? Si tratta, in verità, di domande reto­ri­che. L’ecologia urbana della seconda metà del ’900 ha messo da tempo in evi­denza i carat­teri eco­si­ste­mici dell’ambiente urbano con approcci e con­tri­buti mol­te­plici. 



In realtà oggi si pre­senta ai nostri occhi una rete ambien­tale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in con­ti­nua espan­sione, delle comu­ni­ca­zioni) ma tenuta insieme da regole e vin­coli eco­si­ste­mici. La osser­viamo distin­ta­mente man mano che ci libe­riamo della scorza dell’economicismo di cui è incro­stato il pen­siero sociale con­tem­po­ra­neo. Allor­ché scor­giamo l’universalità di beni comuni di cui si com­pone la città, là dove prima l’osservatore non scor­geva che un pae­sag­gio di res nul­lius, o solo un sistema di domini pri­vati. E a tal fine appare indi­spen­sa­bile libe­rare la figura dell’uomo cit­ta­dino dalla sua sovra­strut­tura ideo­lo­gica di essere sociale, mero pro­dotto della sto­ria, fab­bro di se stesso tra­mite il domi­nio tec­nico sulla natura.

È tale ope­ra­zione di disve­la­mento che ci con­sente di guar­dare agli uomini quali sog­getti viventi, mem­bri della “comu­nità bio­tica” che popola la fore­sta urbana. La città è un eco­si­stema innan­zi­tutto per­ché gli uomini non hanno mai ces­sato di essere natura.

È infatti il para­dosso del suc­cesso tota­li­ta­rio dell’uomo tec­nico a disve­lare i legami non rese­ca­bili con la realtà bio­lo­gica. Pen­siamo al rap­porto tra città e dina­mi­che del clima. Sono ormai parec­chi anni che gli epi­sodi cli­ma­tici estremi (allu­vioni, tor­nado, ecc) in varie città del mondo, dagli Usa all’Europa, mostrano come le città non sfug­gano al sistema cli­ma­tico gene­rale e al suo cre­scente disor­dine. È ormai di domi­nio popo­lare che la cre­scente coper­tura del suolo con le strut­ture dell’edificato impe­di­sce in maniera cre­scente l’assorbimento dell’acqua pio­vana. In caso di piog­gia intensa – feno­meno che appare ormai sem­pre più rego­lare a tutte le lati­tu­dini — le strade diven­tano fiumi, rovi­nosi corsi d’acqua e gli abi­tati ven­gono alla­gati come comuni golene di espan­sione. Ma è esat­ta­mente nei momenti dram­ma­tici delle cala­mità, che essa ci fa com­pren­dere una realtà soli­ta­mente celata: il ter­ri­to­rio urbano non si esau­ri­sce nello spa­zio edi­fi­cato.



D’altra parte, tali feno­meni sve­lano un legame prima invi­si­bile tra gli uomini e l’habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emer­gere alla con­sa­pe­vo­lezza gene­rale l’esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro vio­la­zione, della loro messa in peri­colo. È evi­dente che l’edificazione dif­fusa, l’occupazione degli spazi incolti e col­ti­vati, la restri­zione dei ter­ri­tori agri­coli periur­bani, hanno riflessi cre­scenti su un diritto fon­da­men­tale dei cit­ta­dini: quello della sicu­rezza, dell’incolumità della per­sona. Sic­ché una occu­pa­zione del bene comune suolo per mano dei sin­goli pri­vati, che edi­fi­cano per loro spe­ci­fico inte­resse, si con­fi­gura sem­pre più niti­da­mente come in con­flitto con il bene comune della sicu­rezza di tutti. In caso di piogge intense le città diven­tano peri­co­lose per tutti i suoi abi­tanti.

Il danno par­ti­co­lare che l’uso pri­vato del suolo genera nei con­fronti dell’universalità dei cit­ta­dini disvela così uno spe­ci­fico carat­tere eco­si­ste­mico dell’azione umana in città. Non si pos­sono mutare gli equi­li­bri natu­rali di un habi­tat pur arti­fi­ciale senza effetti e rot­ture in qual­che punto del sistema. E soprat­tutto senza con­se­guenze sul Dedalo inge­gnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pen­sare al ter­ri­to­rio come a un mero sup­porto neu­tro sopra il quale “pog­giare” qua­lun­que edi­fi­cio: esso non è nudo suolo, appar­te­nente a vari pro­prie­tari che pre­ten­dono di rica­varvi una ren­dita, ma è il fram­mento di una rete eco­si­ste­mica entro la quale siamo tutti impi­gliati.

Il rap­porto siste­mico della città con il suo ter­ri­to­rio più o meno pros­simo emerge oggi anche dalla rot­tura di un equi­li­brio mil­le­na­rio con la cam­pa­gna, cui abbiamo già fatto cenno. Il muta­mento dram­ma­tico, in qua­lità e quan­tità, della massa dei rifiuti urbani ha creato feno­meni ignoti a tutte le società del pas­sato. Se un tempo la gran parte delle deie­zioni cit­ta­dine veniva util­mente con­su­mata dalle agri­col­ture cir­co­stanti in forma di fer­ti­liz­zanti, esse for­mano oggi un’appendice urbana che occupa e inquina ter­ri­tori più o meno pros­simi, con danni alle acque, all’aria, alla salute degli ani­mali e dei cit­ta­dini nelle varie casi­sti­che osser­va­bili in giro per il mondo.



Non meno noto è diven­tato il legame siste­mico tra il cielo della città, vale a dire la qua­lità dell’aria che in essa si respira, e la sua mani­po­la­zione, insieme pri­vata e col­let­tiva, a scopi pro­dut­tivi e di varia altra natura. Il sor­gere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allar­mante negli ultimi decenni, ha fatto emer­gere quale bene comune una risorsa vitale irri­nun­cia­bile, fino a pochi decenni fa da tutti igno­rata in quanto illi­mi­tata e rela­ti­va­mente inte­gra. L’aria è un com­mon. Noi tutti respi­riamo l’aria che ci cir­conda senza pen­sare ai nostri pol­moni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e cer­ta­mente senza chie­derci a chi appar­tiene. Ma l’apparire della scar­sità di que­sta risorsa, la sua vio­la­zione e alte­ra­zione (che cor­ri­sponde a una appro­pria­zione pri­vata dei sin­goli) fa emer­gere l’elemento natu­rale che rende pos­si­bile l’esistenza di tutti e al tempo il suo carat­tere di bene col­let­tivo e indi­vi­si­bile.

In que­sto spe­ci­fico caso appare assai dif­fi­cile sepa­rare l’interesse pri­vato di chi immette smog nello spa­zio urbano, usando un pro­prio mezzo di tra­sporto, da chi respira l’aria inqui­nata men­tre cam­mina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respi­rare il cock­tail foto­chi­mico di ani­dride car­bo­nica , di sol­fato di zolfo, par­ti­co­lato e vari altri inqui­nanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inqui­na­tori. Il bene comune dell’ aria salu­bre e il diritto uni­ver­sale alla salute ven­gono vio­lati siste­ma­ti­ca­mente anche da chi quel danno subi­sce, a sua volta, in quanto abi­tante di una città, utente dello spa­zio pub­blico. Appare qui evi­dente che la rap­pre­sen­tanza e la difesa del bene comune salute è affi­data a una auto­rità terza in grado di com­porre il diritto e il biso­gno della mobi­lità dei cit­ta­dini con quello di respi­rare un’aria non inqui­nata.

Tut­ta­via appare anche in que­sto caso ben visi­bile la con­fi­gu­ra­zione del mondo urbano quale eco­si­stema: l’uso pri­vato e col­let­tivo dell’habitat ha con­se­guenze sugli attori natu­rali che lo mani­po­lano e lo abi­tano, non diver­sa­mente da quanto accade in natura, allor­ché un qual­che agente rompe un equi­li­brio con­so­li­dato. Se un ambiente acqua­tico si pro­sciuga a causa di un inter­vento dell’uomo o per una pro­lun­gata sic­cità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mam­mi­feri che l’abitavano ne viene scon­volta.

Intanto, senza che nes­suno lo notasse, senza sofi­sti­cate ela­bo­ra­zioni teo­ri­che, sotto il cielo delle città un bene comune fon­da­men­tale è stato sto­ri­ca­mente ripar­tito e rego­lato con cri­teri ega­li­tari fra i suoi innu­me­re­voli frui­tori. Com’è noto, lo spa­zio adi­bito alla libera cir­co­la­zione di uomini e vei­coli non cono­sce signi­fi­ca­tivi impe­di­menti e domini pri­vati e par­ti­co­lari. Al con­tra­rio lo spo­sta­mento su strada è reso pos­si­bile da regole uni­ver­sali che danno pari diritto di movi­mento a tutti gli utenti. Quello spa­zio pub­blico è stato infatti ripar­tito in un reti­co­lato di pos­si­bi­lità e divieti in cui cia­scuno eser­cita il pro­prio diritto a spo­starsi rispet­tando quello degli altri. Il sema­foro rosso che impe­di­sce al sin­golo utente di tran­si­tare all’incrocio è un obbligo che lo costringe a non con­si­de­rare lo spa­zio urbano come un domi­nio par­ti­co­lare che può uti­liz­zare a pro­prio arbi­trio.



Qua­lun­que sia la potenza e il lusso del vei­colo che guida, qua­lun­que sia il ruolo sociale, la ric­chezza, la potenza gerar­chica del gui­da­tore, quel rosso è un impe­di­mento da rispet­tare. È con­di­zione della sua sicu­rezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spa­zio aperto delle strade cit­ta­dine. Una gram­ma­tica uni­ver­sale si impone su tutti. Ed è gra­zie a tale ega­li­ta­ri­smo che viene pro­tetto il bene comune dell’incolumità fisica dei cit­ta­dini. Solo i pari diritti di spo­sta­mento di cui godono tutti con­sen­tono l’uso otti­male del bene comune del ter­ri­to­rio urbano. Forse è qui il modello di uso ega­li­ta­rio della città, del suolo, dell’aria, delle risorse a cui occor­rerà uni­for­marsi in futuro.

Lo sce­na­rio cli­ma­tico che le cono­scenze scien­ti­fi­che del nostro tempo hanno squa­der­nato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame siste­mico tra la città, i suoi attori natu­rali, e il più vasto spa­zio pla­ne­ta­rio. Le città ci fanno spe­ri­men­tare la nuova mon­dia­lità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così niti­da­mente quali punti inter­con­nessi di una rete a scala glo­bale. Com’è lar­ga­mente noto, è lo smog cit­ta­dino, sono gli sca­ri­chi urbani e i fumi indu­striali per pro­du­zioni desti­nate alle città a deter­mi­nare una per­cen­tuale rile­vante di immis­sione di gas serra nell’atmosfera.Tutte le città del mondo, cen­tri ener­gi­vori di varie dimen­sioni e potenza, con­su­mano in maniera cre­scente petro­lio e car­bone, alte­rando il clima atmo­sfe­rico, sur­ri­scal­dando il nostro comune tetto di abi­tanti della Terra. Il riscal­da­mento glo­bale, potremmo dire, è figlio del meta­bo­li­smo urbano.

Vale la pena inol­tre osser­vare che il riscal­da­mento urbano tende a raf­for­zare i suoi effetti per via della stessa mani­po­la­zione ter­ri­to­riale che espone le città agli alla­ga­menti perio­dici. La scom­parsa degli orti periur­bani, il taglio di alberi, la cemen­ti­fi­ca­zione dif­fusa, la can­cel­la­zione pro­gres­siva del verde, tutta la mul­ti­forme e mole­co­lare atti­vità di con­sumo dei suoli incolti, non solo con­tri­bui­sce alla pro­du­zione di car­bo­nio e alla can­cel­la­zione di fonti pro­dut­trici di ossi­geno, incre­men­tando così il riscal­da­mento glo­bale. Essa ha anche un effetto locale e rav­vi­ci­nato. Accre­sce il riscal­da­mento del clima in città. Estati roventi atten­dono gli abi­tanti dei cen­tri urbani in ogni angolo del mondo.

E il clima, sotto la minac­cia della sua grave alte­ra­zione, imma­gi­nato per tutta la pre­ce­dente sto­ria umana come non con­di­zio­na­bile dalla nostra azione, è un bene comune sem­pre più pre­zioso per le nostre sorti. E anch’esso mostra come l’azione di alte­ra­zione degli habi­tat da parte dei sin­goli, fino ad oggi iscritta dall’ideologia domi­nante nel regno intan­gi­bile della libertà, opera nei fatti in danno cre­scente del bene comune del clima, con­tri­bui­sce a ren­dere rovente il tetto della casa comune.


Il Manifesto – 17 gennaio 2014

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