Dopo l'alluvione a
Roma restiamo in attesa della prossima catastrofe. Devastate da
trent’anni di neoliberismo, le città italiane, considerate le più
belle del mondo, hanno vissuto uno sviluppo edilizio selvaggio.
Dimenticando il loro rapporto con la campagna e l’aria.
Piero Bevilacqua
L’ecosistema urbano
è un bene comune
Che la città nasca, si
conservi e si sviluppi all’interno di una rete di
condizionamenti ambientali è una
conquista sorprendentemente recente
del pensiero sociale. Solo il progredire, negli
ultimi decenni, della cultura ambientalistica e
– per il nostro caso – dell’ecologia urbana, hanno cominciato
a disvelare ciò che a lungo la cultura
dominante aveva tenuto nascosto. Vale a dire
i vincoli di risorse e le condizioni di
habitat entro cui sono sorte e vivono le città. E non
a caso le ragioni di un così lungo e perdurante
occultamento risiedono nelle condizioni
materiali del loro stesso successo, della loro
espansione: in primo luogo il mercato.
Nel suo saggio Die
Stadt Max Weber non ha dubbi sul fatto che, condizione
essenziale «perché si possa parlare di città
è l’esistenza nel luogo dell’insediamento di uno scambio
di prodotti – non soltanto occasionale ma
regolare — quale elemento essenziale del profitto
e della copertura del fabbisogno degli
abitanti: l’esistenza di un mercato».
Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di un aggregato di popolazione, l’acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. È il caso, ad esempio, di uno studioso come Lewis Mumford, pur attento agli aspetti sistemici del mondo urbano. Nella sua monumentale La città nella storia – meritoriamente riproposta ora da Castelvecchi — egli considera il fiume esclusivamente come «il primo veicolo efficace per il trasporto di massa». E aggiunge: «Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle vele». Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la risorsa acqua: «Londra dipende dal suo fiume», afferma perentoriamente Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all’intensa vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell’area della sua foce.
Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei corsi d’acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori agricoli dei loro dintorni.
D’altra parte, prima di commerciare e di spostarsi i primi cittadini dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno di bere. Eppure non c’è traccia, anche in grandi storici che si sono occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa imprescindibile dell’ umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno stadio successivo di evoluzione. La vita, nella ovvietà dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo economico. Anche Fernand Braudel, nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non ha occhi che per le condizioni commerciali dell’esistenza urbana. «Non c’è città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento».
Oggi, nella fase
storica in cui il mercato mondiale penetra negli
anfratti più reconditi della vita locale, è ancora
visibile un ecosistema come intelaiatura
fondamentale della vita urbana? Mentre le città
ricevono tutto ciò che è loro necessario da
territori lontani e anche lontanissimi,
possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà
materiale condizionati, se non dominati, da
vincoli naturali costanti e necessari? Si
tratta, in verità, di domande retoriche. L’ecologia
urbana della seconda metà del ’900 ha messo da tempo in evidenza
i caratteri ecosistemici dell’ambiente
urbano con approcci e contributi molteplici.
In realtà oggi si
presenta ai nostri occhi una rete ambientale che avvolge
il mondo (non diversa da quella, in continua espansione,
delle comunicazioni) ma tenuta insieme da regole
e vincoli ecosistemici. La osserviamo
distintamente man mano che ci liberiamo della scorza
dell’economicismo di cui è incrostato il pensiero
sociale contemporaneo. Allorché scorgiamo
l’universalità di beni comuni di cui si compone la città,
là dove prima l’osservatore non scorgeva che un paesaggio
di res nullius, o solo un sistema di domini privati.
E a tal fine appare indispensabile liberare
la figura dell’uomo cittadino dalla sua sovrastruttura
ideologica di essere sociale, mero prodotto della
storia, fabbro di se stesso tramite il dominio
tecnico sulla natura.
È tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini quali soggetti viventi, membri della “comunità biotica” che popola la foresta urbana. La città è un ecosistema innanzitutto perché gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.
È infatti il paradosso del successo totalitario dell’uomo tecnico a disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Pensiamo al rapporto tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi climatici estremi (alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli Usa all’Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico generale e al suo crescente disordine. È ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell’edificato impedisce in maniera crescente l’assorbimento dell’acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini — le strade diventano fiumi, rovinosi corsi d’acqua e gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione. Ma è esattamente nei momenti drammatici delle calamità, che essa ci fa comprendere una realtà solitamente celata: il territorio urbano non si esaurisce nello spazio edificato.
D’altra parte, tali fenomeni svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l’habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l’esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in pericolo. È evidente che l’edificazione diffusa, l’occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell’incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente come in conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti.
Il danno particolare
che l’uso privato del suolo genera nei confronti
dell’universalità dei cittadini disvela così uno
specifico carattere ecosistemico
dell’azione umana in città. Non si possono mutare gli
equilibri naturali di un habitat pur
artificiale senza effetti e rotture in qualche
punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze
sul Dedalo ingegnoso che quel sistema ha costruito. Non si può
pensare al territorio come a un mero
supporto neutro sopra il quale “poggiare”
qualunque edificio: esso non è nudo suolo,
appartenente a vari proprietari che
pretendono di ricavarvi una rendita, ma è il
frammento di una rete ecosistemica entro la
quale siamo tutti impigliati.
Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna, cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità, della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti, esse formano oggi un’appendice urbana che occupa e inquina territori più o meno prossimi, con danni alle acque, all’aria, alla salute degli animali e dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.
Non meno noto
è diventato il legame sistemico tra il cielo della
città, vale a dire la qualità dell’aria che in essa si
respira, e la sua manipolazione, insieme
privata e collettiva, a scopi produttivi
e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la
salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi
decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale
irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti
ignorata in quanto illimitata e relativamente
integra. L’aria è un common. Noi tutti respiriamo
l’aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni,
ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa
dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci
a chi appartiene. Ma l’apparire della scarsità di
questa risorsa, la sua violazione e alterazione
(che corrisponde a una appropriazione
privata dei singoli) fa emergere l’elemento
naturale che rende possibile l’esistenza di tutti
e al tempo il suo carattere di bene collettivo
e indivisibile.
In questo specifico caso appare assai difficile separare l’interesse privato di chi immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da chi respira l’aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di anidride carbonica , di solfato di zolfo, particolato e vari altri inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inquinatori. Il bene comune dell’ aria salubre e il diritto universale alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare un’aria non inquinata.
Tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del mondo urbano quale ecosistema: l’uso privato e collettivo dell’habitat ha conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un intervento dell’uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mammiferi che l’abitavano ne viene sconvolta.
Intanto, senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi innumerevoli fruitori. Com’è noto, lo spazio adibito alla libera circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che impedisce al singolo utente di transitare all’incrocio è un obbligo che lo costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che può utilizzare a proprio arbitrio.
Qualunque sia
la potenza e il lusso del veicolo che guida, qualunque
sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza gerarchica
del guidatore, quel rosso è un impedimento
da rispettare. È condizione della sua
sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla
pari nello spazio aperto delle strade cittadine. Una
grammatica universale si impone su tutti. Ed
è grazie a tale egalitarismo che
viene protetto il bene comune dell’incolumità fisica dei
cittadini. Solo i pari diritti di spostamento
di cui godono tutti consentono l’uso ottimale del
bene comune del territorio urbano. Forse è qui
il modello di uso egalitario della città, del suolo,
dell’aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi
in futuro.
Lo scenario
climatico che le conoscenze scientifiche
del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci
mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la
città, i suoi attori naturali, e il più vasto
spazio planetario. Le città ci fanno
sperimentare la nuova mondialità del
locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente
quali punti interconnessi di una rete a scala
globale. Com’è largamente noto, è lo smog
cittadino, sono gli scarichi urbani e i
fumi industriali per produzioni destinate alle
città a determinare una percentuale
rilevante di immissione di gas serra nell’atmosfera.Tutte
le città del mondo, centri energivori di varie
dimensioni e potenza, consumano in maniera
crescente petrolio e carbone, alterando il
clima atmosferico, surriscaldando il nostro
comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento
globale, potremmo dire, è figlio del metabolismo
urbano.
Vale la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato. Accresce il riscaldamento del clima in città. Estati roventi attendono gli abitanti dei centri urbani in ogni angolo del mondo.
E il clima, sotto
la minaccia della sua grave alterazione, immaginato
per tutta la precedente storia umana come non
condizionabile dalla nostra azione, è un
bene comune sempre più prezioso per le nostre sorti.
E anch’esso mostra come l’azione di alterazione
degli habitat da parte dei singoli, fino ad oggi iscritta
dall’ideologia dominante nel regno intangibile
della libertà, opera nei fatti in danno crescente del bene
comune del clima, contribuisce a rendere
rovente il tetto della casa comune.
Il Manifesto – 17
gennaio 2014
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