Jos Sagüés
Questo straordinario documento, apparso nell'originale lingua castigliana il 9 febbraio scorso su El Pais, è stato tradotto in italiano da un mio fraterno amico Nicolò Messina.
E' stato proprio Nicolò, conosciuto al Centro Studi di Danilo Dolci nel 1975, a farmi conoscere dieci anni dopo Jos a Madrid. Da allora Jos è diventato uno degli amici più cari che la vita mi ha dato e che la stessa mi ha strappato qualche settimana fa.
Jos Sagues insegnava Lingua e Letteratura Tedesca all'Università Complutense di Madrid. Sono stato incerto fino all'ultimo sull'opportunità di pubblicare sul mio blog l'ultima sua intervista. Alla fine ho deciso di farlo, superando le mie ultime resistenze emotive, per ragioni che capirete da soli se riuscirete ad ascoltare fino alla fine le sue ultime parole.
f.v.
P.S.: il commento che l'amico Nicolò mi ha inviato questo pomeriggio merita senz'altro di essere aggiunto alla mia sommaria nota introduttiva anche perchè la integra e l'arricchisce:
Se a Franco è costato pubblicare la traduzione, non meno è costato a me farla. Trent'anni di amicizia, tanti momenti passati insieme, spiegano tutto. Ma credo che il senso evidente dell'intervista di Jos - cioé il volerla rilasciare, il dire le cose che ha detto - è quello di aprire un dibattito, un ultimo (ma quanti ne apriva), quello di porre pubblicamente una questione, fuor di ogni ipocrisia, in Spagna e, per quel mi/ci riguarda, anche in Italia. Ed è superfluo sottolineare che sottoscrivo quanto Jos ha inteso dirci, trasformando un atto cosí strettamente privato, come la morte, la sua, in una manifestazione pubblica di coerente, pedagogica militanza. Sí, tre parole di peso che uso volutamente: coerenza, pedagogia, militanza. Lo ritraggono bene.
Jos era innamorato della vita ed anche dell’Italia, della Sicilia, che ben conosceva. Di Marsala, aggiungo, dove volle vivere alcuni mesi insieme alla sua compagna Concha e ha lasciato profonda traccia. Non fu mai un turista nei posti dove andava, visse. Tradurre l'intervista era un dovere nei suoi confronti, il meno che potevo fare. Per rendere il suo messaggio più facilmente accessibile ai suoi tanti amici italiani. A lui non sarebbe dispiaciuto.
¡Hasta siempre, amigo hermano!
Nicolò
“Voglio morire, perché amo la
vita”
José Luis Sagüés, con cancro terminale, ha lottato per una sedazione che
ha messo fine alla sua vita. “Mi consumo, ma non sembra loro abbastanza”,
lamentava.
Emilio de Benito
El País,
Madrid 9 febbraio 2014
“Voglio morire, perché amo la vita”.
A 63 anni, José Luis Sagüés, madrileno di origine basco-navarrese, si è dovuto
scontrare con il sistema per raggiungere il suo scopo: “Decidere io quando
morire”. Alla fine ci è riuscito con l’aiuto dell’associazione Derecho a Morir Dignamente [DMD, Diritto
a Morire Degnamente]. Questa ONG ha constatato in quest’uomo uno stato di
angoscia e deterioramento che ha considerato sufficiente per sedarlo, anche se
ciò avrebbe avuto l’effetto secondario di abbreviargli la vita, una cosa negatagli
dal servizio di cure palliative che lo seguiva. È stato il massimo ottenuto da
questo combattente che aveva molto chiaro in testa che non voleva consumarsi
sino alla fine ultima. “Voglio congedarmi dai miei, dopo aver bevuto un
bicchiere di vino”. Secondo uno dei medici che alla fine se ne sono presi cura,
ci è riuscito. “È stato come nel film Le
invasioni barbariche, con tutta la famiglia attorno. Ci siamo fatti delle
foto e abbiamo brindato. Ci ha salutati e poi l’abbiamo sedato”, racconta. L’indignazione
di fronte al rifiuto del sistema di offrirgli una via d’uscita (con il divieto
dell’eutanasia, l’unica opzione legale in Spagna è una sedazione terminale) lo
ha indotto a raccontare la sua storia a EL PAÍS.
Lo ha fatto lo scorso 24 gennaio.
Era sua intenzione aspettare il 1º febbraio per richiedere il trattamento finale.
Ma non ha resistito fino a quel giorno. Un peggioramento improvviso, sopravvenuto
domenica 26, gli ha fatto anticipare i tempi. Medici di Derecho a Morir Dignamente, che ne hanno certificato lo stato di
“angoscia fisica e psicologica”, gli hanno applicato il previsto trattamento lunedì
27. Si è spento il giorno dopo.
Due giorni prima di quest’ultima
crisi, disteso a letto in una luminosa stanza della casetta di Concha, sua
moglie – “a lei non piacerà, ma io voglio che si sappia”, dice da monello birichino
– a El Álamo, un paesino a 40 km da Madrid, José Luis è un turbine di idee e
citazioni. “Non crediate, ho dovuto ingoiare di tutto per affrontare questa
intervista. Ci sono momenti che non riesco nemmeno a parlare”, quasi si scusa.
La morfina e le anfetamine lo rendono un conversatore accelerato e gli
provocano qualche lapsus che però non ne offusca la lucidità.
“È quel che mi
succede: quando viene la dottoressa delle cure palliative, mi dice sempre di
resistere, che la testa mi funziona ancora. Ma proprio per questo voglio
andarmene ora. Non voglio aspettare di consumarmi, di perdere la coscienza. E
ormai mi consumo, ma non sembra loro abbastanza”, dice indignato. È stata –
raccontano i medici che alla fine se ne sono presi cura – la stessa cosa che
gli hanno detto lunedì dopo la crisi della notte di domenica, quando è persino caduto
dal letto ed è stato preso dall’inquietudine di poter perdere il controllo
della situazione. “Non ha più chiesto nemmeno a quelli delle cure palliative di
essere sedato, ne conosceva già la risposta”, dice il medico che lo ha infine
seguito.
Docente di Germanistica
all’Università Complutense di Madrid, José Luis ha visto come, in quest’ultimo
anno, è stato costretto a parcheggiare la sua vita. “Come diceva Cortázar, ‘non
c’è più niente da fare, il fiammifero si spegne’. Be’, a me il cerino sta già
bruciando le dita”, dice.
La fermezza l’abbandona solo un paio
di volte. La prima, quando assicura che la decisione di richiedere una
sedazione palliativa la può attuare grazie all’appoggio dei suoi cinque
fratelli, dei nipoti, di alcuni amici. L’altra, quando ricorda che alla sorella
Regina, la piccola, 50 anni, non concessero proprio questa possibilità. “La
torturarono. Era sposata con un italiano berlusconiano che s’incaponì a farle
fare di tutto, pur sapendo che non serviva a nulla”. È proprio quello che José
Luis non voleva per lui. La sua morte è stata anche, certo, un tentato
risarcimento della sofferenza della sorella.
“Voglio morire, perché amo la vita,
perché sono contento di essere vivo, e se uno è affascinato dalla vita, deve
saper morire, fa parte del processo. E io voglio farlo, contento. Non sono
disperato, non ho paura. Si vive meglio senza paura. Ma ora resisto soltanto,
non mi spengo, perché mi resta ancora un po’ di forza biologica. E non ha senso
aspettare che scompaia. Non voglio arrivare a questo punto. Sono già abbastanza
consumato. Non voglio che mi offuschino la morfina, né [il vescovo di Madrid]
Rouco Varela, né i palliativi”, dice convinto.
“Ateo, repubblicano e comunista”,
José Luis è stato pure in carcere durante il franchismo. “Era quel che toccava.
Non me ne pento”, racconta. Queste convinzioni hanno segnato la sua vita. “Come
dice Feuerbach, di trasformare il mondo, si tratta. E io sono soddisfatto”.
Nel turbine della sua mente,
l’ultima frase ha varie letture. Può essere per il successo di meno di tre mesi
fa, proprio prima del suo ultimo ricovero ospedaliero, quando organizzò una
drammatizzazione su un poeta tedesco, Büchner, all’Istituto Goethe. O per la
tranquillità di aver fatto tutto il possibile per arrivare alla fine “con tutto
il bagaglio”.
E dire che non è stato un anno
facile. “Ho cominciato a sentirmi male alla fine del 2012. Soffocavo. Ma
eravamo a San Sebastián, e a chi viene in mente di andare al pronto soccorso
nelle vacanze di Natale? Se era per caso colpa del cuore, feci una prova: andai
in un posto specializzato in carne alla brace, e presi una bella costata, con
l’insalata, i peperoni e il vino di rigore. Se tutta quella roba non mi faceva
male, non era un problema di cuore”. Non lo era, dice, e sembra ancora leccarsi
i baffi per quel pasto da persona che sa ben vivere: “non come adesso che con
la morfina ho la bocca di cartone e tutto ha sapore di niente”.
Tornò a Madrid da San Sebastián
guidando la macchina, e andò dritto al pronto soccorso. “A poco a poco,
accertamento dopo accertamento, vedevo chiaro che quel che avevo era un cancro.
Ma bisognava sapere di che tipo”. Alla fine, arrivò la diagnosi: “Un
adenocarcinoma polmonare di quarto grado con il mediastino [la cavità in cui si
trova il cuore] interessato. Mi diedero un anno di vita, esattamente quel che
ho vissuto. È un cancro genetico, perché io non ho mai fumato e sono stato un
buon sportivo. Calcio, no, ma ho fatto molto ciclismo e canottaggio”.
Non si arrese. Non è da lui. Il
racconto talvolta s’ingarbuglia per effetto delle medicine e della voglia che
il messaggio sia del tutto chiaro, ma la narrazione mostra la lotta contemporanea
ai preparativi per la fine. “A marzo mi sposai con Concha. Sarà stato il 20 o
il 21 marzo”, afferma con disorientamento sintomatico. Perché dopo anni di
convivenza, quella data non era quella importante per lui. Quel che racconta è
che “così a lei può spettare una pensione migliore”, e che, approfittando del
compleanno di sua madre, fecero la festa il 14 aprile, giorno della
proclamazione della Repubblica [1931, Seconda Repubblica Spagnola]. “È una
tradizione nostra”. “Arrivai con la faccia ridotta a una maschera purulenta.
Uno degli effetti delle medicine che prendevo allora”.
Ride al ricordo del momento in cui
cominciò la prima delle terapie. “Mi dissero che dovevo prendermi la pillola
alle otto del mattino, e così quel giorno misi la sveglia, mi alzai, feci partire
l’inno della defunta Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e lì,
pugno in alto, me la presi”. Quell’attacco di eroicità non è da lui. “Il giorno
dopo, mi resi conto che quello era stato piuttosto un attacco di stoltezza. E
così mi alzai, presi la pillola, ma non la ingoiai con l’Internazionale. Misi un
pezzo di Krahe interpretando Brassens. Ed eccomi lì, “come un coglione, madre”,
canticchia e, insieme, ride.
Tre mesi dopo, i controlli
dimostrarono che quella terapia non funzionava. Ne provò ancora un’altra. “Ma subii
tutti gli effetti avversi possibili”, dice. E lì si scatena la sua
indignazione. “Dissi ai medici di smetterla, che tutto quello non serviva a
niente. Ma loro s’intestardirono a farmi continuare, era il protocollo. E a me
che cazzo me ne frega del protocollo, se dovevo morire! Questo è il brutto dei
medici. Non hanno una visione olistica, dell’insieme della persona. Sanno tanto
delle loro cose, ma questi medici giovani, così efficienti, non ti guardano
nemmeno in faccia. Non hanno il coraggio di decidere. L’Illuminismo non è
arrivato alla medicina. Si aggrappano al giuramento d’Ippocrate, quando questo
signore è morto migliaia di anni fa, ma non hanno letto Kant. Oppure sì, ma non
ci hanno capito. E io dico loro come il filosofo: Sapere aude! Abbi il coraggio di sapere! Che pensino con la loro
testa!”.
Non vuole, tuttavia, caricare le
tinte con gli addetti ai lavori. “Le infermiere sono state tutte magnifiche.
Sono la spina dorsale del sistema. E, sia chiaro, con i medici mi sono trovato
molto bene. Furono sempre chiari con me. Si vede che sapevano che avevano a che
fare con uno pronto ad accettare qualunque cosa. Il problema è il sistema, che
non consente loro di pensare. Mi degrado a poco a poco, in modo che ormai non
riesco nemmeno ad alzarmi. Non posso arrivare nemmeno allo spigolo del tavolo.
E le dottoresse dei servizi palliativi continuano a dirmi che devo lottare ancora,
che la testa mi funziona ancora. Ma quel che io voglio è decidere, è un
diritto. Uno deve decidere quando morire, perché è un diritto che
conquisteremo. E bisogna farlo con un sorriso”.
Se per caso qualcuno dubitasse del
deterioramento, fa vedere le gambe smagrite. Delle leggere puntine violacee
indicano dove aveva le eruzioni cutanee. “Con queste gambe, non rimorchierebbe
nessuno”, scherza abbassandosi i pantaloni. Ma quel che attira di più l’attenzione
sono i due aghi conficcati in ognuna delle cosce. “Tenendoli nelle gambe,
decido io quando iniettarmi, anche se certe volte non ci riesco. Le medicine mi
hanno lasciato le mani senza forza. Tutto mi casca, e qualche notte ho dovuto caricare
la siringa, aiutandomi con la bocca”, dice mentre simula lo sforzo.
Tanto per avvalorare quel che afferma
della sua mancanza di forza, della goffaggine sopravvenuta, il computer non gli
risponde. “Non ho più sensibilità nelle dita, ma lo manovro con le nocche”. Chi
crederebbe che un po’ più di sei mesi fa fosse in grado di prendere il kayak e
uscire in mare a San Sebastián? “Volevo vedere il Peine de los Vientos [Pettine
dei Venti, scultura di Eduardo Chillida] dal mare, e alla fine mi feci
tutto il percorso della Bandera de la
Concha [Bandiera della Concha,
competizione di sciabiche nel golfo di San Sebastián, detto Concha], la famosa
regata. Ho goduto come un riccio”.
Qualcosa di simile sarebbe
impensabile adesso. “Negli ultimi mesi, quando ce la faccio, mi collego al
portatile e mando email ai deputati per far loro regolamentare l’eutanasia e la
morte degna. Ma nessuno mi risponde. Né quelli del PP [Partido Popular, destra, attualmente al governo], né gli altri. La
sinistra, a cominciare dal PSOE [Partido
Socialista Obrero Español], ha accantonato l’argomento. L’aveva fatto suo
Zapatero alle prime elezioni, ma non ne hanno più riparlato. E questo è un
diritto umano, non è né di destra, né di sinistra, è qualcosa di trasversale”,
lamenta.
“Meno male che, già molti mesi fa,
tutti i miei familiari abbiamo aderito a DMD”. Assume un tono professorale,
quando parla di questa associazione. “Hanno tutta la mia riconoscenza per la lotta
che fanno per le cose per cui lottano. Mentre ci sono ministri come quello
degli Interni, che si affidano a Santa Teresa per aggiustare le cose”, ironizza
sulla recente invocazione di Jorge Fernández Díaz alla santa, affinché corra in
aiuto della Spagna in questi “tempi duri”. “Loro lavorano per la gente, per i
diritti di tutti”, dice. “E invece c’è ancora gente, come l’ex-portavoce di
Aznar [ex primo ministro, governò per il PP prima di Zapatero], Miguel Ángel
Rodríguez, che chiamava nazista Luis Montes”, il medico dell’associazione che
fu processato – e assolto – per il caso delle sedazioni dell’Ospedale di
Leganés [provincia di Madrid]. “Mi viene proprio voglia di star bene solo per
prendere un bastone e andare a fargli visita”, dice indignato.
Menzionare i politici lo spinge a
ritornare allo scopo di questa intervista. “Spero di gestire bene il tempo che
mi rimane. Tante cose non posso fare, ma, questo sí, parlare con i miei e
scambiarci coccole. Non ho paura. E quando arriverà il momento, riunirò la
famiglia e berremo un bicchiere di vino prima di essere sedato. Voglio decidere
io. Basta con le tutele. Perché c’è chi si crede autorizzato a salvarti, se tu
non vuoi essere salvato?”.
Finalmente il computer risponde al
suo goffo armeggiare. “Ho già detto loro quel che voglio, quando me ne andrò.
Prima bisognerà lasciar passare un po’ di tempo, fino a quando non sarà superato
il dolore. E poi, il 14 aprile, mi piacerebbe che andassimo nello stesso bar
dove abbiamo festeggiato le nozze, e facessimo un’altra festa. Io chiederei
loro di cantare l’Internazionale, almeno la prima strofa che è l’unica che tutti
sanno”, dice e parla in prima persona. “Che si dicesse pure qualcosa, ma senza
esagerare. Io mi sarò già congedato”.
Lo dice, mentre fa vedere il file
che ha appena aperto nel suo computer. Se tutto riesce come José Luis ha
pianificato, tutti i suoi cari avranno già ricevuto il suo ultimo messaggio:
“Arrivederci sempre, e non dimenticatevi di sorridere. Grazie. Vi abbraccio”.
“Queste cose, meglio farle brevi,
no?”.
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Il testo originale, con foto e un
video con estratti dell’intervista, in questo link di El País:
http://sociedad.elpais.com/sociedad/2014/02/08/actualidad/1391881391_885310.html
Se a Franco è costato pubblicare la traduzione, non meno è costato a me farla. Trent'anni di amicizia, tanti momenti passati insieme, spiegano tutto. Ma credo che il senso evidente dell'intervista di Jos - cioé il volerla rilasciare, il dire le cose che ha detto - è quello di aprire un dibattito, un ultimo (ma quanti ne apriva), quello di porre pubblicamente una questione, fuor di ogni ipocrisia, in Spagna e, per quel mi/ci riguarda, anche in Italia. Ed è superfluo sottolineare che sottoscrivo quanto Jos ha inteso dirci, trasformando un atto cosí strettamente privato, come la morte, la sua, in una manifestazione pubblica di coerente, pedagogica militanza. Sí, tre parole di peso che uso volutamente: coerenza, pedagogia, militanza. Lo ritraggono bene.
RispondiEliminaJos era innamorato della vita ed anche dell’Italia, della Sicilia, che ben conosceva. Di Marsala, aggiungo, dove volle vivere alcuni mesi insieme alla sua compagna Concha e ha lasciato profonda traccia. Non fu mai un turista nei posti dove andava, visse. Tradurre l'intervista era un dovere nei suoi confronti, il meno che potevo fare. Per rendere il suo messaggio più facilmente accessibile ai suoi tanti amici italiani. A lui non sarebbe dispiaciuto.
¡Hasta siempre, amigo hermano!
Nicolò
Grazie Nicola, grazie per tutto!
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RispondiEliminaAd una persona che ci consegna una lezione di vita così pregnante e profonda va perdonato questo errore di citazione, caro Franco. Che riposi in pace e che si possa sempre più comprendere l'importanza della dignità dell'uomo anche nel momento di lasciare la vita. Servono leggi chiare e di garanzia reale per tutti, la sofferenza che cancella la nostra autonomia non credo abbia giustificazione alcuna. In questo, come sottolinea Nicolò, il vostro amico è stato un vero militante, e nel suo piccolo ha anche "trasformato" il suo mondo di affetti e valori.
RispondiEliminaCome puoi facilmente immaginare sono assolutamente d'accordo con te Grazia!
Eliminasarà andato via con il sorriso,la vita glielo doveva,la morte non l'ha potuto torglierlo.
EliminaCostanza Dolce
grazie per aver pubblicato questa intervista, che meriterebbe ampia diffusione,a tutti i livelli sociali, politici, culturali ecc. condivido pienamente quanto letto!!!!
EliminaCristina Merighi