Parla Alberta, la
figlia dello psichiatra, che in un libro rievoca la lotta ai manicomi
e la figura del padre.
Simonetta Fiori
Basaglia,
mio padre
«Vieni qua, siediti in braccio e spiegami come vedi. Per esempio quella lampada là come la vedi?». «La vedo grande, giusta». «Ma giusta come?». «Giusta». «Cosa vuol dire giusta?». «Beh, è quella lampada lì». Padre e figlia potevano andare per ore, più o meno come avveniva con i matti.
Cinquant’anni più
tardi, questo dialogo privato di casa Basaglia diventa pubblico. E
diventa pubblico un ritratto intimo di Franco, in un bellissimo libro
scritto dalla figlia Alberta insieme a Giulietta Raccanelli (Le
nuvole di Picasso. Una bambina nella storia del manicomio
liberato, Feltrinelli).
Una sorta di “lessico
famigliare” che rivela come la rivoluzione di Basaglia sia
cominciata in famiglia, dove niente era considerato impossibile,
«nessuna separatezza, nessun solco e confine impenetrabile » tra le
persone. Maschi e femmine, matti e “normali”, malati e sani,
gente famosa e gente comune. Tutti dovevano vivere la loro vita,
anche la bambina Alberta con le sue lesioni al fondo dell’occhio,
diagnosticata come cieca.
«Prima di scrivere
questo libro ci ho pensato tanto», racconta Alberta che ora è
un’elegante signora a suo agio in una casa piena di scale e
scalette. «Non è stato facile da dire. Ma poi ho pensato che
anche da questa piccola mia storia si può capire tutto il resto».
Alberta Basaglia |
Il limite, Basaglia,
cominciò a spostarlo dentro le mura di casa.
«Non fu inventata una
vita per me. Mi hanno lasciato vivere. E mi hanno insegnato che si
può vivere in tanti modi, scoprendo nuove strategie». La
madre Franca non è mai intervenuta per aiutarla. «“Ma
quando scii come fai?”, mi domandava preoccupata. “Chiudo gli
occhi e vado”.Era terrorizzata, ma non mi fermava».
Alberta si è laureata in
psicologia evolutiva, ha fatto a lungo la “bambinologa”, ha
fondato a Venezia un importante centro sulla violenza contro le donne
e ora segue le politiche giovanili. Sulle pareti di casa
giganteggiano orologi panciuti che sembrano disegnati da Lewis
Carroll.
«Li collezionava mio
padre tra un robivecchi e l’altro». Le lancette sono ferme a quel
tempo, gli anni della “rivoluzione”.
Gorizia, 1961. Ha inizio
l’avventura di Basaglia. Lei lo definisce un “esilio”.
«Sì, un esilio. Lui
veniva dalla clinica neurologica di Padova da cui uscivano i grandi
della neuropsichiatria. Ma non era molto in linea con la classe
medica. Intrecciava in modo scandaloso filosofia e psichiatria. E più
che la malattia gli interessava il malato. Se ne sbarazzarono
mandandolo in un manicomio di frontiera».
Il direttore aveva
diritto all’appartamento dentro il manicomio. Però lui lo rifiutò.
«Non voleva che
vivessimo lì dentro. Rimase sconvolto da quello che vi aveva
trovato: catene, camicie di forza, reti, grate, sbarre, degrado.
Figurarsi se due bambini - mio fratello Enrico ed io - potevamo
crescere dentro quell’edificio chiuso. Il paradosso è che ci
ritrovammo a vivere all’ultimo piano del Palazzo della Provincia,
simbolo austroungarico dell’istituzione. Proprio Basaglia che
negava l’istituzione totale del manicomio».
Il manicomio gli
ricordava l’odore del carcere. Lui l’aveva conosciuto da ragazzo.
«Sì, da partigiano
aveva fatto un mese di galera. Ma non ne voleva mai parlare, forse
temeva l’agiografia resistenziale. Avevamo i racconti di nonna
Cecilia, una vera borghese eccentrica, anche un po’ svagata. Quando
ne 1944 i fascisti arrivarono per prenderlo, lui era già sul
terrazzo pronto a saltare. L’idea terrorizzava la nonna, così
istintivamente gli urlò di non scappare sui tetti. E la polizia lo
beccò subito».
Non vivevate in
manicomio, però a casa i matti circolavano. Lei li racconta senza
ipocrisia.
«Certo che avevo
paura. Ma il problema non è se la paura esiste o non esiste. Il
problema è imparare a conviverci. E i miei mi hanno fatto vedere
come si fa. Ricordo ancora certi pranzi dentro il manicomio: donne
orribilmente grasse, dilatate dalla cotonatura dei capelli, che mi
stropicciavano in modo goffo, come a scoprire nel mio corpo immaturo
la loro femminilità. Ero “la fia del direttor”, dovevo
abituarmi».
Però il sabato facevate
ritorno a Venezia.
«Credo che mio padre
avesse bisogno di uscire dall’atmosfera totalizzante di Gorizia. E
poi c’era il richiamo dell’acqua: i veneziani come loro non
possono starne molto tempo lontani».
Lei ritrae suo padre come
una sorta di Re Artù, circondato dai suoi cavalieri nella grande
tavola goriziana.
«Eh sì, mi spiace,
ma il re era proprio lui. Tornava a casa per cena con quaranta
persone. E non smettevano di parlare. Marcuse e Sartre, Hegel e
Goffmann, Heidegger e Gramsci. Al centro c’era il nuovo modo di
leggere la malattia mentale e la segregazione. Parlavano della
dignità dei pazienti, dei loro esperimenti. C’erano persone che
avevano recuperato la parola dopo decenni di mutismo».
Un ambiente illuminato,
che però viene spiazzato dal “limite” di una bambina.
«Sì, fu quella volta
che la figlia piccola di uno dei dottori mi chiese perché stavo con
la testa storta. Sulla tavola precipitò il silenzio, probabilmente
pieno di pensieri politicamente corretti. “Perché così ci vedo
meglio”, risposi secca. I grandi, anche tra i migliori, fanno molta
più fatica a dare un nome alle cose».
Anche in casa Basaglia
arriva il Sessantotto, ma c’è un problema. Suo padre diventa
un’icona del movimento. E la figlia non lo può contestare.
«Non ho mai dovuto
uccidere il padre, se è questo che vuole dire. Però ci facevo delle
grandi litigate. Anche quando cominciai a studiare psicologia - e lui
mi diceva “ma sei matta?” - lo provocavo con la storia della
nipote di Freud. Non mi bastava essere la figlia di Basaglia: come
nonno volevo Freud. Certo, non mi sono mai sentita antagonista,
perché la mia famiglia era diversa dalle altre. E io ci stavo bene.
Forse non ho neppure avuto il tempo di contestarlo: è morto che non
avevo neppure 24 anni. Ero ancora molto figlia».
Anche una figlia un po’
gelosa. Nelle assemblee studentesche suo padre veniva acclamato da
ragazze bellissime.
«Sì, ammetto: era
diventato una rockstar e la cosa mi dava molto fastidio. Una volta
all’Università di Padova arrivò una studentessa alta e bruna, che
si fece largo in prima fila spingendomi nelle retrovie. Ero molto
spaurita. Però era in gioco una rivoluzione culturale, e io mi ci
sentivo dentro».
E lui come reagiva alla
popolarità?
«Assolutamente a suo
agio. Era un comunicatore istintivo, gli veniva naturale».
Giovanni Jervis l’avrebbe
accusato di essere prigioniero del suo stesso mito.
«Su questo terreno
non vorrei entrare. Credo che abbiano litigato molto, ma rimangono
fatti loro».
È anche una questione
culturale. Jervis lo ritrasse come un direttore autoritario e
accentratore.
«Temo che Jervis non
l’abbia capito fino in fondo. Si trattava di un rovesciamento
culturale profondo, non indolore. C’erano voci molto diverse,
bisognava mediare. Era un movimento con tutte le sue contraddizioni,
non la favola bella come l’hanno voluta raccontare».
Franco Basaglia |
Cosa intende per favola
bella?
«C’è chi ha voluto
fare di mio padre una sorta di padre Pio che liberò i matti dalle
catene. Oppure, all’opposto, ecco il ribelle velleitario che chiuse
i manicomi infischiandosene delle conseguenze».
Chi era invece suo padre?
«Dimostrò che
l’impossibile diventa possibile. Dieci anni prima del suo
esperimento, era impossibile che un manicomio potesse essere
distrutto. Lo disse anche poco prima di morire: magari i manicomi
torneranno a essere chiusi, ma abbiamo dimostrato che si può
assistere le persone folli in un altro modo. Non aveva ancora vinto,
e lo sapeva bene. Il suo progetto è stato realizzato solo in parte.
Ma è riuscito a imprimere una svolta da cui non si torna più
indietro. Ora bisogna andare avanti».
Anche a casa dimostrò
che l’impossibile diventa possibile.
«Per la scienza
medica io dovrei essere cieca. Ora non so se vedo come tutti gli
altri, però ci vedo».
La Repubblica – 14
febbraio 2014
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