15 febbraio 2014

FRANCO BASAGLIA RICORDATO DALLA FIGLIA



Parla Alberta, la figlia dello psichiatra, che in un libro rievoca la lotta ai manicomi e la figura del padre.

Simonetta Fiori

Basaglia, mio padre


«Vieni qua, siediti in braccio e spiegami come vedi. Per esempio quella lampada là come la vedi?». «La vedo grande, giusta». «Ma giusta come?». «Giusta». «Cosa vuol dire giusta?». «Beh, è quella lampada lì». Padre e figlia potevano andare per ore, più o meno come avveniva con i matti.

Cinquant’anni più tardi, questo dialogo privato di casa Basaglia diventa pubblico. E diventa pubblico un ritratto intimo di Franco, in un bellissimo libro scritto dalla figlia Alberta insieme a Giulietta Raccanelli (Le nuvole di Picasso. Una bambina nella storia del manicomio liberato, Feltrinelli).

Una sorta di “lessico famigliare” che rivela come la rivoluzione di Basaglia sia cominciata in famiglia, dove niente era considerato impossibile, «nessuna separatezza, nessun solco e confine impenetrabile » tra le persone. Maschi e femmine, matti e “normali”, malati e sani, gente famosa e gente comune. Tutti dovevano vivere la loro vita, anche la bambina Alberta con le sue lesioni al fondo dell’occhio, diagnosticata come cieca.

«Prima di scrivere questo libro ci ho pensato tanto», racconta Alberta che ora è un’elegante signora a suo agio in una casa piena di scale e scalette. «Non è stato facile da dire. Ma poi ho pensato che anche da questa piccola mia storia si può capire tutto il resto».
Alberta Basaglia

Il limite, Basaglia, cominciò a spostarlo dentro le mura di casa.

«Non fu inventata una vita per me. Mi hanno lasciato vivere. E mi hanno insegnato che si può vivere in tanti modi, scoprendo nuove strategie». La madre Franca non è mai intervenuta per aiutarla. «“Ma quando scii come fai?”, mi domandava preoccupata. “Chiudo gli occhi e vado”.Era terrorizzata, ma non mi fermava».

Alberta si è laureata in psicologia evolutiva, ha fatto a lungo la “bambinologa”, ha fondato a Venezia un importante centro sulla violenza contro le donne e ora segue le politiche giovanili. Sulle pareti di casa giganteggiano orologi panciuti che sembrano disegnati da Lewis Carroll.

«Li collezionava mio padre tra un robivecchi e l’altro». Le lancette sono ferme a quel tempo, gli anni della “rivoluzione”.

Gorizia, 1961. Ha inizio l’avventura di Basaglia. Lei lo definisce un “esilio”.

«Sì, un esilio. Lui veniva dalla clinica neurologica di Padova da cui uscivano i grandi della neuropsichiatria. Ma non era molto in linea con la classe medica. Intrecciava in modo scandaloso filosofia e psichiatria. E più che la malattia gli interessava il malato. Se ne sbarazzarono mandandolo in un manicomio di frontiera».

Il direttore aveva diritto all’appartamento dentro il manicomio. Però lui lo rifiutò.

«Non voleva che vivessimo lì dentro. Rimase sconvolto da quello che vi aveva trovato: catene, camicie di forza, reti, grate, sbarre, degrado. Figurarsi se due bambini - mio fratello Enrico ed io - potevamo crescere dentro quell’edificio chiuso. Il paradosso è che ci ritrovammo a vivere all’ultimo piano del Palazzo della Provincia, simbolo austroungarico dell’istituzione. Proprio Basaglia che negava l’istituzione totale del manicomio».



Il manicomio gli ricordava l’odore del carcere. Lui l’aveva conosciuto da ragazzo.

«Sì, da partigiano aveva fatto un mese di galera. Ma non ne voleva mai parlare, forse temeva l’agiografia resistenziale. Avevamo i racconti di nonna Cecilia, una vera borghese eccentrica, anche un po’ svagata. Quando ne 1944 i fascisti arrivarono per prenderlo, lui era già sul terrazzo pronto a saltare. L’idea terrorizzava la nonna, così istintivamente gli urlò di non scappare sui tetti. E la polizia lo beccò subito».

Non vivevate in manicomio, però a casa i matti circolavano. Lei li racconta senza ipocrisia.

«Certo che avevo paura. Ma il problema non è se la paura esiste o non esiste. Il problema è imparare a conviverci. E i miei mi hanno fatto vedere come si fa. Ricordo ancora certi pranzi dentro il manicomio: donne orribilmente grasse, dilatate dalla cotonatura dei capelli, che mi stropicciavano in modo goffo, come a scoprire nel mio corpo immaturo la loro femminilità. Ero “la fia del direttor”, dovevo abituarmi».

Però il sabato facevate ritorno a Venezia.

«Credo che mio padre avesse bisogno di uscire dall’atmosfera totalizzante di Gorizia. E poi c’era il richiamo dell’acqua: i veneziani come loro non possono starne molto tempo lontani».

Lei ritrae suo padre come una sorta di Re Artù, circondato dai suoi cavalieri nella grande tavola goriziana.

«Eh sì, mi spiace, ma il re era proprio lui. Tornava a casa per cena con quaranta persone. E non smettevano di parlare. Marcuse e Sartre, Hegel e Goffmann, Heidegger e Gramsci. Al centro c’era il nuovo modo di leggere la malattia mentale e la segregazione. Parlavano della dignità dei pazienti, dei loro esperimenti. C’erano persone che avevano recuperato la parola dopo decenni di mutismo».



Un ambiente illuminato, che però viene spiazzato dal “limite” di una bambina.

«Sì, fu quella volta che la figlia piccola di uno dei dottori mi chiese perché stavo con la testa storta. Sulla tavola precipitò il silenzio, probabilmente pieno di pensieri politicamente corretti. “Perché così ci vedo meglio”, risposi secca. I grandi, anche tra i migliori, fanno molta più fatica a dare un nome alle cose».

Anche in casa Basaglia arriva il Sessantotto, ma c’è un problema. Suo padre diventa un’icona del movimento. E la figlia non lo può contestare.

«Non ho mai dovuto uccidere il padre, se è questo che vuole dire. Però ci facevo delle grandi litigate. Anche quando cominciai a studiare psicologia - e lui mi diceva “ma sei matta?” - lo provocavo con la storia della nipote di Freud. Non mi bastava essere la figlia di Basaglia: come nonno volevo Freud. Certo, non mi sono mai sentita antagonista, perché la mia famiglia era diversa dalle altre. E io ci stavo bene. Forse non ho neppure avuto il tempo di contestarlo: è morto che non avevo neppure 24 anni. Ero ancora molto figlia».

Anche una figlia un po’ gelosa. Nelle assemblee studentesche suo padre veniva acclamato da ragazze bellissime.

«Sì, ammetto: era diventato una rockstar e la cosa mi dava molto fastidio. Una volta all’Università di Padova arrivò una studentessa alta e bruna, che si fece largo in prima fila spingendomi nelle retrovie. Ero molto spaurita. Però era in gioco una rivoluzione culturale, e io mi ci sentivo dentro».

E lui come reagiva alla popolarità?

«Assolutamente a suo agio. Era un comunicatore istintivo, gli veniva naturale».

Giovanni Jervis l’avrebbe accusato di essere prigioniero del suo stesso mito.

«Su questo terreno non vorrei entrare. Credo che abbiano litigato molto, ma rimangono fatti loro».

È anche una questione culturale. Jervis lo ritrasse come un direttore autoritario e accentratore.

«Temo che Jervis non l’abbia capito fino in fondo. Si trattava di un rovesciamento culturale profondo, non indolore. C’erano voci molto diverse, bisognava mediare. Era un movimento con tutte le sue contraddizioni, non la favola bella come l’hanno voluta raccontare».

Franco Basaglia














Cosa intende per favola bella?

«C’è chi ha voluto fare di mio padre una sorta di padre Pio che liberò i matti dalle catene. Oppure, all’opposto, ecco il ribelle velleitario che chiuse i manicomi infischiandosene delle conseguenze».

Chi era invece suo padre?

«Dimostrò che l’impossibile diventa possibile. Dieci anni prima del suo esperimento, era impossibile che un manicomio potesse essere distrutto. Lo disse anche poco prima di morire: magari i manicomi torneranno a essere chiusi, ma abbiamo dimostrato che si può assistere le persone folli in un altro modo. Non aveva ancora vinto, e lo sapeva bene. Il suo progetto è stato realizzato solo in parte. Ma è riuscito a imprimere una svolta da cui non si torna più indietro. Ora bisogna andare avanti».

Anche a casa dimostrò che l’impossibile diventa possibile.

«Per la scienza medica io dovrei essere cieca. Ora non so se vedo come tutti gli altri, però ci vedo».

La Repubblica – 14 febbraio 2014

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