“Il capitalismo e lo
Stato” di Paolo Leon permette una lettura approfondita dei
meccanismi della crisi che è prima di tutto crisi del modello
liberista. Implicita la lezione politica: non si può uscire dalla
crisi del liberismo usando ricette liberiste. Se ne facciano una
ragione Renzi, Letta e il PD. Ma un nuovo New Deal è possibile solo
su scala continentale. Da qui l'importanza delle prossime elezioni
europee.
Roberto Romano
Il declino
del paradigma neoliberale
Negli ultimi
mesi sono stati pubblicati molti libri e saggi che
indagano la crisi intervenuta nel 2007, ma
pochi hanno studiato la fine del paradigma
reaganiano-thacheriano fondato su un particolare
equilibrio tra stato e capitale. In Il
capitalismo e lo Stato. Crisi e
trasformazione delle strutture
economiche" (Castelvecchi,
euro 27) Paolo Leon indaga la crisi del 2007 partendo
dagli economisti classici (Smith,
Ricardo e Marx). È un libro da studiare, partendo
dalle tre tesi che, assieme, concorrono a
costruire una ragnatela del sapere economico.
La prima tesi è legata al conflitto capitale-stato. Più precisamente «Il capitalismo, infatti, è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti». È proprio nel rapporto capitale-Stato la principale differenza tra il modello reaganiano-thacheriano e il modello del new deal.
Questo
passaggio è propedeutico per lo
sviluppo della seconda tesi relativa al governo
della domanda effettiva. Lo squilibrio, la
dinamica di struttura, la ricomposizione
della domanda (effettiva), gli investimenti
sono il tratto distintivo e dinamico dell'economia
capitalistica. Le istituzioni
preposte al governo della domanda effettiva e
della sottesa dinamica di struttura sono
cambiate, assieme all'evoluzione dell'organizzazione
della produzione e della società. In ordine di
tempo sono riconoscibili due modelli di
governo della domanda effettiva: il new deal
rooseveltiano e il liberismo di
Margaret Thatcher e di Ronald Reagan.
Con la crisi
delle istituzioni legata al modello
neoliberista (2007–8) si ripropone
il tema del governo della domanda effettiva; ci
troviamo tra un'era economica (finita) e
un'altra era (da costruire) con delle istituzioni-modelli
(Thatcher-Reagan) consolidati:
globalizzazione, integrazione
dei mercati finanziari, allargamento
della forza lavoro e nuova divisione internazionale
del lavoro. L'esito e lo sbocco della crisi delle
istituzioni reaganiane non sarà la
riproposizione (corretta) delle
politiche rooseveltiane del dopo
'29. Sicuramente possono offrire un
conforto, ma un conto è aumentare la domanda
interna in un'economia chiusa, un altro conto è aumentare
la domanda interna in un mercato aperto e integrato.
La terza tesi è
legata alla puntualizzazione delle
differenze tra mercato e politica
economica. Interpretando Leon, può
essere rintracciato lo svuotamento della
politica economica nel momento esatto in cui
le Banche Centrali da strumento di sostegno
ai deficit pubblici, via acquisto dei titoli,
sono diventate strumento di controllo
dell'inflazione. Il divorzio tra Banca Centrale e
Tesoro ha un effetto che travalica il divorzio
in sé per sé. Il divorzio ha infatti provocato
una crescita gigantesca di moneta privata
(endogena) che ha finanziato lo sviluppo dei
Paesi emergenti. Inoltre, la crescita della
produzione ha bloccato l'inflazione che
sarebbe stata altrimenti provocata
dall'aumento non controllato della stessa moneta
privata. Questa moneta è debito che può
espandersi se cresce il valore del capitale
che gli fa da garanzia («leverage»); ma questo
valore cresce finché crescono gli indici dei
mercati finanziari, e questi indici, a loro
volta, crescono trascinati dalla domanda
delle banche che ne hanno bisogno per estendere
nuovi prestiti alla clientela, creando nuovo
debito e nuovi debitori.
L'economia
fondata sul «leverage» è una vera
trasformazione del capitalismo.
Cambia il senso economico di profitto,
che una componente fondamentale del
reddito. Per Leon, i guadagni che si
acquisiscono nel mercato finanziario
non si misurano in profitti o interessi; è
la singola operazione ad essere centrale
e a creare surplus; è il volume manovrato che
produce guadagni e non necessariamente
profitto, anche se sono qualcosa di più di una
rendita. In altra parole, gli «speculatori»
si occupano di mercato, non di economia.
L'altra faccia
dell'equilibrio
Il libro è
diviso in quattro parti autonome che possono
essere lette separatamente; insieme offrono
uno spaccato della crisi via (1) descrizione
dell'ultima crisi, (2) la cecità dei capitalisti,
(3) la trasformazione del capitalismo,
(4) verso un capitalismo mercantilista.
Il pregio del volume è di indagare la crisi non
solo come riduzione del Pil, o come la
polarizzazione del reddito: l'obiettivo
è di svelare cosa si cela dietro queste
variabili, in particolare la coppia
equilibrio-squilibrio. Leon guarda allo squilibrio
come l'altra faccia dell'equilibrio: i due termini
si reggono vicendevolmente, perché
non sarebbe possibile alcuna nozione di
equilibrio, se non ci fosse la possibilità
dello squilibrio. Ciò che viene trattato
come squilibrio, è in realtà il continuo
cambiamento nell'economia, dovuto all'incessante
dinamica sia nell'offerta sia nella domanda. Si tratta
della cecità degli interpreti del capitalismo,
più precisamente dell'impossibilità,
connaturata alla loro essenza, di
comprendere gli effetti delle loro azioni
sull'economia nel suo complesso.
Leon
sottolinea le incongruità del modello
dinamico neoclassico; più precisamente
quello di immaginare un Pil sempre uguale a
se stesso, una società composta di individui
eterogenei che si rinnovano sempre
uguali a se stessi, per gusti, per preferenze,
capacità potenziali. Alla fine non c'è posto per
una crisi endogena. Con un paradosso: gli autori
dell'equilibrio neoclassico affidano
«l'equilibrio» ad un deus ex machina, cioè al rapporto
tra lo Stato e gli operatori, lo shock esogeno
forse più rilevante, attribuendo agli operatori
(privati) la capacità di conoscere gli esiti
macroeconomici delle azioni pubbliche,
mentre lo Stato, che pure ne è l'autore, non avrebbe
la simmetrica capacità di conoscere gli
esiti delle azioni private. In sintesi il tutto
non è uguale alla somma delle parti; basterebbe
ricordare un noto risultato della stessa analisi
neoclassica, ovvero che alla variazione del
prezzo di un bene, oltre ad avere effetti sul reddito,
si verifica anche un effetto sostituzione,
con modificazioni dell'intera economia.
Tra debito e
speculazione
Con la valigia
analitica suggerita da Leon possiamo
comprendere meglio la speculazione
verso i paesi indebitati dell'eurozona. L'attacco
ai paesi indebitati è stato contrastato
con forti misure di austerità che, riducendo il
reddito nazionale, riducevano anche il
gettito tributario e la stessa capacità
di ripagare il debito. Una situazione ideale per
lo speculatore che, contro la sua
azione, non doveva attendersi una svalutazione
delle inesistenti monete nazionali, né
l'acquisto senza limiti da parte della BCE (che poi avverrà)
dei debiti pubblici in difficoltà, né
l'insolvenza di qualche Stato che avrebbe messo in
pericolo la stessa moneta europea. È la fine
della politica monetaria. La Bce ha più
volte sottolineato la difficoltà
della propria politica monetaria; i
tassi di interesse praticati, negativi
in termini reali, in realtà erano positivi ed
elevati nei paesi membri sotto attacco
speculativo, ma bassi e negativi negli
altri paesi allo stesso tempo. D'improvviso, la politica
monetaria era diventata inefficace.
Diversamente da Leon un margine di ottimismo è possibile. Sono proprio le sue riflessioni a suggerirlo. Alla fine anche l'Europa sarà costretta a misurarsi con il problema della domanda effettiva, del lavoro, del capitale e dell'economia reale.
il manifesto |
12 Febbraio 2014
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