Foto di Giuseppe Morandi
Con una camera
amatoriale, Giuseppe Morandi filma un cultura e un mondo che pian
piano scompare. Materiali straordinari che ci ricordano gli studi
pionieristici di Danilo Montaldi sulla Bassa padana.
Simona Pezzano
Se l'immagine
diventa lotta di classe
Nella grande
cucina del Micio, scaldata da una stufa a legna, occhi
attenti guardano le dita veloci che danno la forma ai
«marubini», la pasta sottile stesa sul tavolo,
secondo la ricetta che si tramanda in casa Azzali.
D'improvviso squilla il telefono. Una conversazione
breve, concitata, e il Micio calatosi sulla
testa l'immancabile berretto rosso, le mani ancora
sporche di farina, ci dice di uscire. «Presto,
dobbiamo andare a cercare subito Giüsep, è
mezz'ora che non risponde al cellulare». Così si
va di corsa verso Piadena, prima davanti casa di
Morandi, poi nel bar del paese, dove di solito si ferma a
prendere un caffè, tra telefonate e frasi
veloci scambiate con altri compagni. Dopo
poco, Giuseppe ci chiama: «Ma sto bene, sto bene. Sono
andato solo a farmi una passeggiata lungo l'Oglio
e ho dimenticato il cellulare a casa» —
e si intuisce che se la ride, contento di tutta
questa attenzione, di tanto trambusto.
Il Micio non vuole darlo a vedere, ma pare rinato: di nuovo
ciarliero, pieno di energia, scarica l'ansia
trattenuta fino a quel momento sullo stesso
Morandi con rimbrotti e proteste veementi
per tanta leggerezza.
Ecco, tra loro
c'è un legame così, che dura ormai da cinquant'anni,
stretti in un sodalizio politico, artistico
e di vita che li vede ancora oggi attivi organizzatori
culturali, coinvolti nelle miriadi di
iniziative promosse dalla Lega di Cultura
di Piadena, da loro fondata nel 1967 insieme a
Pierino e la Genia, i genitori di Micio.
L'associazione, che ha «base operaia e contadina
e si richiama al movimento delle Leghe di resistenza
contadine», come recita lo statuto, ha sede
nella cascina degli Azzali, il luogo dove ogni anno si
celebra la festa della Lega. Per tre giorni il «mondo
intero» si riunisce a Pontirolo, con
dibattiti e concerti in cui ai canti popolari
italiani si mescolano quelli del Bangladesh,
del Kurdistan, e dell' India, dell'Afghanistan,
dell'Ecuador, o della Romania.
Una storia
ricca e intensa, la loro, che vale la pena raccontare.
Giuseppe
Morandi, nato al Vho, una frazione di Piadena, da
una famiglia contadina e operaia, e
Gianfranco «Miciu» Azzali, bergamino figlio
di bergamini (gli allevatori delle
vacche, ndr), iniziano la loro avventura
quando una sera Gianni Bosio — instancabile
protagonista di un lavoro di ricerca e
di organizzazione culturale, che ha
messo al centro la storia del mondo popolare
e delle classi non egemoni — propone al Micio di
curare un'inchiesta sulla condizione dei
bergamini: «Perché il Miciu fa il
bergamino». Uno stimolo ad acquisire
consapevolezza della propria
condizione in maniera attiva, attraverso
l'organizzazione di assemblee e dibattiti per
raccogliere le testimonianze dei
mungitori di vacche della zona.
A dire il vero
Morandi aveva già iniziato da qualche anno a
documentare il mondo e la cultura
contadina, stimolato dal maestro
Mario Lodi, dapprima partecipando alla
produzione dei Quaderni di Piadena, in
seno alla attività della Biblioteca Popolare,
e poi accogliendo con entusiasmo la
proposta di usare anche la macchina
fotografica e la cinepresa come mezzo di
documentazione storica. Fotografie,
film e racconti che vanno a circoscrivere
una raccolta di testimonianze sulle
modifiche subite dalla piccola comunità
agricola, ma che al contempo riverberano
quanto accadeva in tutto il Paese, e che si iscrivono
intimamente nella biografia del suo
principale testimone.
Morandi però
riconosce che il suo modo di guardare la
civiltà contadina muta profondamente,
rispetto a quelle prime esperienze: dalla nostalgia
per un mondo che andava estinguendosi subentra,
infatti, una nuova consapevolezza
politica. Per sua stessa ammissione, chi lo fa
«entrare in un rapporto di classe aperto nella vita di
Piadena» — come si legge nel libro Il muro di
Piadena — «è stato proprio il Miciu», cui
Morandi riconosce l'importanza di avergli
«fatto vedere la realtà dei rapporti all'interno
dell'agricoltura [...], come lui questi rapporti
li subiva e li contrastava, come lottava per
migliorarli». Da allora, prosegue con
lucidità e generosità: «Fotografo
questa condizione contadina
osservando il rapporto tra salariati
agricoli e l'agrario, cioè con l'occhio del Miciu
appartenente a questa categoria
come subalterno».
Questo
aspetto politico della sua produzione emerge
evidente nel ciclo de I Paisàn, straordinari
film in 8mm, girati in bianco e nero, in cui vengono
ritratti i gesti del lavoro e la sapienza contadina
degli abitanti dell'area del Po. Con una camera
amatoriale a molla, prestata di volta in
volta da qualche amico o conoscente, e poca
pellicola, Morandi — spesso accompagnato
dal Micio, che registra il suono in presa diretta —
filma la classe e la cultura di cui fa parte, ossia
quella dei contadini della Bassa Padana.
Siamo di fronte
alla prima vera analisi dall'interno fatta in Italia
– per dirla con le parole di Marco Müller che nel
1999, quando era direttore del Festival di
Locarno, rende loro omaggio presentando
questi lavori per la prima volta in edizione
integrale. Basta vedere per esempio Jön du tri
quater sac, (1967) in cui viene filmato il momento
della divisione del granoturco nell'aia del
padrone per farsi un'idea. Qui i protagonisti
sono i braccianti, che abitano nel cortile,
dove vivono anche gli Azzali, intenti a insaccare il
granoturco. A seconda degli accordi stipulati
con il padrone, — come si legge in uno degli asciutti
racconti inseriti nella raccolta La
proprietaria del morto – , «se era a terzo
su tre sacchi uno era nostro, se a quarto su quattro
sacchi uno era nostro».
Del granoturco
coltivato dai braccianti, da coloro cioè che
avevano faticato a lavorare la terra durante
l'anno, solo una piccola parte rimaneva loro, come
mostra chiaramente la disposizione dei
sacchi sull'aia della cascina. Scegliendo di
tenere assieme nella stessa inquadratura i due
gruppi di sacchi di granoturco, di cui uno è
visibilmente più numeroso dell'altro,
vengono mostrati con sintetica efficacia
i rapporti di potere che intercorrono tra il
padrone e i paisàn.
Una
testimonianza diretta, dunque, con una forte
dimensione personale, caratterizzata
dalla volontà di produrre un documento storico
— in questo senso in linea con altre esperienze
di cinema amatoriale come A Groningen
Conquest, (1939) citato da Roger Odin. Ma soprattutto
una testimonianza eccezionale
all'interno del cinema amatoriale (e non solo del
cinema), dal momento che le riprese sono guidate da un
occhio interno a quella stessa classe sociale, di cui si
vogliono dare volto e immagine. Miciu e Murand hanno
chiara la consapevolezza che la
documentazione per immagini
restituisce dignità e potere a chi ne è privato
e ha la capacità di riscattare la classe non
egemone dalla propria condizione
subalterna. Un pensiero spregiudicato,
il loro, non facile da far accettare persino agli
stessi bergamini e braccianti che, infatti,
si rifiutano di appendere in casa le foto di
Morandi.
Quegli
scatti, spiega il Miciu, che li ritraggono nei loro
momenti di lavoro, fissano una condizione che
si vuole dimenticare, vissuta con
umiliazione, e per questo relegati
lontano dalla vista, inchiodati piuttosto
alla porta della stalla. Mentre la scommessa da
parte loro è quella non solo di rendere consapevoli
i soggetti ripresi della necessità di quella
documentazione, che parte dal basso, ma anche
mostrare quelle fotografie di fronte all'intera
comunità. Morandi lo sa bene, «l'immagine è potere»,
e «acquisire il diritto all'immagine vuol dire
acquisire potere»: era necessario creare
un'immagine di classe che fosse originata da chi
di quella classe faceva parte.
Morandi
continua per tutti questi anni a
documentare in mostre e libri di fotografia,
non solo la condizione di chi non ha modo di
accedere ai mezzi di comunicazione, ma
anche il profondo cambiamento che investe
la Bassa Padana — che si può sintetizzare
in un duplice movimento migratorio, prima
quello che svuota le campagne per la città, con
la progressiva e massiccia
meccanizzazione della campagna,
e poi quello che le riempie di popoli stranieri,
come avviene ormai in maniera consistente dagli
anni Novanta.
Quest'ultima
infatti è l'ennesima trasformazione della
zona della Bassa, in cui i migranti, ossia la odierna classe
non egemone, sostituiscono gli antichi
paisàn e bergamini nel settore
agricolo e in particolar modo nelle
aziende zootecniche. Tra le mansioni più
frequenti, cui si dedicano questi uomini
provenienti per lo più dall'India e dal
Pakistan, vi sono la mungitura e
l'allevamento del bestiame, come si vede negli scatti
raccolti in La mia Africa, o in Vecchi e nuovi
volti della Bassa Padana, in cui ancora una volta — fedele
e coerente con il suo percorso politico —
Morandi dà visibilità a coloro che oggi sono
portatori di una cultura radicalmente
alternativa a quella egemone.
il manifesto | 19
Febbraio 2014
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