Claudio Giunta
Non esistono paesi allegorici
Ero a Reykjavík nel 2008, nei primi
momenti del primo atto della Bancarotta Nazionale, e mi ricordo bene dei
cortei di protesta davanti al parlamento, i cortei contro i banchieri
ladri e i politici distratti o collusi che li avevano lasciati rubare.
Solo che non erano cortei di proletari, erano cortei di ex proletari che
nei decenni della lenta inesorabile crescita economica post-seconda
guerra mondiale erano diventati piccoli e medi borghesi, e poi, negli
anni della turbo-crescita fondata sul denaro elettronico, 2000-2008, gli
anni della truffa di Icesave e della corona islandese dopata,
avevano provato a diventare ricchi prendendo soldi a prestito a tassi
d’interesse ridicoli e comprando seconde e terze case sul mare, SUV,
biglietti A/R per Londra quasi ogni week-end per far la spesa da
Harrods, pacchetti-vacanze alle isole Fiji.
Ma qualcosa, o meglio, tutto non aveva
funzionato, le banche islandesi erano fallite ed erano state
nazionalizzate (con la spiacevole conseguenza che il loro debito finiva
per scivolare sulle spalle dei contribuenti, mentre i banchieri si
ritiravano nei loro attici di Londra e Berlino), e a decine di migliaia
di islandesi adesso (2008) restavano solo le rate da pagare, rate che
nel frattempo si erano quintuplicate alla stessa velocità con cui la
corona islandese aveva perso più o meno i due terzi del suo
sopravvalutatissimo valore pre-crisi.
Cinque anni dopo (2013), come stanno le cose? In mezzo c’è stato un governo socialdemocratico guidato da Jóhanna Sigurdardóttir,
un gigantesco prestito del Fondo Monetario Internazionale che l’Islanda
sta faticosamente ripagando, il passaggio dall’isola del paladino della
trasparenza Julian Assange, che qui ha fatto proseliti,
il progetto di far diventare l’Islanda il paese della libertà
d’opinione attraverso la più avanzata e liberale delle leggi
sull’informazione, il rifugio per tutti i giornalisti, blogger, talpe
antisistema perseguitati nei quattro angoli del mondo, l’annuncio di una
specie di democrazia diretta che avrebbe dovuto permettere ai 320.000
cittadini islandesi di riscrivere tutti insieme la costituzione
eccetera. E in mezzo c’è stata soprattutto, in Italia e in Europa, la
creazione di una narrativa progressista sull’Islanda e la sua storia
recente: nel senso che, dopo la bancarotta, l’Islanda ha ispirato una
specie di mito romantico anticapitalista, o piuttosto – dato che il
capitalismo non è mai stato veramente in discussione – un mito di
rivolta contro il capitalismo finanziario internazionale che avrebbe
ridotto sul lastrico i risparmiatori islandesi:
In Islanda [...] i cittadini sono
riusciti a far dapprima dimettere il governo in carica al completo,
mentre le principali banche responsabili venivano nazionalizzate, si
sono rifiutati di pagare i debiti che queste avevano contratto con la
Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro ignobile politica
finanziaria (con tanto di arresti dei principali finanzieri e top
manager responsabili della bancarotta del Paese) e in conclusione sono
passati alla creazione di un’assemblea popolare per riscrivere la
propria Costituzione. Tutto questo è accaduto attraverso una vera e
propria rivoluzione, senza spargimenti di sangue, con le proteste e le
urla in piazza, una rivoluzione contro il potere politico-finanziario
neoliberista che aveva condotto il Paese nella grave crisi finanziaria (Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2011).
È un mito interessante per due ragioni.
La prima è che in realtà sono state le banche islandesi ad aver
danneggiato, impoverito e probabilmente truffato, oltre che i cittadini
islandesi, parecchi risparmiatori stranieri (probabilmente truffato
perché che cos’è, come si prova, nel labirinto delle transazioni
bancarie, una truffa? Quale mobile confine la separa da parole più
innocenti come azzardo o rischio, o innocentissime come investimento?). Nell’autunno del 2006, l’islandese Landsbanki ha lanciato un conto corrente online chiamato Icesave
che assicurava agli investitori tassi d’interesse ancora più alti di
quelli già altissimi garantiti dalle filiali. Successo travolgente,
soprattutto in Olanda e Gran Bretagna, con decine di migliaia di
sottoscrittori e depositi per milioni di sterline. Ma Icesave
era, tecnicamente, un ‘ramo’ e non una filiale della casa-madre, vale a
dire che era sotto il controllo delle autorità finanziarie islandesi: il
che comportava che, in caso di fallimento, a garantire quei depositi
avrebbe dovuto essere lo Stato islandese, i cittadini islandesi. Il
fallimento c’è stato, e dopo il fallimento è cominciata un’infinita querelle sul debito nei confronti dei risparmiatori olandesi e britannici: chi paga quando le banche di tutto un paese falliscono? A chi vanno i soldi ricavati dalla vendita dei loro assets? La vertenza è ancora in corso.
La seconda ragione per cui il mito è
interessante è che questa narrativa para-progressista (i cittadini
islandesi vittime del capitalismo finanziario internazionale) è
precisamente la narrativa che il partito di centro-destra, l’Independent
Party (quello che era al potere prima della bancarotta, e che è dunque
in parte responsabile della bancarotta) ha messo in circolo durante
questi anni passati all’opposizione. Con risultati egregi, visto che
dall’aprile del 2013 l’Independent Party è tornato al governo. «Sono gli
stessi che governavano prima del 2008», mi dice Ragga. «Cioè: le
persone sono cambiate, i nomi sono cambiati, ma il partito,
l’Independent Party, è quello».
Ragga ha quarant’anni, è di Reykjavík, ha una laurea in giurisprudenza ed è disoccupata da ieri.
«Hanno chiuso il mio ufficio. Decisione del Ministro degli Esteri in persona».
Ragga si occupava di Europa, il suo
ufficio era una di quelli incaricati di seguire i colloqui per il
prossimo ingresso dell’Islanda nell’UE. Ingresso che ora non solo non è
prossimo, ma sembra da escludere almeno nel medio periodo.
«L’ingresso nell’Unione Europea era
un’idea della sinistra. La crisi del 2008 e il centro-destra al governo
l’hanno cancellata. Non che nell’Independent Party siano tutti contro
l’ingresso nell’Unione: ma a prevalere nel partito, in questo momento, è
la posizione di quegli industriali che vedono come una minaccia
l’arrivo di nuovi competitori in un paese economicamente ancora debole. E
dal loro punto di vista hanno senz’altro ragione. Tra l’altro, entrare
nell’Unione Europea vorrebbe dire dover rinegoziare i diritti di pesca e
ridiscutere il sistema delle quote [un sistema in vigore dalla fine
degli anni Settanta che dà ad ogni peschereccio il diritto a
commerciare una determinata quantità di pescato, e non più di quella: http://bit.ly/1dE37EZ].
Pochi, anche tra i favorevoli all’Unione, sarebbero disposti a farlo.
Dall’altra parte, il Progressive Party, che un tempo era
filo-europeista, negli ultimi tempi ha assunto posizioni nazionaliste: i
valori islandesi, l’identità islandese, cose anche un po’ allarmanti…
Gli unici a dare una chance all’Europa sono il partito
social-democratico e il Best Party del sindaco di Reykjavík, l’ex comico
Jón Gnarr, quello per cui ho votato io. Ma sono partiti di minoranza.
Insomma, il governo attuale non avanzerà la nostra candidatura per
l’ingresso in Europa; anzi, non vuole nemmeno parlarne».
«Ed è un bene o un male?». Perché ho
sentito anche parecchi islandesi di sinistra, o insomma oppositori
dell’attuale governo, che sono scettici o contrari all’ingresso nella
UE. Il mio amico Hjalti era filo-europeista prima di venire in Italia,
ma dopo un anno passato a studiare/lavorare a Roma voterebbe contro
(«Avete troppi problemi, e alcuni secondo me impossibili da risolvere»).
Fossi islandese, può darsi che anch’io voterei contro.
«Bene per certe cose male per altre,
ovviamente. Ma comunque la si pensi è chiaro che integrarsi all’Europa
vorrebbe dire indebolire il potere politico ed economico che governa
l’Islanda dal dopoguerra, l’Octopus, perché vorrebbe dire far arrivare
la concorrenza, abbassare le tasse doganali, e – come ti ho detto – far
arrivare nei nostri mari pescherecci stranieri».
Uno sente Octopus, ‘polipo’, e
pensa alla Spectre, e naturalmente è troppo: è solo caro vecchio
capitalismo con – in una nazione così piccola – una quasi naturale
propensione al monopolio. In Islanda chiamano Octopus la decina di
grandi famiglie che, detta in breve, posseggono il paese: real estate,
supermercati, pescherecci, traghetti, compagnie aeree. Se comprate da
Bonus o viaggiate Icelandair, state finanziando l’Octopus.
L’Independent Party di Bjarni
Benediktsson, l’attuale Ministro delle Finanze, ha vinto le elezioni
soprattutto grazie a una promessa, quella di tagliare in maniera
sostanziosa i mutui contratti dagli islandesi negli anni pre-crisi. «Il
centro-destra ha vinto perché un mutuo – mi spiega Ragga – ce l’hanno
quasi tutti. Ce l’ho anch’io. Perché non costava niente farli. Lo si
faceva in sterline, o in dollari, tanto la corona islandese sembrava non
dovesse mai smettere di apprezzarsi. Era un affare. Di più, era un
delitto non approfittarne. Un mucchio di studenti universitari hanno
fatto un mutuo praticamente senza garanzie».
In effetti, un numero sorprendente di persone che conosco in Islanda, ex studenti o insegnanti o giornalisti free lance,
e insomma gente che non guadagna molto o non guadagna proprio, possiede
l’appartamento in cui abita. I mutui venivano concessi a chiunque.
«Solo che dopo il crac del 2008 abbiamo scoperto che i nostri piccoli
mutui decennali erano diventati enormi, e abbiamo dovuto spalmarli su
almeno quarant’anni».
L’appartamento di Ragga, fascia
medio-alta, è a cento metri dalla strada principale di Reykjavík,
Laugavegur, in un piccolo condominio tra gli alberi. Per pagare le rate,
Ragga e suo marito hanno cominciato ad affittare un paio di stanze ai
turisti. Di fatto, io dormo da loro e pago poco, un po’ perché sono un
amico, un po’ perché siamo in bassa stagione (l’alta stagione in Islanda
dura due mesi, da metà giugno a metà agosto), un po’ perché di
stanze/appartamenti in affitto è piena Reykjavík.
Quelli che non hanno case da affittare
hanno aperto dei ristorantini o dei bar. Per esempio, sulla strada che
sale verso la cattedrale, il Noodle Station, che ha cinque
tavoli e serve un paio di ottime zuppe, un paio di piatti di pesce e un
paio di torte. Il servizio è uno dei più lenti e accidentati che abbia
visto in vita mia, perché le due ventenni dietro il bancone sono
chiaramente in fase di collaudo, ma il sabato mattina in cui ci vado ci
sono solo facce allegre perché il cibo è buono ed economico, la giornata
addirittura calda, e le due ventenni deliziosamente assorte nella loro
pagina Facebook. Dopo pranzo, caffè e biscotto al Roasters (Kárastig 1),
anche questo gestito da giovanissimi ma più nascosto, più un posto da
islandesi che da turisti. Quanto a loro, i turisti, non possono dire ad
alta voce di essere contenti della nemesi che si è abbattuta
sull’Islanda, ma un po’ lo sono, un po’ lo sono, perché col fatto che
adesso un mucchio di gente deve trovarsi un lavoro vero, qualcosa di meno chic del trading online,
la scena di Reykjavík è molto più vivace di com’era negli anni
pre-crisi, e quasi tutto (mangiare bere dormire spostarsi) è molto meno
caro.
Osservare che «i segni della crisi non
si vedono» è chiaramente una sciocchezza, perché che cosa ci si dovrebbe
aspettare? File di mendicanti che si trascinano sui marciapiedi e madri
che raccomandano i loro figli denutriti al buon cuore dei passanti? Ma
non è solo che «i segni della crisi non si vedono»: è che quelli che si
vedono in giro, per le strade di Reykjavík, sono soprattutto segni di
ricchezza. Alberghi in costruzione o appena costruiti, come l’Icelandair
Marina davanti al porto, e le strade del centro – che i quarantenni si
ricordano piene di normali negozietti di quartiere (una cartoleria, un
fruttivendolo, una lavanderia), e che i sessantenni si ricordano
sterrate – sono un’infilata di ristoranti, flagship store di
abbigliamento, caffè molto bohemien che la sera si trasformano in pub, e
per tre sere alla settimana, perché «giovedì sera è il nuovo venerdì»,
si riempiono, oltre che di turisti (mai così tanti turisti in Islanda),
di giovani della città e dei dintorni.
Ora, quest’aria da movida perenne non prova niente, non significa niente, anzi, la movida
e l’investimento sul turismo sono spesso l’unica carta che resta da
giocare alle nazioni in bancarotta, sono la festa da ballo sul Titanic.
Ma a un estremo della città, zona porto, c’è lo Harpa, palazzo dei
congressi + sala da concerto + teatro + spazio esposizioni, che è
grandissimo e bellissimo, uno dei più begli edifici costruiti in Europa
in questo inizio secolo: http://www.harpa.is/.
E all’altro estremo della città, zona
aeroporto, c’è il campus dell’Università di Reykjavík, che – a parte il
clima circostante, si capisce, i 2-5 gradi già a fine settembre – è
precisamente il genere di campus in cui mi piacerebbe insegnare,
studiare, vivere: http://en.ru.is/.
Sia lo Harpa sia l’Università di
Reykjavík sono stati progettati in tempi di vacche grassissime e sono
stati portati a termine in tempi di vacche, più che magre, esangui,
tanto che i lavori erano stati sospesi, si era pensato di rinunciare,
niente teatro e niente campus, ma poi i soldi per andare avanti,
nonostante la crisi, si sono trovati (dove? Buona domanda), e adesso
stanno lì, lo Harpa concluso, il campus in parte concluso e funzionante,
e richiamano turisti e studenti da mezzo mondo, e insomma danno
l’impressione di un paese ricco, e se non proprio ricco in salute, un
paese che investe in infrastrutture.
Dico a Hjalti dell’impressione che ho
avuto girando per la città: l’infilata di pub e ristoranti, la
meraviglia dello Harpa e dell’Università.
«Sì – risponde Hjalti – abbiamo gli
immobili, anche troppi immobili, ma solo quelli. Un popolo di possessori
di beni immobili. Ma quasi tutti abbiamo dei mutui-capestro, pochissimi
liquidi e lavori precari, e la moneta più debole d’Europa. Viaggiare
all’estero è difficile, pagarsi un albergo quasi proibitivo».
Il primo passo per la rigenerazione,
dopo la bancarotta, è stato mettersi a scrivere una nuova costituzione.
In realtà non è ben chiaro per quale motivo, dato che a far difetto non
sono state veramente le leggi ma i controlli, la competenza, il buon
senso, la distinzione dei ruoli tra banchieri e politici, e anche il
senso della misura un po’ in tutti quelli che hanno partecipato alla
festa, compresi molti ‘normali’ islandesi. Ma partire dalla Legge è più
facile che cambiare la natura umana, e così 950 persone prese a caso dai
registri elettorali si sono messe a discutere della nuova costituzione
in un forum, dopodiché il progetto di una nuova costituzione steso da
una sottocommissione di 25 membri è finito sui social network – il
consiglio costituzionale aveva un canale in YouTube, un hashtag, e le
riunioni venivano trasmesse in streaming su Facebook.
Nel giugno del 2011, Haroon Siddique, del Guardian,
ha intervistato Thorvaldur Gylfason, uno dei membri del consiglio
incaricato di stendere il testo della nuova costituzione. Il pubblico,
ha detto Gylfason, «vede la costituzione crescere sotto i suoi occhi… È
qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che succedeva in passato,
quando i costituenti preferivano trovarsi in un angolino isolato, fuori
vista…». Il progetto ‘Costituzione attraverso i social network’, è
partito nell’aprile del 2011: con un sito web aggiornato ogni settimana
con proposte arrivate dai cittadini, una pagina Facebook, un canale di
YouTube per interviste e filmati delle riunioni, un account Twitter e un
account Flickr «che contiene le foto dei 25 membri del consiglio al
lavoro, per massimizzare l’interazione coi cittadini».
Due anni e mezzo dopo che ne è del progetto, della costituzione scritta dai cittadini?
«No – risponde Ragga – alla fine niente,
niente costituzione, siamo rimasti con quella del 1874» (perché nel
1944, l’anno dell’indipendenza dalla Danimarca, la costituzione venne
solo ritoccata, non rifatta ex novo). Gylfason ha poi raccontato su Open Democracy come il progetto è naufragato: http://bit.ly/1mcTIbl. Leggendo l’articolo, col suo appello alla Collective Intelligence (e il link alla pagina di Wikipedia che spiega cos’è), si capisce anche il perché, e si prova quasi sollievo.
E la legge sulla stampa che doveva (mi ricordo bene il verbo usato da un attivista in un’intervista televisiva) cherry-pick i pezzi migliori delle legislazioni mondiali e rifonderle in un avanguardistico blend
islandese di libertà totale? Per un po’ tutti cercavano di parlare con
quelli dello IMMI, l’International Modern Media Institute, io ci avevo
provato nel 2010 e mi avevano dato appuntamento di lì a un mese.
«No, niente, anche quella è rimasta
com’è. I giornali sono sempre in mano alla stessa gente, e l’IMMI… Chi
li ha più sentiti?». Controlliamo insieme. L’ultimo post nel sito dello
IMMI è di sette mesi fa, parla di Snowden.
Così non si può proprio dire che questi
cinque anni siano stati anni di sogni realizzati, men che meno di
rivoluzioni. Il governo è di nuovo in mano al centro-destra: non sono
proprio gli stessi che erano al potere prima del 2008, ma la razza è
quella: milionari figli di milionari, come Bjarni Benediktsson. Le cose,
lentamente, migliorano. L’economia è in ripresa. La promessa di
tagliare i mutui forse verrà mantenuta, chiedendo una dilazione al FMI,
limando un po’ le pensioni, convincendo le banche ad essere gentili. E a
proposito di banche, i primi processi ai banchieri pre-2008 si stanno
concludendo, qualcuno andrà in prigione. Per il resto, l’Islanda non
entrerà nell’Unione Europea. L’idea della costituzione scritta dai
cittadini è tramontata, e forse è meglio così. Gran parte della stampa
continua ad essere controllata dalle solite famiglie, e insomma tutto è
tornato più o meno come prima (l’unica differenza percepibile,
arrivando, è che la compagnia low cost Iceland Express ha
cambiato nome ed è diventata Wow Airlines, e i colori dei sedili sono
passati da arancione a blu ma gli apparecchi vengono sempre dall’Europa
dell’est: le scritte a bordo sono in inglese e in cirillico, lo stewart
si chiama Filip, la hostess Alina). Tutto come prima a parte i soldi, si
capisce, che si sono volatilizzati – eppure sono stati spesi
per mega-progetti pubblici e privati come lo Harpa e l’Università di
Reykjavík, o il nuovo padiglione dell’Università d’Islanda; eppure
continuano a entrare valanghe di valuta straniera, ad ogni aereo che
ogni mezz’ora atterra all’aeroporto di Keflavík: gli alberghi sono quasi
tutti esauriti, ed è la fine di settembre, e i ristoranti e i negozi
sono pieni di turisti, e l’Islanda ha meno degli abitanti di Firenze, e
la superficie del nord Italia, così uno alla fine si domanda come possa
avere problemi economici un paese che ogni anno viene visitato da un
numero di persone doppio rispetto a quello dei suoi abitanti, e che può
sfruttare l’energia geotermica, che è quasi gratis, e poi la pesca,
l’alluminio, l’informatica, le pecore… Come fanno ad avere problemi di
liquidità? Che razza di disastro hanno combinato per trovarsi in questa
situazione?
In un saggio del 1977, Lettera da Shanghai, Fortini se la prendeva con i professionisti della Schadenfreude,
quelli che si rallegrano nel constatare che, se le cose non vanno bene
in Italia, non vanno meglio fuori d’Italia, e che dunque è inutile
sperare che la salvezza possa arrivare da un idealizzato Altrove. «Mista
al risentimento – scriveva – era l’esultanza di chi non vuole sia
permesso a nessuno di figurare migliore di lui; di chi vuole essere ben
certo che tutto il mondo sia paese, anzi miserabile paese». La lettera
da Shanghai sta in una sezione di Questioni di frontiera che s’intitola I paesi allegorici.
I paesi allegorici visitati da Fortini erano la Cina e l’Unione
Sovietica. Ma è ovvio che andare in Cina e in Unione Sovietica, e poi
parlarne, era un modo per parlare dell’Italia. La lettera si chiude con
una bella pagina in cui Fortini racconta di una sera del 1972 a
Changsha, nello Hunan. La delegazione di cui faceva parte aveva appena
visitato i luoghi-simbolo della rivoluzione di Mao; adesso,
nell’albergo, un medico sudamericano giocava a ping-pong con un giovane
cinese: «… Ma perché ero là? Con la mia vita come potevano avere a che
fare quei luoghi? E di causa in causa mi pareva di intendere chiaro che
essi veramente a che fare con noi avevano avuto da sempre».
Ora che l’Unione Sovietica e la Cina di
Fortini non esistono più, in quale punto della mappa stanno i paesi
allegorici, dove bisogna cercare un ‘discorso diverso’ (questo è,
etimologicamente, l’allegoria), diverso s’intende da quello che
si fa, da quello che si ascolta in Italia? Venute meno le alternative,
liquidato nell’irrealtà il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente, non è strano che i sogni di palingenesi abbiano lasciato il
posto ai sogni di escapismo. Dato che cambiare la vita è troppo
difficile, e per la verità neanche poi tanto desiderabile, si cambia
paese, o si proiettano su un altro paese tutte le belle qualità che non
si riescono a trovare nel proprio. L’infatuazione per il Giappone di
certi intellettuali europei che ci hanno passato due settimane, come
Barthes o Parise, si spiega soprattutto così. «Si trattava di un paese
non soltanto molto lontano fisicamente e geograficamente dal paese della
Politica ma da tutti quei paesi occidentali che credono nella materia e
non nello spirito» (Goffredo Parise, L’eleganza è frigida). Basta leggere La società giapponese di Chie Nakane o Lo spirito Toyota di Taiichi Ohno, o passeggiare un paio d’ore per le strade di Shinjuku, per capire che queste sono fantasie consolatorie.
È stata una fantasia consolatoria anche
pensare che esistesse una via islandese al capitalismo, e che l’Italia,
la nona potenza industriale del pianeta, potesse imparare qualcosa da
una nazione che ha lo stesso PIL del Congo. Non c’è stata nessuna sfida
islandese alla finanza internazionale, soltanto una prima disinvolta e
poi fraudolenta gestione degli strumenti finanziari da parte delle
banche islandesi; e la comprensibile tendenza di molti cittadini
islandesi a non fare troppe domande, per non spezzare l’incantesimo. «A
un certo punto, un po’ prima della bancarotta», mi ha detto Ragga, «era
diventato abbastanza chiaro che non poteva continuare così. E allora la
gente non ha rallentato: ha accelerato, ha fatto ancora più
debiti, ha comprato ancora più cose, è partita per le Canarie. Passava
l’ultimo treno, era da idioti perderlo». La democrazia diretta è la
medicina per curare questa malattia così caratteristicamente umana,
l’amore per il denaro? Possibile, ma poco probabile. In ogni caso, a
cinque anni dalla bancarotta, l’esperimento islandese – la costituzione
riscritta dai cittadini, l’assemblea permanente su internet e nessuna
pietà (nessuna giustizia) per i creditori – non sembra aver avuto
successo.
[Pubblicato il 28 febbraio 2014 da http://www.leparoleelecose.it.
Già uscito su www.internazionale.it].
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