10 febbraio 2014

SCHIAVITU' IERI E OGGI



       Contrariamente a quello che si crede, furono i rivoluzionari giacobini e non il cristianesimo ad abolire la schiavitù in Europa. Dalla caduta dell'impero romano alla rivoluzione francese nell'Europa “cristiana” vissero milioni di schiavi. Fino al Settecento era pratica comune (anche da parte di ecclesiastici) l'utilizzo di schiave (provenienti per lo più dal Mar Nero) nei lavori domestici.
        Questi sono dati di fatto incontrovertibili. Pur restando vero quanto ha acutamente osservato in carcere Antonio Gramsci: affermare come fa la religione cristianauì II   IiiiiiiiiiiiiiiiI  “che l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini”,  pur ammettendo che “tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico ”, ha contribuito in modo decisivo a diffondere nel mondo le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà. Queste ultime infatti  “fermentano tra gli uomini , in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni” (dai Quaderni del carcere)

Sergio Luzzatto

I musulmani in Europa

È ormai più di vent'anni che siamo circondati dal chiacchericcio sullo «scontro di civiltà», e in particolare sul millenario, fondamentale, irredimibile scontro tra l'Occidente cristiano e l'Oriente musulmano. Ne siamo così circondati da accogliere con sollievo tutti i contributi – storici, antropologici, sociologici, politologici – che valgano non tanto a sbugiardare i catastrofisti occidentalisti del clash of civilisations in nome di chissà quale revisionismo ecumenista, ma semplicemente ad arricchire il paesaggio delle nostre conoscenze e delle nostre riflessioni. Con nuove evidenze documentarie, con proposte interpretative meno rozze. Ben venga dunque un libro di storia come quello di Lucette Valensi, Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo).

Quante cose ci illudiamo di sapere già su questa storia. A cominciare dal fatto che c'è poco da sapere, perché soltanto con il Novecento la presenza di musulmani in Europa sarebbe divenuta massiccia, per ragioni legate sia allo sviluppo economico dell'Occidente sia al processo di decolonizzazione. Sicché (crediamo di sapere) un intervallo lungo cinque secoli ha separato la cacciata dei «mori» dal Vecchio Continente, completata nel Quattrocento, e il loro ritorno in massa nell'Europa del ventesimo secolo. Ancora, ci illudiamo di sapere che poco o nulla tale storia abbia avuto a che fare con la storia della schiavitù. O piuttosto che i «turchi» avessero effettivamente l'abitudine di ridurre in schiavitù i cristiani da loro catturati, mentre ogni sistema schiavistico organizzato da cristiani era finito nel Mediterraneo con la fine del Medioevo: limitandosi in età moderna alla tratta dei neri d'Africa nell'Atlantico.

Livorno. I quattro mori


















Peccato che tutto questo sia inesatto. Dal Cinque al Settecento, molti musulmani hanno vissuto in Europa. Il loro numero non va conteggiato in migliaia, ma in milioni. Alcuni – una piccola minoranza – furono mercanti. Insediati nelle grandi città portuali dell'Adriatico, a Spalato, ad Ancona, soprattutto a Venezia, dapprima a San Matteo di Rialto, poi al Fontego dei Turchi sul Canal Grande. Altri – tantissimi, centinaia di migliaia – furono forzati sulle galee. Schiavi del remo, «mori del re». Altri ancora – la maggioranza – furono schiavi non pubblici ma privati. Razziati in tempo di pace come in tempo di guerra, dalle costiere del Maghreb alle pianure dei Balcani, uomini di fede islamica vennero schiavizzati nell'agricoltura, nell'orticoltura, nella conceria, nel tessile. Donne islamiche (più costose al mercato della tratta) vennero schiavizzate come domestiche, come ricamatrici, come sarte.

Oltre ai liberi mercanti, agli incatenati galeotti, all'esercito senza uniforme delle schiave e degli schiavi privati, c'erano i cripto-musulmani. Cioè quanti di nascosto erano restati fedeli al Profeta, a dispetto del movimento di cristianizzazione forzosa promosso nei regni iberici durante il Basso Medioevo. In effetti, se pure la caduta di Granada, nel 1492, meritò al sovrano di Spagna il titolo di «Re Cattolico» ed entrò negli annali come data di compimento della Reconquista, più di un secolo si rivelò poi necessario per cancellare dalla Spagna ogni traccia dei moriscos. Dal 1568 al 1570, il regno di Granada fu scosso da una violentissima rivolta di montanari andalusi rimasti di fede maomettana. La repressione ordinata da Filippo II fu altrettanto violenta, e si risolse nella deportazione di settantamila granadinos verso altre regioni della penisola iberica. Ma comunità islamiche riuscivano ogni volta a riorganizzarsi, in Castiglia, in Aragona, nel regno di Valencia, in Estremadura. Soltanto decenni più tardi, tra 1609 e 1614, un'impressionante operazione di pulizia etnica permise l'espulsione dalla Spagna di oltre trecentomila moriscos, imbarcati a forza sulle galee e deportati verso le coste nordafricane o francesi.

I documenti dei processi istruiti dall'Inquisizione permettono agli storici di ridare vita a questi musulmani spagnoli del Cinquecento e ancora del primo Seicento, restituendo le forme di una loro accanita resistenza sia propriamente religiosa, sia genericamente culturale. Finché fu possibile, le comunità islamiche continuarono a praticare clandestinamente la circoncisione dei neonati, l'osservanza dei digiuni, il rispetto dei rituali funebri, il sacrificio di animali, l'organizzazione della preghiera collettiva. Continuarono a formare imam e a promuovere la circolazione di libri in arabo. Perseverarono nel l'uso dei bagni, nell'abbigliamento tradizionale, nella fedeltà alla lingua parlata d'origine, nei canti d'accompagnamento ai matrimoni e alle feste, nell'attribuzione di nomi islamici dissimulati con un nome cristiano.

Andrea Doria, mercante di schiavi























Espulsi in massa dalla Spagna, i musulmani ritornavano massicciamente in Europa quali vittime della tratta degli schiavi. Ed è qui che la lettura del libro di Lucette Valensi riserva le maggiori sorprese rispetto a un senso comune storiografico che vorrebbe l'Europa dell'età moderna estranea a sistemi di riduzione in schiavitù. I porti italiani, in particolare, erano «veri e propri centri regolarmente dediti al traffico di essere umani»: così Cagliari, Messina, Palermo, Bari, Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova, Venezia... In riferimento a un anno qualunque del Seicento, il numero di schiavi musulmani presenti in Italia è quantificabile tra le 40.000 e le 50.000 unità. Per la Spagna e il Portogallo, si calcola che tra il 4 e il 5 per cento della popolazione totale fosse «Stranieri familiari», quindi, i musulmani nell'Europa moderna.

Stranieri perché «infedeli», odiosi maomettani da espellere deportandoli oppure da convertire a forza, da battezzare trionfalmente quali catecumeni della vera fede. Ma stranieri familiari, troppo presenti (e da troppo tempo) per riuscire totalmente alieni. Non solo stranieri da vincere sui campi o sui mari di battaglia, nelle guerre ricorrenti degli Stati occidentali contro l'Impero ottomano e gli Stati barbareschi, ma anche stranieri da addomesticare sul fronte interno, liberandoli una volta per tutte dalla falsa profezia del Corano. Come, a fronte dell'ostinata loro resistenza religiosa e culturale? Essenzialmente attraverso due divieti. Due contromisure apparentemente meno severe di altre, ma che a lungo andare dovevano rivelarsi vincenti: il divieto di costruire moschee, il divieto di mantenere cimiteri.

Con rarissime eccezioni, tra cui la Genova del Settecento, il paesaggio urbano europeo dell'età moderna non conobbe la realtà della moschea come luogo di culto autorizzato. Né i musulmani, salvo rare eccezioni (tra cui ancora Genova), si videro riconosciuto il diritto di tumulare i propri morti in cimiteri separati: la prassi prevedeva che i cadaveri degli «infedeli» venissero bruciati o gettati in mare. Alla lunga, i musulmani si trovarono così a vivere in Europa come individui piuttosto che come gruppi. Finalmente erano singoli, non comunità! Interdetto dei suoi epicentri di vita religiosa e di memoria identitaria – la moschea e il cimitero – «ciò che sopravvisse in Europa fu un islam senza luogo, per musulmani senza discendenza».

il Sole 24 Ore – 9 febbraio 2014



Lucette Valensi
Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo)
Einaudi, 2014
26,00

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