«Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani»: la frase, di cui peraltro si discute ancora l'autenticità, è famosissima, il suo autore, Massimo d'Azeglio, decisamente meno. E si tratta di un caso curioso: scrittore lontano, si direbbe assai datato, studiato solo dagli specialisti; eppure tirato in ballo nelle stagioni più varie, invocato ai tempi del nazionalismo fascista come in quelli del separatismo leghista, e quasi sempre a sproposito.
Il libro di Claudio Gigante La nazione necessaria. La questione italiana nell’opera di Massimo d’Azeglio (Cesati 2013), di cui pubblichiamo alcune pagine tratte dall’Introduzione, riflette su questo paradosso: tornando anche sulla frase controversa, e analizzando sia il ruolo di d'Azeglio nel processo unitario, sia i fraintendimenti e le strumentalizzazioni di cui è stato oggetto durante l'infinito e sempre aperto dibattito sulla storia dell'unità.
Claudio Gigante
La nazione necessaria: Massimo d’Azeglio e la questione italiana
Massimo d’Azeglio è uno degli emblemi
decaduti del Risorgimento: se nel clima postunitario era considerato […]
uno dei personaggi simbolo della stagione dell’indipendenza e
dell’Unità per essere poi addirittura annoverato durante il Ventennio
tra i cosiddetti “prefascisti”, oggi di lui si ricordano più volentieri,
al contrario, le perplessità del 1860 e la sua fiera opposizione sia
alla spedizione garibaldina sia all’annessione del Mezzogiorno.
Sintomaticamente lo si ritrova citato in discorsi dei politici della
Lega Nord quale lungimirante profeta del carattere fragile e artificioso
dell’Unità raggiunta o, nella variegata galassia dei movimenti
meridionalisti, quale precoce esponente del razzismo del Nord contro il
Sud.
Su un altro piano, pesano ancora oggi
sulla ricezione di d’Azeglio i giudizi di Mazzini e Gramsci, che anche
in questo hanno avuto un’influenza decisiva, talvolta acriticamente
assorbita, nella cultura italiana. […]
L’impegno patriottico di d’Azeglio è […]
inizialmente di natura letteraria: nasce nell’orbita manzoniana ma si
sviluppa per vie autonome, innegabilmente più modeste. Ma di successo:
l’Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta, stampato nel 1833 dal tipografo dei Promessi Sposi,
il Ferrario, diventa rapidamente uno dei casi editoriali del tempo, e a
buon diritto è stato di recente annoverato fra i «bestseller perduti»;
il Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni, apparso
per gli stessi tipi nel 1841, ottiene ugualmente un consenso di pubblico
considerevole, pur non eguagliando il primo romanzo (il Fieramosca è molto più breve, il Niccolò
è un romanzone arruffato, sovraccarico di erudizione). A questa fase,
in cui l’incontestabile ispirazione patriottica è svincolata da un
progetto politico, sono dedicati il primo e il terzo capitolo del libro.
Vale sottolineare che l’impegno
letterario su tale tipo di versante – ravvivare le patrie memorie al
fine di far crescere un orgoglio «nazionale» – non era mai di per sé
neutro: e uno scrittore che avesse desiderato fama e vendite facili
poteva trovare altre strade. Presentando il Niccolò de’ Lapi,
d’Azeglio scriveva di essersi «disposto, insin che gli durin le forze e
la vita, non aver un affetto, non un pensiero, che non sia dedicato alla
patria». Era una sintesi onesta del suo impegno puramente
“sentimentale”, che è rintracciabile ancora nell’ultima fatica narrativa
rimasta incompiuta al cap. VIII, La Lega Lombarda. I due
romanzi compiuti hanno un’impostazione genericamente “nazionale”; in
entrambi ci sono esortazioni all’unione contro lo straniero, come
nell’arringa (che De Sanctis ricordava con enfasi) di Prospero Colonna
che precede la tenzone finale dell’Ettore Fieramosca: «vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d’Italia ugualmente?».
Apostrofe – lo scriviamo nel primo dei capitoli di questo libro – che
sembra riecheggiare ancora, molti anni dopo, nelle parole rivolte ai
giovani da Mazzini all’indomani del trattato di Villafranca: «Giovani
d’Italia, sorgete! […] Sorgete tutti e per tutti! Non siete voi tutti figli d’una stessa Italia,
in cerca di una stessa Patria?». Si tratta, certo, di una coincidenza,
ma il linguaggio, al solito, è rivelatore: Mazzini, vent’anni dopo, era
rimasto con gli stessi ideali e pressappoco la stessa visione delle
cose; d’Azeglio, no.
[…]
Se d’Azeglio può essere ricordato oggi
quale scrittore simbolo del Risorgimento nazionale e, nel contempo,
quale precursore, già negli anni Sessanta, di posizioni antiunitarie,
ciò si deve all’involuzione (ad altri parrà forse un’evoluzione) del suo
pensiero politico. Nella seconda metà degli anni Quaranta, passato alla
pubblicistica politica […], d’Azeglio, influenzato da Cesare Balbo, dà
alla luce i suoi pamphlets più famosi: Degli ultimi casi di Romagna e I lutti di Lombardia.
Sono due scritti che ruotano intorno a due questioni “politiche”
distinte – la cattiva amministrazione pontificia nelle Legazioni di
Romagna sul finire del regno di Gregorio XVI e la terribile repressione
austriaca del ’48 in Lombardia. I lutti di Lombardia,
l’opuscolo politico di d’Azeglio più bello, il più “umano” e
patriottico, forse anche il più sentito, precede e praticamente annunzia
la prima guerra d’indipendenza. Di questi aspetti mi occupo nel secondo
capitolo, dedicato alla scrittura politica di d’Azeglio nelle due
epoche più rilevanti del nostro Risorgimento, tra prima guerra
d’indipendenza e Unità.
Tra le due stagioni si colloca
l’esperienza governativa, da presidente del Consiglio, nel corso della
quale d’Azeglio piegò i suoi sforzi a rimettere in piedi, dopo la
sconfitta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, il regno di
Sardegna, salvando lo Statuto e avviando una serie di importanti riforme
civili: si può dire che sia a questo punto che in d’Azeglio inizia a
prevalere l’orizzonte della politica piemontese […]. Ceduto il timone a
Cavour, nel 1852, d’Azeglio ebbe un guizzo d’entusiasmo al momento della
seconda guerra d’indipendenza, partecipando prima per via diplomatica
poi con gli incarichi di governatore a Bologna, nel ’59, e a Milano, nel
’60, all’annessione del centro-nord al Piemonte: ma non condivise il
resto, ritenendo immaturi i tempi dell’Unità della penisola ed
esprimendo fortissime riserve sulla plausibilità di una fusione tanto
repentina con il Sud. Questo tono prevalente nell’ultimo d’Azeglio, che
non manca, soprattutto nella scrittura privata, di note sgradevoli, è
tuttavia associato, in opuscoli come Questioni urgenti e Agli elettori (su
cui mi soffermo ancora nel secondo capitolo), a un fondo indeterminato
di fiducia, a un desiderio di dialogare e di far sentire le proprie
ragioni: testimonianza di una volontà di continuare a discutere
pubblicamente, pur tra sbalzi di umore e risentimenti di natura
personale, sul futuro prossimo della neonata nazione. Al vecchio
statista ormai scettico e appartato può capitare persino di dare voce,
all’indomani dei fatti di Aspromonte, a un vigoroso sussulto di orgoglio
patriottico un po’ di maniera:
«Si un congrès
entreprenait de défaire l’Italie – scriveva a Eugène Rendu nel settembre
del 1862 –, qui se chargerait de l’exécution de l’arrêt? Car il y
aurait de Turin à Messine un grand parti, celui qu’on appellerait le
parti de la dignité nationale, qui se lèverait pour la défense de
l’unité, armata manu. Et, vous le pensez bien, j’en serais! car comment subir sans mot dire une pareille humiliation?».
Il d’Azeglio de I miei ricordi,
il “pedagogo” che continua a essere anche un fecondo epistolografo,
assume una postura ancora diversa: quella del vecchio padre della patria
che parlando dei casi della propria vita ritiene di potere ancora
essere utile al giovane stato. Alla questione nazionale – e alla
centralità dell’esperienza del Quarantotto – nell’incompiuta
autobiografia è dedicato il capitolo quarto, nel quale si avvia anche un
ragionamento per una nuova e quanto mai necessaria edizione critica.
Esiste su Massimo d’Azeglio una cospicua messe di aneddoti; ne sono responsabili, per dir così, gli stessi Ricordi
che pullulano di storielle familiari o di genere […]. L’immagine di
d’Azeglio, già noto in vita per libri, quadri e attività politica,
divenne dopo la morte ulteriormente popolare principalmente grazie al
successo della sua autobiografia incompiuta; destarono interesse anche
le pretese “continuazioni” elaborate dal modesto Giuseppe Torelli e poi
soprattutto la diffusione a stampa di varie sezioni dell’imponente
epistolario […]. Poeti fecondi ma raramente corrisposti dalle Muse,
quali Giovanni Vecchi e Enrico Panzacchi, ne cantavano le gesta; altri,
di diversa statura, come David Levi, ne ricordavano l’impegno civile;
Luigi Fontana ne faceva addirittura l’oggetto di una commedia (Massimo d’Azeglio a Roma)
mentre già nel 1843 il messinese Felice Bisazza aveva composto dei
versi che celebravano il primo viaggio di d’Azeglio in Sicilia.
Accanto al versante celebrativo,
alimentato dalle immancabili commemorazioni (ricordiamo almeno quelle di
Francesco De Sanctis e Gino Capponi), si è poi nel tempo consolidato un
filone minore, dal carattere frivolo e “mondano”, di nessun interesse,
almeno per chi scrive. Il cavaliere “elegante” celebrato ad esempio in
una pagina di Ferdinando Martini […].
Si è diffusa anche per questa via l’immagine di un d’Azeglio facilone e bonario, un po’ dandy, viveur
arguto e dalla battuta pronta (financo sul letto di morte),
prigioniero, si direbbe, della sua stessa immagine. C’è del vero,
naturalmente, se Margherita Provana […] nel suo diario privato ironizza –
e siamo appena nel 1853 – sul suo presunto dilettantismo in politica
(«È un vero amateur»), sulla sua vanità («Massimo Azeglio
ritorna dalla Toscana dicendone meraviglie. Si vede che le signore
fiorentine lo hanno accolto molto bene»), sulla sua sfiducia nei
confronti del governo di Cavour che si attribuisce a invidia («Non è un
uomo serio Massimo»); o se Teresa Borri Stampa, l’acidula seconda
consorte di Manzoni, un decennio prima, stroncava privatamente, in una
lettera al figlio Stefano, il Niccolò de’ Lapi («Lapo, Lapone, Lapaggione, de’ Lapitti»),
romanzo «sconnesso» e «pasticciato»: «Ma che cicalone eterno, Massimo!
che seccatore! che stupidone!». In una delle lezioni tenute nell’Ateneo
napoletano De Sanctis, con una delle sue sentenze lapidarie destinate a
divenire formule, disse che mancavano a d’Azeglio, ora «concentrato
negli studi per forza di volontà», ora «correndo appresso a donne e ad
avventure profane», quei «caratteri che segnano una seria e virile
vocazione artistica».
Bastino questi rapidi cenni,
incrementabili a volontà spigolando tra lettere e bibliografia di
genere, per intendere quel che in questo libro, inteso a ricostruire il
pensiero di d’Azeglio intorno alla questione italiana, è stato lasciato
da parte.
Nelle pagine che seguono saranno sempre i
testi, letterari o politici, a essere il punto di partenza. Del resto,
come avviene per altri scrittori del suo tempo, in d’Azeglio i due
ambiti – la letteratura, appunto, e la politica – non sono, per buona
parte delle sue carte (pubbliche o private) veramente separabili. Per
motivi che risulteranno chiari al lettore provveduto – oltre che in
ragione della mia formazione – mi è sembrato vantaggioso proporre nel
terzo capitolo un confronto con una figura come Nievo, «scrittore
soldato» (anche lui), lontanissimo da d’Azeglio per origini, indole,
formazione, idee politiche. Eppure si tratta di una distanza che
un’analisi condotta sui testi, non su sterili schemi storiografici,
tende molto a sfumare: per certi aspetti Nievo – che nella Milano dei
primi mesi del ’60 ebbe modo, da giovane cronista, di incrociare il
governatore d’Azeglio mondanamente circondato dal «brio delle Signore
convenute presso di lui» – aiuta a capire, e a relativizzare, il senso
di molte opinioni di d’Azeglio. In fondo entrambi erano tributari di una
tradizione umoristica che li rendeva capaci di cogliere, per dirla con
un passo de I miei ricordi, il «lato ridicolo» delle «cose serie» e il «lato serio» delle «ridicole».
[…]
Il taglio delle mie pagine, orientato in
senso letterario, dovrebbe permettere, almeno questo è il mio scopo, di
collocare meglio l’opera di d’Azeglio nel suo contesto: nella
convinzione, oggi poco di moda, che l’Unità sia un valore e che ogni
attività letteraria spesa per approssimarsi a tale valore debba essere
storicizzata con rispetto.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/
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