Una scena della "Dolce vita" di Fellini
I non-luoghi
di Elena Stancanelli
Per semplicità, ero solita dividere i luoghi di Roma in due categorie: quelli che potevo raggiungere con la vespetta e quelli che non potevo raggiungere. I secondi semplicemente non esistevano. Facevano parte di un’altra città, nella quale non abitavo. Come Venezia o Torino, avrebbero potuto essere straordinari ma erano luoghi di vacanza. Non si raggiungevano, ci si andava in gita. Per vacanza o per lavoro.
La scarsa efficienza dei servizi di trasporto pubblico rende Roma una città misteriosa agli abitanti stessi. Quelli di Roma nord sanno di quelli di Roma sud soltanto storie, luoghi comuni, leggende, e viceversa. Le ville dell’Eur, lo spaccio a San Basilio, le puttane della Salaria, i rumeni ad Anagnina. Se abiti al Trullo non ci vai a Tor Bella Monaca, né da Dragona ti azzardi a raggiungere la Bufalotta. Puoi calare al centro, questo sì, ed è lì che probabilmente si tramandano le leggende sui quartieri.
Per me, quindi, i non-luoghi erano tutti quelli che fino a quel momento consideravo non esistenti, cioè oltre il raggio d’azione della vespetta. Ovvio che è bastato un primo giro, in macchina con Angelo Franceschi (il fotografo di Repubblica che lavora con me ormai da anni), per riorganizzare il criterio.
I «non-luoghi», secondo la definizione canonica di Marc Augé, sono spazi non coniugati. Non hanno né passato né futuro, né nostalgia né speranza. Vivono un presente ossessivo che solo la parola del racconto o il nostro sguardo affettuoso può vivificare. Augé si riferisce agli aeroporti, ai centri commerciali, agli svincoli autostradali, alle grandi catene alberghiere, alle strutture per il tempo libero, alle reti di comunicazione cablate o senza fili, e anche ai campi profughi. Sono luoghi nei quali l’identità è sostituita dalla funzione, dove tu sei ciò che fai, o ciò che rappresenti. Luoghi deputati a una condizione di transito perenne, che rende vecchio e ridicolo il concetto di dimora.
I non-luoghi sono moderni, anzi «surmoderni» sempre secondo Augé. Se si esclude la sfiga dei campi profughi, entrati in classifica per political correctness, i non-luoghi sono anche belli. Confortevoli, eleganti, e soprattutto mai mediocri, mai schiavi di un passato imbarazzante. Disinvolti come figli senza padri dei quali vergognarsi. Attraversati da viaggiatori di diversa foggia, non possono mai vantare affezionati o residenti. Sono tappe di un perenne spostamento, il cui indice di confortevolezza sale quanto più ogni tappa somiglia a tutte le altre.
Il giorno in cui vi sveglierete di soprassalto convinti di aver sentito odore di antrace, o in preda al panico butterete fuori dal finestrino dell’autobus la borsa che il vicino ha appoggiato in terra per soffiarsi il naso, il giorno in cui vi renderete conto di essere passati da uno a tre pacchetti di sigarette al giorno, e che le vostre abitudini sessuali e alimentari stanno oscillando dalla bulimia all’anoressia senza passare mai per il piacere, quel giorno sarete entrati a far parte dell’affollatissimo club di occidentali malati di ptsd, sindrome da stress post-traumatico.
Ecco i sintomi:
dissociazione;
somatizzazione;
instabilità affettiva;
disturbi dell’identità e dei confini della persona;
comportamenti autolesionistici;
comportamento sessuale impulsivo e a rischio;
difficoltà nella modulazione della rabbia e degli affetti in generale, coinvolgimento cronico in relazioni disfunzionali e frustranti.
È imbarazzante, lo so. Più che un quadro clinico sembra la descrizione di una qualsiasi delle nostre giornate. Pur non essendo vittime, almeno non tutti, di stupri infantili, o torture, presentiamo la stessa sintomatologia. Come una gravidanza isterica. Per fortuna che c’è stato l’11 settembre. Il grande trauma, lo stupro prêt-à-porter da indossare in ogni occasione. La scusa migliore per la nostra ipocondria. La giustificazione in quarta di copertina per i disastrosi risultati letterari di scrittori americani fino a quel momento inappuntabili. E adesso che il nostro dolore ha un nome modernissimo, come lo affrontiamo?
Con le fughe.
Questo è il tempo della vigliaccheria. Nel quale il sotterfugio ha sostituito il confronto, il denaro l’intelligenza. I nostri muscoli servono soltanto a indossare i vestiti con maggiore eleganza. «We have teeth as the cannibals do», dice Philip Roth in Patrimony, «but they are there, imbedded in our jaws, the better to help us articulate». Scappiamo di fronte al pericolo, e nello stesso modo di fronte al dolore. E non lo dico con disprezzo. Mi preoccupo solo della rimozione. Quella violenza che ci hanno insegnato a non usare, dove finisce? Non la possiamo cancellare dal nostro codice genetico. Mi pare che a volte si metaforizzi. Non più nell’arte, oramai l’arte non ha più, mi sembra, la forza di accogliere un’istanza sociale. Ma nel sesso. Tutta la ritualità bdsm che sembra espandersi, uscire dai ghetti e conquistare insospettabili estimatori, è un teatro della violenza senza conseguenze. Peggio è quando, repressa nei rapporti quotidiani, rispunta cieca e sorda nel branco. Dove diventa guerra o guerriglia senza confini.
La fuga, un tempo riservata agli eletti (dal sacro al crimine) è oggi alla portata psicologica di chiunque. Farmaci psicofarmaci droghe alcol eccetera.
Poi c’è chi se ne va davvero. Non sono solo i cervelli a lasciare il paese, ma quelli che si rompono i coglioni di abitare un organismo la cui complessità richiede cure continue semplicemente per rimanere in vita, impossibile quindi da spingere in avanti. Se ne vanno i ballerini e i surfisti, gli apritori di bar sulla spiaggia e gli sconvoltoni un po’ mistici, se ne vanno i ragazzini dopo il liceo e molti amici arrivati a quarant’anni, perché non ce la fanno più. Trasferiscono la loro residenza in paesi dove non fa mai freddo, dove le case costano quanto una Smart. Oppure si buttano nella mischia, nelle grandi metropoli giovanissime, a cercare di diventare ricchi dove è più facile.
Molti di quelli che restano non lo fanno per adesione a un principio di identità, ma per una naturale difficoltà a fare progetti imponenti. Per loro, per me, esistono i non-luoghi, piccole fughe reversibili, alla portata di chiunque.
Sono andata all’outlet di Castel Romano e ho pensato che se fossi stata presa dal panico del vivere in una città nel mirino dei terroristi, avrei potuto trasferirmi lì.
Costruirmi una cuccia da qualche parte. Forse nel negozio di Dolce & Gabbana, tra le montagne di abitucci anni Novanta – borse e giubbotti con le frange, scarpe di mucca, stivali da squaw – in vendita al trenta per cento di sconto. Una vera tentazione. Tanto che, se non fai attenzione, rischi di ritrovarti seduta in macchina a contemplare con un certo imbarazzo la tua nuova minigonna in pelo di gnu, acquistata a un prezzo favoloso. Utilissima nel caso uno voglia vestirsi da Cher per una festa in maschera. O il tailleur rosa, identico a quello indossato nel 1988 da Melanie Griffith in Una donna in carriera.
La notte, avvoltolata tra quelle sottovesti col pizzo che pubblicizzava Monica Bellucci quando ancora abitava a Città di Castello, sognerò un Boeing 747 che infilza la terra e la luna in un unico spiedino e gli unici superstiti saremo io e le altre persone previdenti che si trovavano all’outlet di Castel Romano.
Oppure potrei trasferirmi nel museo. Ricavare una nicchia segreta dietro il busto di Giulio Cesare, o quello di Marco Aurelio (i quali entrambi indossano misteriosamente, sul solito gesso, una toga rosso pompeiano e una corazza color patatina Cipster), sistemarci il computer e restare lì per sempre a lavorare. E chi fosse scampato alla pestilenza di antrace potrà scrivermi al nuovo indirizzo <infocastelromano@b-m-g.it>. Di notte, quando i visitatori se ne andranno, mi aggirerò nella sala grande, dove sono esposte le fotografie che ritraggono gli altri outlet McArthur Glen del mondo. Quello olandese è il mio preferito, con le forme dei mulini a vento che si stagliano nel profilo delle mura.
Questo di Roma è l’ultimo nato. In Italia c’era un outlet a Serravalle Scrivia, vicino a Genova, progettato per accogliere «la suggestione architettonica di un centro storico del Settecento ligure» e un altro aprirà a Barberino di Mugello, «in un’area di grandi opportunità dove gravitano oltre 7 milioni di persone con un reddito pro capite superiore alla media». Questo messaggio, che si trova sul pieghevole, non è ovviamente diretto a noi compratori di minigonne di gnu, ma agli affittuari dei negozi. I quali devono sapere che il motivo per cui gli affitti costano come a piazza di Spagna è che nell’outlet si vende come, e forse di più, che a piazza di Spagna.
Attaccata allo svincolo dell’autostrada del Sole verrà quindi costruita New Montalcino, un borgo medieval-americano senza problemi di parcheggio, dove, al posto dei maniglioni per legare i cavalli, ci saranno gli sportelli del bancomat, perché il nostro shopping si trasformi «in un’esperienza assolutamente unica e coinvolgente».
Quando sono andata a visitare l’outlet, ancora non sapevo che sarebbe diventato il posto dove avrei potuto rifugiarmi in caso fossi colpita da ptsd. Sapevo che sarei andata a visitare «una vera e propria città, ispirata all’epoca augustea, che sembra uscire direttamente da uno scavo archeologico». Proprio così, in grassetto. Come dire: ve lo giuriamo, non ci crederete ma per quanto sia incredibile sembra uscire direttamente…
Io penso che la gente si sia lamentata. Che le persone, dopo aver parcheggiato, e attraversato l’arco di accesso alla «vera e propria città» che è una specie di Guantanamo della carta di credito, con i negozi le insegne luccicanti gli oggetti di design stile newyorkese e il bar uguale a quello dell’autogrill, devono aver cominciato a dirsi tra loro, a confidarsi coi commessi, che quel posto non sembra manco per niente uscito, direttamente, da uno scavo archeologico.
Per questo, secondo me, i responsabili dell’outlet hanno messo il cavallo. In fondo alla via dove c’è il museo dell’outlet, nella piazzetta che chiamerei, in mancanza di altre indicazioni, «piazza Dolce & Gabbana», hanno sistemato la testa di un cavallo in finto bronzo, ispirato ai guerrieri di Riace, che, vista riflessa nelle vetrine di Etro, nello stordimento di questa esperienza assolutamente unica e coinvolgente a livello di shopping, ha come scopo evidente quello di sembrare uscita direttamente da uno scavo archeologico.
Mentre me ne stavo seduta sotto la testa del cavallo di finto bronzo a piazza Dolce & Gabbana, si è avvicinato un uomo vestito di nero e ha chiesto ad Angelo, il fotografo, se aveva il permesso per fotografare. Non ce l’aveva. Ci siamo incamminati per via Golden Lady per raggiungere l’ufficio permessi. Solo allora mi sono accorta che davanti a ogni porta di accesso alla «vera e propria città» c’era un uomo vestito di nero, con l’auricolare e le mani allacciate davanti alla cerniera dei pantaloni, secondo l’iconografia standard dell’addetto alla security. E che anche dentro ognuno dei negozi, mimetizzato da uomo vestito di nero che guarda le cosce delle donne che si provano i tacchi, c’era un altro di quegli uomini. Che ce n’era uno dietro di me mentre facevo la fila per prendere il caffè, e un altro che mi osservava mentre, sfidando un cartello secondo il quale nessuno che non fosse accompagnato dai genitori poteva varcare quel cancello, varcavo quel cancello e mi facevo un paio di scivoli. E che in qualche zona, considerata evidentemente obiettivo sensibile della «vera e propria città», c’erano tre, quattro uomini vestiti anche loro di nero, ma con la pistola e un piccolo kit robocop che faceva la sua porca figura. Nel caso uno volesse fare il furbo, voglio dire.
Ottenuto il permesso, io e Angelo ci siamo riseduti su una panchina a chiacchierare con una ragazza veneta molto gentile, che era stata mandata qui dalla sua azienda per completare l’assunzione di personale per il negozio. Ci stava raccontando che era sbalordita dal fatto che a Roma le persone non si presentassero ai colloqui di lavoro, o arrivassero tardi. E che alle tre del pomeriggio di un giorno qualsiasi della settimana fossero così numerosi a passeggiare tra i negozi. E in effetti intorno a noi, a viale Calzedonia angolo vicolo Benetton, c’era davvero tanta gente per essere un giorno lavorativo. In quel momento esatto un altro uomo vestito di nero con l’auricolare, identico a quello di prima, ci si è avvicinato e ci ha chiesto se avevamo il permesso per fotografare.
È stato in quel momento che ho preso la mia decisione. Rimanete pure a godervi il folklore di Trastevere, l’atmosfera stimolante di piazza Vittorio, le passeggiate di Villa Ada. Io, alla prossima crisi di ansia, mollo tutto e mi trasferisco all’outlet di Castel Romano. E non fate che quando vedete arrivare il Boeing puntato contro il Vaticano pigliate tutti la macchina e vi scaraventate sulla Pontina. Noi, all’outlet, alzeremo il ponte levatoio.
…Per me che vengo dalla città delle eccezioni, l’attuale genericità della «lingua romana» è sempre stata un sollievo. Tutti parlano come tutti, perché tutti parlano romano. Roma è l’Italia, almeno dal punto di vista lessicale.
L’unica parentesi, nella lunghissima supremazia linguistica del romano, è rappresentata dai due governi Berlusconi. Nel marzo del 1994, il partito-azienda dell’uomo più ricco d’Italia conduce alla vittoria elettorale il Polo delle Libertà e il Polo del Buon Governo contro la gioiosa macchina da guerra pilotata da Achille Occhetto. Il Polo delle Libertà e il Polo del Buon Governo, oltre a Forza Italia, contengono: Alleanza Nazionale, il Centro Cristiano Democratico di Pierferdinando Casini e, è bene ricordarlo, Clemente Mastella (attuale ministro della Giustizia nel governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi), Lega Nord e Unione di Centro (quello che resta del Partito Liberale, agli ordini di Raffaele Costa). Nel maggio di quell’anno Silvio Berlusconi presenta il suo governo nel quale spicca, anche questo è bene ricordarlo, Cesare Previti come ministro della Giustizia. Forza Italia, il partito del presidente, era nato ufficialmente soltanto due mesi prima. È infatti del 26 gennaio 1994 il discorso a reti unificate col quale annuncia la sua discesa in campo («L’Italia è il paese che amo…»). La Lega Nord, federazione di vari movimenti autonomisti alle dipendenze di Umberto Bossi, era nata invece l’8 febbraio 1991, ma manteneva un’ostinata antiprofessionalità politica come blasone. In parlamento, con le elezioni del 1994, entra quindi una schiera di neofiti, totalmente digiuni di linguaggio, rituali e abitudini ampiamente rodati dalla classe politica del secondo dopoguerra. Una calata di «barbari» che parla un dialetto diverso, veste in maniera diversa, si pettina e mangia in maniera diversa. Nei telegiornali, nei talk show, perfino nei film dei Vanzina, gli accenti si moltiplicano, e il romano, per la prima volta, arretra.
Si raccontano leggende su quella calata. Quasi tutti maschi, improvvisamente ricchi e potenti, ubriacati dall’impunità, molti di loro vedevano Roma come una specie di Las Vegas, capitale del vizio e del divertimento. Mentre le famiglie li aspettavano in qualche provincia lombarda o veneta, loro folleggiavano e davano sfogo a istinti e passioni. La metà della settimana che trascorrevano a Roma doveva essere sfruttata fino in fondo.
«Dopo che io prendo una decisione», dichiara infatti Berlusconi, «inizia il confronto con gli alleati e poi una volta che è stata presa una decisione comune dalla coalizione bisogna andare in commissione e poi in aula. Tutto ciò richiede molto tempo. Poi tocca ai senatori che devono dimostrare di non venire a Roma solo per avere un’amante e quindi cambiano una norma e tutto ricomincia da capo. Tutto questo richiede moltissimo tempo». E ancora: «Oltre i quattrocento chilometri di distanza, l’amante non conta. Come si dice a Napoli, in questi casi ’a commare nun è peccato».
Oltre i quattrocento chilometri. Anche la morale ha una portata, un raggio di azione. Più si allontana dal centro, più decresce in intensità fino a scomparire del tutto una volta varcato il confine. Chissà se in qualche dialetto del nord è comparsa l’espressione «andare a Roma» col significato di ubriacarsi, o scopare, o magari pagare una squillo. Gli anni Novanta sono stati gli anni delle vallette e dei ristoranti di lusso, mentre i trolley scorrevano su e giù per i sanpietrini.
Il primo governo Berlusconi, quello dell’armata Brancaleone, è durato otto mesi. Nei sei anni successivi, prima della seconda vittoria nel 2001, il cavaliere deve essersi occupato del problema. La seconda ondata, pur avendo lo stesso accento, aveva una diversa composizione antropologica. Per le mignotte, i gioiellieri, i ristoratori deve essere stato un brutto colpo.
Escluso Berlusconi, l’italiano è il romano.
Per questo motivo le parole che si usano a Roma non hanno mai quella presunzione di esattezza e nobiltà che hanno spesso negli altri dialetti. In questa città è passata troppa roba perché potesse essere mantenuta una qualsiasi purezza. Tranne la parola villa.
Come tutti sanno a Roma con villa si indica un parco. C’è anche la villa, certo, ma andare a Villa Ada o a Villa Pamphili significa andare a fare una passeggiata nel parco.
Per me che vengo dal nord, l’uso del sostantivo villa esattamente al posto di parco è un sintomo. Significa che Roma non è l’Italia ma una parte dell’Italia: il sud. Anche a Palermo, Catanzaro, Bari villa significa parco.
I non-luoghi ci piacciono perché si ha la sensazione che la vita, lì dentro, sia ferma. Il tempo immobile, i giorni identici. Dai non-luoghi la morte è stata espulsa, insieme a qualsiasi accadimento «verticale». Niente catene di eventi, ma singoli episodi. Comprare, prendere un aereo, entrare in autostrada. è diverso da mangiare, dormire, fare l’amore. Sono gesti che non servono a mandare avanti la vita, e se smettessimo di compierli non accadrebbe proprio niente.
I non-luoghi sono la rappresentazione architettonica della nostra epoca. Sono forme fisiche di precariato. Dove i fatti, così come i contratti che regolano il nostro mondo del lavoro, si accumulano in maniera casuale e soprattutto non possono essere compresi perché esclusi da una catena di senso.
Irredimibili. Un altro aggettivo che sarà piaciuto senz’altro a Cristina Campo e che spiega molto bene il concetto. Almeno fin quando non troveremo qualcos’altro di diverso dalla storia, dalla concatenazione di eventi, che ci assolva dall’assurdità della vita.
Opposti ma in qualche modo consustanziali ai non-luoghi sono gli orti botanici. Per niente moderni e veloci, del tutto estranei a una condizione di transito, sono però nello stesso modo inabitabili. Ma a differenza di qualsiasi museo, non sono contenitori di bellezza o di storia. Non c’è separazione tra quello che sono e quello che espongono. Una divisione territoriale li ha liberati dal brulichio delle residenze, li ha circondati con reti metalliche e provvisti di un botteghino all’entrata dove pagare un biglietto. Dando loro in questo modo la possibilità di cullare un tempo eccentrico rispetto alla vita. Se i non-luoghi ospitano un tempo orizzontale, spesso rapidissimo rispetto all’agenda del quotidiano, gli orti botanici sonnacchiano felici in una verticalità temporale profondissima, talmente profonda che rischia di essere scambiata per immobilità.
Nell’orto botanico di Roma, accanto allo scalone monumentale secentesco, vive un enorme platano vecchio di quattrocento anni, e nelle serre vengono cullati costantemente centinaia di germogli, profumate ipoteche sul futuro. Oggi, domani, domani l’altro sono parole senza valore in un orto botanico. Un po’ come sul pianeta Tralfamadore, quello di Mattatoio n. 5 di Vonnegut, dove tutto è sempre stato, è e sempre sarà. Dal quale le stelle sono viste non come lucette, ma come spaghetti luminosi, perché i tralfamadoriani vedono tutto contemporaneamente. E quindi, non dovendo fare i conti con cose tipo «sviluppo narrativo» o «coerenza dei personaggi», i libri tralfamadoriani sono basati sulla bellezza estetica. Gruppi di telegrammi da leggere tutti insieme e scelti perché producano un’immagine della vita che sia bella. Caleidoscopi. Proprio come le piante e i fiori.
Come quasi tutto in Italia, l’orto botanico di Roma sopporta l’imbarazzo di convivere con la bellezza, di doversi adattare a un palinsesto secolare di progetti. Le stesse piante sembrano affacciarsi con timidezza dietro la vasca dei tritoni del Padda, la serra Corsini, la fontana degli undici zampilli.
Gente come me, con un equilibrio psichico discutibile, ha l’abitudine, quando la nostalgia preme contro il cuore e tutto intorno diventa incomprensibile, di infilarsi in un orto botanico. In qualsiasi parte del mondo mi trovi, a Londra, a Bali, ad Auckland. Visito il roseto, il giardino giapponese, la serra delle piante grasse e mi rilasso, mi sento a casa. Poi mi siedo al bar, prendo un caffè e sono pronta ad affrontare di nuovo conversazioni in lingue assurde, Lonely Planet, insetti giganteschi e rognosissimi. Gli orti botanici, per me, sono come la Coca-Cola, un doppio cheeseburger di McDonald’s, l’insegna di Benetton.
Ma a Roma non funziona. E non è che non funziona con me perché vivo qui e i sollievi me li devo trovare nella mia vita. Non funziona perché, prima di tutto, all’orto botanico di Roma non c’è il bar. E non c’è neanche un negozio che venda libri costosi con foto di gladioli e paesaggi olandesi, servizi da tè decorati a roselline, gadget naturisti, kit in cuoio e ferro per il bravo giardiniere. Mancano i cappellini da baseball in testa al personale, i tabelloni con le spiegazioni (voi siete qui!) e le scritte in latino vicino alle radici delle piante.
Le scritte in realtà ci sarebbero, ma sono tutte sbrodolate dalla pioggia o divelte o messe in qualche punto talmente eccentrico che è impossibile associare significato e significante. Cinnamomum glanduliferum, leggo scritto in un punto del parco dove ci sono solo i miei piedi.
Io mi sono trasferita a Roma, da Firenze, circa vent’anni fa. Allora Roma era davvero la prima città del sud d’Italia. E non soltanto per me che venivo dal nord. Era una città del sud perché tutto quanto funzionava secondo standard leggermente al disotto della soglia minima, in una misura lieve ma che era profezia per l’ulteriore discesa a meridione. Perché esisteva la possibilità di accordarsi al di qua delle regole, mettendo in atto teatrini verbali per i quali a nord non avevamo alcun talento, considerandoli, oltre che inaccessibili, del tutto inefficaci.
Ricordo con chiarezza la prima volta che osai contrattare con un vigile per una multa. Dovetti superare l’imbarazzo che prova una ragazza bionda abituata a non usare in alcun modo la sua biondezza nei confronti di un uomo e, più ancora, la paura di sbagliare. Quella che spinge il turista bresciano a offrire dollari al cubano sbagliato, e a doverne poi subire il disprezzo e la ramanzina castrista e antiamericana. Timidamente chiesi al vigile di soprassedere su una mia manovra azzardata, giurando che non lo avrei fatto mai più. Lui mi ascoltò, poi si girò dall’altra parte e mi graziò.
Che meraviglia! Non mi sarei mai più lamentata del traffico, degli autobus, delle macchine in doppia fila. Roma era meravigliosa. Qualunque prezzo da pagare in cambio di quella libertà che avevo appena sperimentato non sarebbe stato troppo alto. E mentre trotterellavo sulla mia vespetta mi venne in mente di quella volta che in piazza del Duomo, a Firenze, fui multata perché portavo un’amica sulla canna della bicicletta. Mai più, mai più!
L’ultima volta che ho avuto la possibilità di mercanteggiare con un vigile è stato a metà degli anni Novanta. Con la mia vespetta e un’enorme borsa tra le gambe, avevo attraversato mezza città collezionando un numero impressionante di infrazioni. A un certo punto ero passata col rosso e avevo imboccato una strada contromano salendo sul marciapiede. Un vigile mi fermò.
Dallo sguardo capii che probabilmente mi seguiva da un pezzo. Me ne sto andando di casa, gli dissi, vede, in questa borsa ci sono tutte le mie cose. Mi sono lasciata col mio compagno, dopo dieci anni. Parlavo e lui non diceva niente. Quando mi sono tolta gli occhiali si è accorto che piangevo. Mi ha fatto segno di andare, ma io non ce l’ho fatta. Sono rimasta lì, piegata sulla mia vespetta per chissà quanto, pensando ai fallimenti e alle città.
Subito dopo è iniziato il terribile quinquennio del risanamento economico dei bilanci comunali per mezzo della sanzione indiscriminata all’automobilista o scooterista. Anni nei quali la falce si è abbattuta pesantissima sui romani, e le suppliche hanno perso la loro potenza, come amuleti scarichi. Molti di noi, io per esempio, subiscono ancora le conseguenze di quegli anni di terrore sotto forma di cartelle esattoriali che si ripresentano puntualmente a scadenze irregolari. Non credo che riuscirò mai più a mettermi in pari con i pagamenti. Sarò per sempre in balìa del Monte de’ Paschi di Siena, perfido e impietoso riscossore, pappone che incassa senza batter ciglio ogni mio risparmio nascosto nella borsetta.
La stagione della tolleranza zero, resa micidiale dal contemporaneo crollo verticale della pietà introdotto dagli arzilli ausiliari del traffico, fu il sintomo di un cambiamento che stava avvenendo carsicamente nella città, nel sottofondo delle strategie dei sindaci, nella mentalità di chi evidentemente era pronto a investire. Il mondo si stringe e il sud si ritira. Cambio di rotta: Roma deve diventare la prima città del nord. Solo in questo modo sarebbe diventata redditizia.
Le estati romane si sono trasformate in divertimentifici impressionanti, quel po’ di tregua dal dover fare e dover andare che ossessiona i residenti si accorciava anno dopo anno. Perfino agosto, che sembrava inattaccabile, cominciava a cedere. Fin quando non era rimasto che un pugno di giorni a cavallo di ferragosto, nei quali era possibile provare l’angoscia preziosa dello spaesamento nella città vuota. Alla fine degli anni Novanta Roma era pronta per il grande balzo: diventare la Parigi del Mediterraneo.
Quando mi trasferii a Roma, circa vent’anni fa come dicevo, oltre alla possibilità di contrattare con l’autorità e una certa allegra disfunzionalità di quasi tutto, ciò che la rendeva veramente una capitale del sud erano i prezzi. Tutto costava meno che al nord. Fare la spesa, affittare una casa. Avevo amici che venivano a Roma a comprare scarpe e vestiti, come si andava in Svizzera a fare il pieno alla macchina. Il paragone con Firenze era impressionante. In questa incasinata Calcutta si campava con poco e si poteva abitare ancora al centro, come i poeti e gli artisti negli anni Sessanta.
Non è più così. Gli artisti e i poeti si stanno spostando verso la periferia. I ristoranti, le case, i vestiti hanno prezzi settentrionali. Ogni giorno possiamo scegliere tra decine di mostre, concerti, presentazioni di libri. Abbiamo la Casa del jazz, quella del cinema, della letteratura, del teatro… questa, per la verità, non è altro che una casupola in mezzo a Villa Pamphili, inutilizzabile e inutilizzata, dove qualche scriteriato organizza ogni tanto letture alle quattro del pomeriggio: raramente ho visto qualcosa di più deprimente di una sala da dieci posti vuota. Povero teatro. Ma c’è il Teatro Argentina, il Teatro Valle, il Teatro India, il Teatro Eliseo, la Sala Zero, la Sala Uno, il Teatro Due. Le domeniche a piedi, i lunedì a teatro, il mercoledì con lo sconto al cinema, le notti bianche e il maggio dei teatri. Stanno aprendo anche i bookshop nei musei, e ci sono i doppi pullman scoperchiati per i bambini, quelli per i turisti cattolici, e per chi è interessato all’archeologia.
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Verrà presto il tempo anche dell’orto botanico, della sua parigizzazione per essere a norma. Faranno il bar, e anche il bookshop con i gadget, le tazze, i cappellini, le parannanze per cucinare e le borse flosce, tutti con la scritta: Roma’s Orto Botanico. E quando ci entrerò per la prima volta, io mi lamenterò. Lo so, dirò che era meglio prima, quando era lasciato a se stesso, quando non somigliava agli altri orti botanici del mondo.
Perché sono una stronza. Perché se il mondo diventa tutto uguale, io ho meno paura a sbarcare dall’aereo in Medio Oriente o in Nigeria, ma dove sto io deve essere diverso.
Sono stronza perché, come gran parte degli occidentali, contribuisco alla creazione del mito del nulla e dell’uguale, amandoli, ma fingo di apprezzare il particolare, di trovar gusto nell’impervia scoperta del pittoresco. Ma è falso. La verità è che io amo le Nike, perché le Nike sono meglio. Sono meglio forse solo per i primi quindici giorni, e poi si rompono. Ma pochi di noi, e tra questi non ci sono io, sono in grado di apprezzare qualcosa per un tempo superiore a quindici giorni.
A mezzogiorno viene sparato il colpo dal cannone del Gianicolo. Elisabetta, la botanica, mi racconta a lungo delle orchidee. Macchine biologiche perfette, ermafrodite, geneticamente all’avanguardia. Ogni fiore possiede organi sessuali femminili (gineceo) e maschili (androceo), riuniti in un corpo solo detto ginostemio. Per molto meno noi umani facciamo anni di psicanalisi. Il nome viene da orchis, orcheos che in greco significa testicolo. Per quelle pallette che alcune di loro mostrano sotto il fiore. Dalle quali si ricavava una sostanza ovviamente afrodisiaca detta Salep. Ma che la vaniglia, quel baccello nero e magro, fosse il frutto dell’orchidea, questo proprio non lo sapevo. Di un tipo di orchidea originaria del Messico e importata in Spagna dai conquistadores.
La Darwin’s Star è invece un’orchidea che ha una storia bellissima. Deve il suo nome a Charles Darwin (e alla sua bizzarra forma a stella), il quale in Madagascar la identificò, e ne studiò con attenzione il lungo serbatoio che aveva dietro. Voleva capire come diavolo faceva per essere impollinata. Ci sono, disse un giorno: il suo cuore, decretò, deve essere raggiunto da un animale con una proboscide lunga decine di centimetri, qualcuno che sia fatto apposta per lei. Lo presero tutti per il culo. Non c’è un animale simile, un insetto con un naso sottile come un ago e lungo decine di centimetri. Te lo immagini?
E invece c’era. Lo identificarono solo quarant’anni dopo. Si chiama Xanthopan morganii praedicta, vive in Madagascar, e ha un’appendice lunga e stretta, così lunga da calzare perfettamente il serbatoio dell’orchidea a stella.
Non è questo che ci ripetiamo tutti quanti dalla mattina alla sera con inspiegabile ottimismo? Ci deve essere un animale le cui caratteristiche si attagliano alla mia deformità. E in fondo quarant’anni sono un tempo ragionevole per trovarlo.
Ho incluso Ikea nel numero dei non-luoghi di Roma. L’ho fatto perché i negozi Ikea sono identici nel mondo, sono difficili da raggiungere, e perché sono sicura che Marc Augé stava pensando a Ikea quando ha creato la sua definizione.
Non lo so come fanno quelli che dicono che noia questa giornata, perché non andiamo da Ikea?, e poi ci vanno. Io se voglio andare da Ikea senza avere un crollo psichico ho bisogno di prepararmi almeno per una settimana. Devo fare namiorenghecchiò soltanto per riuscire ad affrontare la questione dello svincolo dal raccordo, che se vieni da sud tanto tanto, ma se arrivi da Tiburtina entri in un ginepraio pauroso. Le frecce sono minuscole in confronto all’immensità di ciò che indicano. Perché?
È la filosofia Ikea. Ce la puoi fare. Sforzati, aguzza lo sguardo e l’intelligenza. E i clienti di Ikea, quando finalmente parcheggiano, sentono un po’ di aver superato il primo esame. Io almeno mi sento così. Tutto è possibile, gridano i cataloghi di Ikea: sistemare tre letti a castello in quindici metri quadrati, arredare la casa da cima a fondo con uno stipendio da insegnante, ricavare un vano cucina dietro la vasca da bagno…
Però, il mondo Ikea ha le sue regole. Appena entri ti trovi davanti allo Småland, che a causa del cerchietto capisci subito che è una parola svedese, ma poi non la sai pronunciare perché nella nostra lingua non c’è modo di pronunciare un cerchietto se non dicendo «cerchietto». Lì, compilato un modulo, devi abbandonare tuo figlio, novello Buchettino, nella foresta misteriosa. In questo modo, mentre lui razzola in una marana di palle di diverso colore, o si riposa dentro uno zoccolo di legno grande come una Smart, potrai andartene in giro con il tuo sacchettone giallo sotto il braccio. Qualcuno i figli se li porta dietro, ma nel mondo Ikea è un po’ una figuraccia.
La cosa diabolica è che a illustrarmi l’utilità dello Småland sono tre ragazzi di vent’anni con piercing e tatuaggi, che tracannano birra al magnifico bar svedese del primo piano. E senza alcuna ironia. Li avevo avvicinati perché sentivo arrivare la crisi da inadeguatezza. Intorno a me, da ore, avevo soltanto donne incinte e coppie sorridenti che si tenevano per mano. Avevo notato che la popolazione di Ikea è composta al cinquanta per cento da uomini, dato questo che non solo è imparagonabile con quello di qualsiasi altro negozio, ma che supera addirittura quello della media della popolazione mondiale. E ognuno di loro, uomo o donna, ha un progetto. Se si potesse sfruttare l’energia che viaggia per i corridoi di Ikea, il fremito di speranza, di attesa per una vita nuova tutta da arredare con librerie in faggio e portautensili di alluminio, potremmo rinunciare alla benzina, e magari evitare di bombardare per l’ennesima volta, inutilmente, un paese a caso tra quelli produttori di petrolio. È una specie di utero sempre gravido di domani. Cioè il posto giusto dove tentare il suicidio nel caso le tue aspettative per il futuro si limitino alla speranza di sopravvivere solo un altro po’, abbastanza da vedere una donna presidente della Repubblica, o leggere il prossimo libro di Philip Roth.
Ecco perché avevo avvicinato quei ragazzi, perché pensavo che anche loro si sentissero così. Che mi dicessero che vengono da Ikea solo per rimorchiare le svedesi, per far l’amore nei letti di faggio quando si voltano le commesse, per tirarsi dietro le polpette ai mirtilli. La signora Rossi è attesa da suo figlio Mario allo smolend, la signora Rossi… smolend, ecco come si pronuncia, proprio come in inglese e infatti vuol dire piccolo paese. Io guardo i tre ragazzi e sorrido, penso adesso facciamo una bella battutaccia su questo paradiso terrestre che va bene per gli svedesi ma qui, dove i bambini lasciati nelle foreste urlano come aquile, ci vuol altro che uno zoccolone di legno grande come un’automobile per trasformare il caos del mondo in un catalogo di prelibatezze. Adesso ce ne andiamo, noi, adesso usciamo da questo piccolo paese idiota e andiamo di nuovo a comprare i letti, le sedie, le cucine a gas nei negozi dell’usato o a Porta Portese, come abbiamo sempre fatto.
E invece loro il letto lo comprano qui. Perché costa meno e si può provare.
Ed è divertente. Allora faccio anch’io quello per cui tutti sostengono valga la pena di venire qui, sfidando traffico e chilometri: vado a provare le stanze. Mi butto sui letti, mi siedo a tavola di cucine stile country, fingo di battere i tasti di computer in ipotesi di ufficio, mi guardo negli specchi di bagni vezzosi. Entro ed esco da vite possibili, senza fare alcuno sforzo per inventarle. E intorno a me decine di persone fanno la stessa cosa. Mentre mi spaparanzo su un matrimoniale con spalliera mi volto e trovo un uomo accanto a me. Ci guardiamo e in quel momento siamo marito e moglie. Ma la moglie, quella vera, ci raggiunge come un falco e, seppure impedita dalla gravidanza avanzata, si riprende lo sposo tirandolo per un braccio. Dentro Ikea una cosa come questa è imperdonabile. Perché Ikea è peggio della vita. Nella vita si tradisce, si perde tempo, a volte ci si abbandona alla disperazione. Qui si marcia come soldati dell’esercito della felicità, e guai a disertare. E questo, se io fossi Philip Dick, sarebbe l’inizio per un altro spaventoso e bellissimo romanzo.
Da: http://www.minimaetmoralia.it/wp/elena-stancanelli-roma/
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