Quando tutti facevano finta di essere di
sinistra, anche il neoministro Padoan giocava a fare il marxista. No
problem: è legittimo cambiare. La domanda (da rivolgersi a chi si
sente orfano del Bottegone) è un'altra: come mai il PCI di
Togliatti-Berlinguer ha partorito queste mostruosità (e non parliamo
ovviamente solo di Padoan).
Sergio
Cesaratto
Il ministro
Padoan oltre Keynes. Nel '75
Il
neoministro dell'Economia Piercarlo
Padoan era ben presente nel dibattito economico
della sinistra dei caldi anni '70. Nel 1975 Critica
marxista pubblicò una sua relazione dal
titolo impegnativo, «Il fallimento del
pensiero keynesiano», che riassumeva
il lavoro di un gruppo di giovani economisti
costituito presso l'Istituto Gramsci sul tema
«Limiti del dirigismo e fondamenti
teorici della politica delle riforme». Anche il
manifesto aveva dedicato grande attenzione
al tema già col dibattito «Spazio e ruolo del
riformismo» pubblicato come volume nel
1973. Un numero successivo di Critica
Marxista ospitò una nota critica di
Giancarlo De Vivo, un acuto economista
della scuola di Sraffa e Garegnani, e la replica dello
stesso Padoan.
La relazione
di Padoan ripercorre gli elementi della teoria
di Keynes e delle successive
interpretazioni, sia quelle volte a
ricondurlo nell'alveo della teoria
tradizionale, che quelle più radicali.
Le conclusioni circa il perdurare del
successo delle politiche keynesiane
a fronte delle turbolenze degli anni '70 sono però
piuttosto negative. Sebbene si
riconosce l'efficacia delle politiche di
sostegno alla domanda aggregata per la piena
occupazione, ottenute in particolare
attraverso aumenti salariali, la relazione
afferma che all'aumento della domanda «non corrisponde
però sempre un adeguamento della struttura
produttiva (una volta raggiunto il tetto
della capacità produttiva esistente,
oppure anche prima, se si tiene conto di strozzature
dovute alla presenza di monopoli o di posizioni
di rendita) e si hanno così dei persistenti
fenomeni inflazionistici».
Portato
della piena occupazione, si aggiunge, è una
«situazione di conflittualità» che
produrrà «continue tensioni dovute
alle risposte delle imprese alle rivendicazioni
operaie per tentare di ricostituire i
margini di profitto tramite aumenti di prezzo
alimentando ulteriormente il processo
inflazionistico». Avendo la disponibilità
di mercati garantiti dal sostegno della
domanda da parte della spesa pubblica, le imprese
rispondono «non con aumenti della produttività
tramite innovazioni ed investimenti
tesi ad aumentare l'offerta, ma con l'aumento dei
prezzi ...L'inflazione quindi, oltre che come potente
strumento redistributivo, si poneva come
drammatica elusione dell'esigenza di un
allargamento della capacità produttiva
...che la lotta della classe operaia per una migliore
soddisfazione dei bisogni andava sempre
più affermando».
Padoan sembra
pessimista circa la possibilità
di regolare il conflitto attraverso la
politica dei redditi evocando le tesi di
Kalecki (citato nel corpo della relazione) secondo cui
solo un'elevata disoccupazione è in grado di
disciplinare e regolare il conflitto
sociale. Più che in direzione di una prospettiva
socialdemocratica, le conclusioni
di Padoan puntano così a un «superamento
dell'ordinamento capitalistico». Infatti le
politiche keynesiane di piena
occupazione condurrebbero a «delle
tensioni insostenibili per il sistema
capitalistico» incompatibili
«con il quadro democratico». Quindi non
resta che fuoriuscire dalla «logica keynesiana
(cioè borghese)».
Accanto a un'eco
kaleckiana qualcuno potrebbe anche leggerne
una amendoliana nel ritenere le lotte
operaie in fondo sovversive dell'ordinamento
capitalista e democratico e
l'inflazione come anticamera del fascismo. La
prospettiva amendoliana, si badi, è
stata in Italia spesso confusa col riformismo
(socialdemocratico) il quale, al
contrario, riteneva gli avanzamenti
dei lavoratori perfettamente
compatibili con un'economia di mercato
regolata (sui temi del mancato riformismo
in del Pci rinvio al magistrale Paggi e
D'Angelillo, I comunisti italiani e il
riformismo, Einaudi 1986). Padoan e compagni
non sembrano tuttavia indicare come via
d'uscita l'accettazione delle compatibilità
che portò di lì a poco alla svolta dell'Eur, ma un'uscita
più di sinistra, anche se solo genericamente
evocata. La prospettiva di un riformismo
forte è comunque assente.
Nel suo
commento critico De Vivo attacca Padoan
soprattutto per la lettura riduttiva di
Keynes che lo accumunerebbe alla teoria
neoclassica dominante in uno snodo
fondamentale: "Secondo la relazione,
uno degli «elementi fondamentali della
'visione' keynesiana» sarebbe «l'incompatibilità
tra consumo e accumulazione, per cui se
si vuole consumare si deve rinunciare ad
accumulare e viceversa". Per rompere
le ambiguità di Keynes in merito, De Vivo
propugna la proposta di Garegnani
di liberare Keynes dai «lacci e lacciuoli»
neoclassici in una direzione che spieghi
pienamente i livelli di produzione sulla
base della domanda affettiva guidata da salari e
consumi pubblici sia nel breve che nel lungo
periodo.
La replica di
Padoan è su linee molto tradizionali. Egli
riafferma la tesi marginalista che
«nel lungo periodo la disponibilità di
risparmio (cioè di ricchezza sottratta al
consumo) diventa rilevante al fine delle
possibilità di crescita del sistema
economico.» E aggiunge che in quel frangente
storico in cui l'industria italiana necessitava
di una ristrutturazione qualitativa,
i risparmi rivestivano un ruolo
particolarmente essenziale.
L'incompatibilità delle lotte operaie che aveva sopra
assunto un'eco marxista e kaleckiana appare
qui molto più tradizionalmente
riferita alla teoria dominante (il che
potrebbe avvalorare una contiguità con
l'anima amendoliana). Comunque, Padoan
nuovamente conclude ribadendo la
«prospettiva di una fuoriuscita dal
capitalismo» (non estranea peraltro
all'amendolismo sebbene rimandata a data da
destinarsi).
Quello che
emerge da queste pagine, qui frettolosamente
richiamate, sono le aporie in cui si sono
dibattuti il Pci e le sue successive
metamorfosi e i suoi intellettuali di
spicco, fra una voglia di socialismo, sempre
più affievolitasi sino a scomparire,
e un fondamentale riconoscersi
nelle compatibilità della teoria
economica dominante, con qualche molto
pallido (quasi invisibile) spunto
keynesiano. Questo modo di porsi è molto
lontano da quello di Myrdal e degli
intellettuali nordici che hanno visto nel
conflitto sociale ben regolato l'humus del
progresso. È vero pure che la borghesia
italiana, da Bava Beccaris a Berlusconi
passando per Piazza Fontana ha sempre
ostacolato un processo di maturazione
della sinistra italiana nel senso di un vero
riformismo (di nuovo v. Paggi e D'Angelillo).
Una traccia
di quelle aporie sono probabilmente
riconoscibili anche nel Padoan dell'oggi che,
se da un lato non si esime dal recitare il mantra
sulla necessità del riaggiustamento dei
conti pubblici e delle «riforme strutturali»,
dall'altro più realisticamente (e da
buon economista) sa che i problemi sono
di domanda aggregata e scrive che più inflazione
nei paesi europei in surplus commerciale
sarebbe auspicabile – si vede che anche lui ama
qualche volta sognare. Buona fortuna, comunque.
il manifesto - 27
Febbraio 2014
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