Cristina Trivulsio di Belgiojoso
il pezzo che segue:
La repubblica romana e Cristina Trivulsio Belgioioso
La Repubblica Romana del 1849 (nota anche con la denominazione di Seconda Repubblica Romana, per non confonderla con quella di epoca napoleonica) fu uno stato repubblicano sorto in Italia durante il Risorgimento a seguito di una rivolta interna che nei territori dello Stato Pontificio estromise Papa Pio IX dai suoi poteri temporali. Fu governata da un triumvirato composto da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini ed Aurelio Saffi.
La piccola repubblica, nata nel febbraio 1849 a seguito dei grandi moti del 1848, che coinvolsero tutta Europa, ebbe, come questi ultimi vita breve (5 mesi, dal 9 febbraio al 4 luglio) a causa dell’intervento militare della Francia di Napoleone III,
che per convenienza politica ristabilì l’ordinamento pontificio, in
deroga ad un articolo della costituzione francese. Tuttavia quella della
Repubblica Romana fu un’esperienza significativa nella storia
dell’unificazione italiana (che rappresentava l’obiettivo della
Repubblica), vide l’incontro e il confronto di molte figure di primo
piano del Risorgimento accorse da tutta la Penisola, fra cui Giuseppe Garibaldi e Goffredo Mameli. In quei pochi mesi Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d’Europa a banco di prova di nuove idee democratiche, ispirate principalmente al mazzinianesimo, fondando la sua vita politica e civile su principi (quali, in primis, il suffragio universale maschile; il suffragio femminile in realtà non era vietato dalla Costituzione, ma le donne ne restarono escluse per consuetudine; l’abolizione della pena di morte e la libertà di culto), che sarebbero diventate realtà in Europa solo un secolo dopo.
La Costituzione della Repubblica Romana fu approvata il 3 luglio 1849, mentre l’esercito francese assediava Roma per riportare Pio IX sul trono. Il documento originale (con le firme autografe dei deputati dell’Assemblea Costituente), dopo la caduta della Repubblica, fu conservato da Giovanni Pennacchi, rappresentante alla Costituente per la provincia di Spoleto, e, dopo la sua morte nel 1883, fu depositato presso la Biblioteca Augusta di Perugia, dove è attualmente custodito.
L’elaborazione
della carta costituzionale fu opera di una commissione apposita e venne
presentata per essere discussa a partire dal 17 aprile 1849 dal deputato Cesare Agostini.
Si tratta di uno dei documenti costituzionali più democratici e laici
per i tempi in cui fu scritto. L’innovazione più importante e
significativa è quella che sopprime la condizione privilegiata della religione cattolica come religione di Stato, e afferma il principio per cui la fede religiosa è irrilevante per l’esercizio dei diritti civili e politici.
Il testo è costituito da otto paragrafi di principi fondamentali e da
sessantanove articoli raggruppati sotto otto titoli più alcune
disposizioni contingenti contenute negli articoli 65-69. Si tratta,
dunque, di un testo breve, di principi e norme di carattere generale,
formulati per lo più in modo limpido e con termini semplici: una
costituzione in gran parte valida per il secolo successivo, almeno nelle
sue linee essenziali. Infatti, la Costituzione della Repubblica Romana
del 1849 è molto simile alla Costituzione della Repubblica Italiana del 1948.
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA
(1849)
Principii fondamentali
I – La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica.
II – Il regime
democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. non
riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.
III – La repubblica
colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle
condizioni morali e materiali di tutti i cittadini.
IV – La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana.
V – I Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato.
VI – La più equa
distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia
coll’interesse politico dello stato è la norma del riparto territoriale
della repubblica.
VII – Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici.
VIII – Il Capo della
Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie
per l’esercizio indipendente del potere spirituale.
La Repubblica Romana e l’intervento di Cristina Trivulzio Belgioioso
Il
20 aprile viene costituito un Comitato di soccorso ai feriti: ne fanno
parte Enrichetta Di Lorenzo compagna di Carlo Pisacane, la marchesa
Giulia Paulucci e un sacerdote liberale, padre Alessandro Gavazzi.
Cristina è nominata direttrice delle ambulanze militari. E’ la prima
volta nella storia che un simile incarico viene affidato ad una donna e
la principessa si dimostrerà pari all’impresa grazie al suo dinamismo,
al suo talento di organizzatrice, al suo spirito riformatore. In effetti
queste tre qualità sono necessarie per riuscire nell’iniziativa.
Cristina denuncia gli infiniti abusi riscontrati negli ospedali, ma non
si limita solo a questo. Realizza un’idea del tutto nuova e addirittura
rivoluzionaria. Crea l’assistenza infermieristica femminile laica, cioè le infermiere. Le
infermiere volontarie nascono con l’appello della principessa, e delle
altre signore del Comitato di soccorso, alle donne italiane perché
accorrano ad assistere i feriti della Repubblica. All’appello rispondono
numerosissime, senza distinzione di origine e classe, romane e
forestiere, aristocratiche e popolane. Lo slancio patriottico coinvolge
oneste matrone e prostitute di professione. La selezione è molto dura.
Solo trecento donne vengono impiegate. Naturalmente la presenza di
ragazze dai dubbi precedenti viene sfruttata dai polemisti reazionari.
La principessa risponde con una lettera fiera ed umanissima al
pontefice, nella quale difende l’operato di queste ragazze.
Richieste per migliorare gli ospedali
Cristina
non si preoccupa solo di arruolare infermiere, cerca di dare
all’assistenza infermieristica un assetto organizzativo definitivo.
Chiede ai cittadini triumviri di creare una casa centrale di assistenza
per istruire le infermiere a cura di direttrici e maestre ed educarle a
molta severità di costumi e regolarità di vita monastica. Cristina
inaugura i principi basilari scientifici della preparazione
infermieristica moderna e oltrepassando la sfera meramente tecnica
attribuisce alle direttrici e alle assistenti quelle funzioni che oggi
sono attribuite al servizio sociale degli ospedali: “Ella concepiva le
sue assistenti… come un necessario trait d’union tra i ricoverati
e il mondo esterno, perché l’infermo, segregato nel periodo di degenza,
non sentisse di essere avulso dalla vita e dagli interessi di ogni
genere che aveva dovuto abbandonare”. Cristina non esita a rivolgersi al
ministro della Guerra per reclamare il soldo dovuto ai feriti affidati
alle sue cure.
Problemi che gravano sugli ospedali
1. Mancano i fondi: il popolo contribuisce con molta generosità;
2. non ci sono gli strumenti chirurgici;
3. manca l’etere per lenire le sofferenze dei ricoverati;
4. i feriti decedono in preda ad atroci convulsioni;
5. non ci sono i letti per le vittime di fratture;
6. l‘incompetenza dei chirurghi sfiora il crimine
(da Donne e conoscenza storica)
I capitoli che seguono, tratti da “Padrona del mio cuore/Il coraggio e le passioni di una donna del Risorgimento”raccontano le vicende della Repubblica Romana, nata il 9 febbraio 1849, e il contributo che ad essa diede Cristina.
XXXV
Nella primavera del 1849, gli austriaci non lasciarono nemmeno che Carlo Alberto, alla vigilia del primo giorno di primavera, varcasse il Ticino, per tentare di riscattarsi dalla sconfitta di Custoza dell’agosto precedente. Lo bloccarono prima, con in testa il solito maresciallo Radetzky, penetrando in territorio piemontese e affrontando l’esercito sabaudo presso Novara. L’esito fu assolutamente infausto per il sovrano del Regno di Sardegna, che la sera stessa dell’epilogo drammatico di quell’appendice di guerra, a cui si era risolto per le pressioni dei democratici e l’intransigenza dell’Austria nel porre le condizioni di pace, decise di abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II, per non mettere in pericolo i destini della sua dinastia.
Il nuovo re non esitò a firmare il giorno successivo un armistizio con il nemico, mentre Genova, con in testa i democratici, si ribellava e doveva patire una durissima repressione da parte dell’esercito sabaudo.
Liquidata la faccenda, la restaurazione dell’ordine, la normalizzazione, secondo i più biechi principi autoritari e polizieschi, poteva ora avvenire nel resto della penisola. Fu il tempo del sangue, delle vendette, delle fucilazioni, delle disperate resistenze di popolo, vinte solo con combattimenti furiosi, come a Brescia, che, per il suo coraggio, si meritò l’appellativo di leonessa d’Italia.
Resistevano solo Venezia e Roma. Ed era soprattutto in quest’ultima che confluivano i resti dell’orgoglio patriottico italiano, i volontari provenienti da ogni dove per difendere quella repubblica che era stata proclamata il 9 febbraio, in pieno carnevale, anche se i romani quell’anno avevano ben altro da fare che mascherarsi, divertirsi e abbandonarsi agli eccessi carnascialeschi.
Cristina ritornava a Roma dopo un anno di assenza, ma adesso, all’atmosfera di festa e di esultanza popolare, per quello che sembrava promettere il ‘48, è subentrato un clima di attesa tetro e snervante.
Il papa si è rifugiato a Gaeta presso Ferdinando di Borbone e da lì lancia scomuniche a destra e a manca attizzando nella città eterna un anticlericalismo becero e grossolano, che il Governo Provvisorio fatica a tenere sotto controllo. Intelligentemente i nuovi governanti si sono affrettati a prendere iniziative popolari come l’abolizione della tassa sulla macinazione dei cereali, l’abrogazione di privilegi secolari o il pagamento di tangenti per ottenere appalti: ma sono gocce nel mare di una città stremata da secoli di malgoverno, alla quale, poco prima della ribellione, Pellegrino Rossi, chiamato in fretta e furia da Pio IX a calmare gli animi, aveva potuto offrire soltanto pillole di giustizia sociale e democrazia, pagando con la vita, di lì a poco, la rabbia e la delusione popolare.
Da parte sua, il pontefice, a Gaeta, si trovava tra l’incudine dei suoi cardinali più intransigenti, che lo spingevano a chiedere aiuto all’Austria e il martello dell’idiosincrasia nei confronti della “cattolicissima”, che provava dai tempi della sua gioventù, quando, discepolo della carboneria, aveva pronunciato contro di essa il suo giuramento massonico.
Tali istanze si scontravano dentro di lui provocando scintille di inconciliabilità tra il suo ruolo di capo spirituale di una chiesa universale e quello di papa-re, sovrano temporale di uno stato con precisi confini storici e geografici.
Nel frattempo tra i romani serpeggiavano sentimenti ambigui e altalenanti: a parte una minoranza di mangiapreti capeggiata da Ciceruacchio, che aveva “scomunicato lo scomunicatore”, la maggioranza continuava ad essergli, comunque, in qualche modo legata, come ad un padre autoritario e ingombrante, dal quale però non ci si riesce a staccare.
L’Assemblea, nata dalle elezioni del 28 gennaio, era formata in gran parte da moderati ma i pochi repubblicani che c’erano facevano il diavolo a quattro e fu proprio alla cerimonia inaugurale che il laconico eroe dei due mondi prese una volta tanto la parola e invitò a non perdere tempo e a proclamare seduta stante la repubblica.
La
proposta garibaldina, forse prematura, non fu accettata ma
paradossalmente fu proprio il papa, con la raffica di anatemi lanciati
qua è là, a persuadere anche i più restii a concludere che non c’era
alternativa all’invito di Garibaldi.
Per un singolare scherzo della sorte, il generale Oudinot, inviato da Luigi Napoleone in soccorso del papa, la principessa di Belgiojoso e i volontari milanesi che accorrevano a Roma per difendere la repubblica, giunsero contemporaneamente a Civitavecchia.
A Cristina, incredula, quel convergere nello stesso luogo e tempo, di individui con intenti opposti, apparve subito un segno del destino. Si rafforzò allora ancora di più nel suo proposito patriottico e combattivo, imponendosi nel frattempo di tenere a bada la collera montante contro l’ex amico carbonaro Bonaparte, che tentava ora un triplo gioco sul piano delle relazioni internazionali assicurando gli austriaci che andava a rimettere sul trono il pontefice, i piemontesi che interveniva per evitare che lo facessero gli austriaci, i romani che era mediatore tra il triumvirato e la corte papale.
Scendendo
dal postale insieme ai volontari lombardi, salutati da un capannello
festante di patrioti che, sulla banchina, sventolavano il tricolore e
gridavano: “W la Repubblica Romana, W l’Italia, W la Principessa!”,
Cristina alzò per qualche attimo lo sguardo verso il cielo per
inebriarsi di quel turchino che avvolgeva tutto d’una luce speciale. La
primavera svolgeva il suo compito malgrado i drammi e le insulsaggini
degli esseri umani e fioriva qualsiasi manciata di terra.. La
tentazione era abbandonarsi alla sua dolcezza come i topini alla musica
del pifferaio magico, ma era tempo di lotta
.
L’animazione sul porto era grande perché
si era diffusa la notizia che il corpo di spedizione francese, giunto da
poche ore, aveva occupato pacificamente la città e bloccava l’accesso
alle strade per Roma.
“Principessa, lo sapete che dalla Francia sono venuti anche volontari che vogliono combattere con noi contro i soldati di Oudinot?! Non è fantastico?…ma non li fanno passare!” le gridò l’uomo che teneva la bandiera e la brandiva come un’arma.
“Ma che si dice della situazione a Roma? Quanti sono a difenderla?” gli chiese lei a sua volta
“Ci sono emiliani, veneti, napoletani, liguri…” si infervorò l’uomo “ci sono anche stranieri: polacchi, svizzeri, ungheresi, inglesi, americani…”
“C’è tutto il mondo a difendere la nostra repubblica!!” aggiunse un altro
“E… chi guida i volontari francesi?” si informò infervorata Cristina, che si sorprese a pensare che i suoi articoli appassionati sui giornali parigini, i suoi interventi al parlamento francese, tutti i suoi sforzi insomma per far amare l’Italia anche ai cugini d’oltralpe, qualche frutto lo stessero dando.
“Sembra che li guidi un pittore, un certo Laviron…è tosto, è determinato”
“E Garibaldi?” azzardò lei
“Per ora la sua legione la tengono a Rieti…sapete, principessa, i garibaldini non hanno tutti una buona fama…c’è qualche furfante lì in mezzo…qualche tipo non proprio raccomandabile, lo stesso governo provvisorio non si fida completamente di loro… ma in battaglia non li batte nessuno…vedrete che presto li avvicineranno…”
Intervenne nuovamente il primo patriota che si era rivolto a Cristina appoggiandosi ora spavaldamente al tricolore come a un presidio; poteva avere quarant’anni, i capelli ricci e arruffati, la camicia bagnata di sudore benché non facesse caldo, per la foga che metteva nelle parole e nei gesti.
“Non vi faranno passare, principessa, né voi né i volontari…Oudinot non molla!”
“Sapete dove ha il quartier generale?”
“ Sì, certo…”
“Mi ci accompagnate?”
“Siete sicura, signora? So che siete coraggiosa, qui tutti vi conoscono, ma è come andare nella tana del lupo…”
“Non ho paura, non mi possono fare nulla, accompagnatemi”
E fu così che Cristina si presentò al cospetto di Oudinot.
Il generale fu sorpreso e lusingato della visita della principessa di Belgioioso, la fama della cui bellezza, intelligenza e spregiudicatezza era diffusa anche negli ambienti militari.
La giudicava un’eccentrica che, invece di godersi i privilegi di nascita e i talenti personali ricevuti, si comprometteva con pericolose storie di ribellione all’autorità costituita.
Lo intrigava comunque il suo coraggio e quindi, quando nella tenda militare gli fu annunciata la sua visita, non esitò a riceverla, compiacendosi del potere che poteva esercitare verso di lei
Quello che lo colpì, vedendola, fu la sua “presenza scenica” che si materializzò nel riquadro dell’ingresso come la protagonista di un’opera teatrale all’aprirsi del sipario.
Le andò incontro inchinandosi al suo cospetto per un baciamano che risultò troppo galante e insistito.
“Oh, Madame Trivulzio, Princesse de Belgioioso! Quel plaisir vous voir! Mais…n’êtes-vous pas de Milano? Pourquoi êtes-vous à Rome, aujourd’hui?” chiese con un’ironia che gli parve irresistibile
Ma Cristina, a cui l’arte della parola, come nei personaggi boccacciani della sesta giornata del Decameron, non era mai mancata, ribatté pronta:
“Et vous Monsieur Oudinot? êtes-vous de Paris, de Lyon ou de Bordeaux?”
Quella risposta puntuta ebbe il potere di conquistare il generale che non poté fare a meno di sorridere in silenzio sotto i suoi baffoni e riconoscersi disarmato di fronte al conturbante fascino della signora italiana e alla potenzialità seduttiva della sua fine intelligenza.
Fu così che Cristina ottenne per sé e i suoi bersaglieri il permesso di lasciare Civitavecchia e di entrare a Roma.
XXXVI
Ma chère –scriveva Cristina qualche settimana dopo all’amica Caroline Jaubert- sono tre giorni e due notti che non dormo, ma dentro di me, in questo periodo tragico, avverto una forza inesauribile, che mi fa lavorare per quattro e mi spinge anche a scriverti queste righe per aggiornarti sulla mia situazione attuale. Sai che mi trovo a Roma, che sta difendendo con le unghie e con i denti la sua Repubblica!
E’ una battaglia disperata perché i francesi di Oudinot tengono sotto assedio la città ed ormai è solo questione di giorni…e saremo senz’altro sconfitti. Però, questo è très important, saremo sconfitti dopo esserci comportati, non è un’esagerazione, da eroi e da eroine.
Ma, comincio dall’inizio, altrimenti non puoi capire…
Dunque,
devi sapere che Giuseppe Mazzini in persona mi ha affidato il compito
di direttrice degli ospedali della città. Puoi immaginarti il mio stato
d’animo alla sua richiesta! Non ho esitato un attimo ad accettare ma mi
sono subito sentita investita di una responsabilità immensa! Adesso, a
distanza di alcune settimane, posso dirti che, sebbene impegnatissima e
in certi momenti, lo confesso, assolutamente esausta, non mi sono mai
sentita tanto utile e realizzata in vita mia come ora.
Seguo dodici ospedali, chiamiamoli così, che sono dislocati nei luoghi più impensati, anche nei conventi e non sto a raccontarti nei particolari le resistenze di certe suorine –specie quelle più anziane- quando bussiamo alle loro porte…si farebbero uccidere piuttosto che lasciare i chiostri dove hanno trascorso la loro esistenza passeggiando e recitando il rosario…però poi capiscono che quella che noi chiediamo è la vera carità cristiana e si stringono tutte insieme, come tante rondini, in un’ala del convento, per lasciarci il posto. Là raduniamo tutti i soldati feriti e cerchiamo di curarli nel migliore dei modi, con gli scarsissimi mezzi che abbiamo a disposizione. Come desidererei avere infinite bende sterilizzate, botti di disinfettante, etere, cloroformio, montagne di strumenti chirurgici! Che drammi, ma chère Caroline, se non se ne è testimoni, si stenta a crederli! Giovani nel fiore degli anni, belli come il sole,, che patiscono le pene dell’inferno per le ferite, per i traumi, per le piaghe…e poi amputazioni, grida strazianti, lamenti, suppliche…
Conosci la mia vocazione infermieristica, sai quanto ho curato familiari e amici nel bisogno e da ultimo il mio amatissimo Gaetano…ma a volte, credi, mi sento così inadeguata a quel compito immane! E non per mancanza di volontà, ma proprio per impotenza, per non saper come fare a fronteggiare le tragedie che si materializzano davanti ai miei occhi e diventano visioni d’incubo nei miei sogni travagliati.
Ma ci sono anche gioie e commozioni!
Ferite che si rimarginano, piaghe che guariscono, sorrisi che sbocciano
su bocche prima deformate dalle smorfie di dolore, il sollievo che leggo
in certi sguardi per il soccorso ricevuto, la dedizione offerta a chi
si avvia verso l’ultimo passo, il più temuto…quando ogni speranza
svanisce. I feriti sono per la maggior parte uomini, giovani, ragazzi,
Caroline, ma capita anche qualche donna, perché qui tutti combattono; il
corpo infermieristico invece è esclusivamente al femminile. Ho
congedato subito certi energumeni rozzi, mezzo avvinazzati, che ho
trovato al mio arrivo, per reclutare soltanto volontarie donne. Molte
sono venute da sole, con una abnegazione commovente; altre, che non si
ritenevano degne di un simile lavoro, me le sono andata a cercare nei
bordelli e, ti assicuro, sono encomiabili. Quindi intorno a me ho
aristocratiche, popolane, borghesi, ma anche straniere e prostitute. Le
divide la classe sociale d’appartenenza, il censo, i comportamenti, i
valori, le unisce l’ardore patriottico e …l’amore gratuito per il genere
umano oppresso. Sono (siamo!) angeli al capezzale dei malati!
Anche chi mi ha sempre detestato – o non amato- quando entra nei miei ospedali non può fare a meno di congratularsi per la pulizia, l’ordine, l’organizzazione che vi regna. C’è anche una giornalista americana, si chiama Margaret Fuller, è corrispondente di importanti giornali statunitensi dove scrive articoli di ammirazione e di lode nei nostri confronti. Curiamo anche i tuoi connazionali caduti per la nostra causa, Caroline…sono volontari francesi feriti dal piombo dei militari di Oudinot!
Naturalmente qualcuno ha storto il naso, per tutte queste presenze femminili, ha ipotizzato chissà quali avances da parte dei soldati meno sofferenti e un’eccessiva disponibilità delle infermiere verso di loro.
Sono calunnie, amica mia. Vigilo continuamente e intervengo come una vecchia zitella arcigna, che non ha mai conosciuto l’amore, se vedo conversazioni troppo intime, rimproverando le mie ragazze; ma, in confidenza, come si fa a lesinare una carezza, una stretta di mano un po’ più prolungata ad un giovane di vent’anni divorato dalla cancrena, ad un uomo di trenta mangiato dalla febbre?
Dormo
nell’ospedale di Trinità dei Monti, che è il più grande dei dodici, in
una cameretta in comune con Maria e Miss Parker, che costituiscono il
mio supporto materiale e psicologico. Sono rare le notti tranquille,
perché il lamento dei feriti rompe il silenzio e a volte capitano
emergenze; ma spesso, malgrado tutto, sprofondo in un sonno di piombo,
dal quale mi desto all’improvviso col cuore in gola, per la paura di
essere stata assente quando era necessario la mia presenza.
Ti devo salutare, cara amica, c’è bisogno di me…proprio ora si stanno diffondendo voci allarmate di un attacco in grande stile da parte di Oudinot, che sta concentrando presso di sé migliaia di soldati per la spallata finale alla Repubblica! Noterai che ne scrivo il nome con la maiuscola…ne ho troppo rispetto, troppo amore! Si dice che il presente non è nulla rispetto a quello che dovremo ancora sopportare…sempre che riusciamo a sopravvivere…
Dunque, a presto, spero, per poterti raccontare l’epilogo di questa drammatica vicenda! Un abbraccio, ma chère amie
Cristina
XXXVII
Il Mentor veleggiava per Malta
fendendo il mare con sicurezza, malgrado la sua piccola stazza. Il vento
a poppa lo spingeva velocemente verso l’isola, che emergeva già dal
turchese del mare come una roccia abbagliante interrotta da rare macchie
di verde. Poteva sembrare un veliero da diporto, che faceva godere ai
suoi ospiti in vacanza lo splendore estivo del Mediterraneo. Invece il
suo carico umano cercava nei colori del cielo e del mare un po’ di
ristoro alle immagini di sofferenza, sangue e morte che ancora lo
affliggevano. I suoi occupanti, infatti, a parte l’equipaggio, erano
costituiti da orfani della repubblica romana, caduta con onore ma
tragicamente solo poche settimane prima, in seguito all’attacco sferrato
dal generale Oudinot nella notte del 29 giugno.
La battaglia dei difensori era stata lunga, molto di più di quanto i francesi si aspettassero, tanto che da allora impararono a non dire più che gli italiani non sapevano combattere.
Ma i francesi non erano stati soli a infliggere il colpo di grazia alla città assediata, li avevano aiutati gli spagnoli, i napoletani e gli austriaci; quattro eserciti contro un pugno di patrioti Garibaldi si era battuto come un leone, riuscendo con il suo carisma ad affratellare i suoi guerriglieri con i bersaglieri milanesi guidati da Luciano Manara e dando molto filo da torcere ai nemici, tanto da provocare tra le loro fila un numero inaspettato di caduti. Ma il peggio era toccato a lui, che aveva dovuto assistere impotente alla morte di tanti uomini, tra i quali lo stesso Manara, caduto con quasi tutti i suoi bersaglieri o Enrico Dandolo, morto nel fiore dei suoi diciott’anni.
Dal canto suo, quando ormai ogni tentativo risultava disperato, aveva radunato i suoi uomini in Piazza San Pietro e aveva detto loro:
«Io non offro né paga, né quattrini, né provvigioni, offro fame, sete, marce forzate e morte. Chi ha il nome d’Italia non solo sulle labbra ma nel cuore, mi segua»
E a seguirlo nella fuga disperata fino a Venezia, che ancora resisteva, c’era Anita, che aveva tagliato i capelli e s’era vestita da soldato per essere meno d’impaccio al suo Josè..
Intanto, nel marasma che dominava ovunque, l’Assemblea Costituente, al lavoro già dal marzo per stilare una delle carte più avanzate del tempo, si era affrettata a scrivere gli ultimi articoli della Costituzione, approvandola il 3 luglio, proprio alla vigilia della sconfitta: essa avrebbe costituito il testamento spirituale della repubblica e un lascito prezioso per i posteri e la futura democrazia.
Cristina resisteva al suo posto in quella tragedia con la stessa intrepida fermezza di Leonida alle Termopili. Sotto il cannoneggiamento nemico si spostava da un letto all’altro cercando di ignorare il rumore assordante dell’esterno per porgere l’orecchio soltanto alle suppliche dei suoi malati. Quello che era costretta a vedere superava ogni più atroce immaginazione e si meravigliava di poter reggere a tanto strazio riflettendo sulle inesauribili risorse degli esseri umani. Di tanto in tanto però era costretta ad appartarsi per qualche momento vomitando in una bacinella quanto il suo stomaco non era in grado di assimilare in quelle circostanze.
Un giorno capitò all’ospedale un giovane ferito accidentalmente alla gamba sinistra dalla baionetta di un commilitone: non appariva particolarmente grave.
Guardandolo attentamente in viso, malgrado la barba e i baffi, Cristina riconobbe in quelle fattezze Goffredo Mameli, il figlio della sua adorata amica genovese, che non aveva mai mancato di mantenere rapporti con lei, dopo la sua fuga da Milano, facendole visita ripetutamente e standole affettuosamente vicina durante tutta la malattia di Gaetano.
Il cuore le sobbalzò in petto: si fece riconoscere, lo rassicurò, gli parlò delle sue poesie, che conosceva e dell’Inno degli Italiani che l’aveva entusiasmata. Sperava che il giovane, di appena ventun’anni, se la cavasse in poco tempo. Invece andò tutto di traverso: la ferita non si rimarginava e in capo a quarantotto ore prese il sopravvento la febbre.
La situazione stava precipitando verso la cancrena. Si dovette prendere la decisione più ingrata: amputare l’arto infetto. Al tremendo compito di comunicare al ferito l’improrogabile necessità dell’intervento fu scelto il medico e amico Agostino Bertani, che riuscì, dopo la prima assoluta disperazione di Goffredo, che reclamava la morte piuttosto che la mutilazione, a persuaderlo a scegliere la vita. Agostino operò in condizioni disumane ma si sperò nel meglio. Cristina pregava in silenzio, con un ardore che non ricordava di aver mai sperimentato. Ma fu tutto inutile: l’infezione non si fermava. La mattina del 6 luglio, alle h. 7.30, dopo che l’aveva vegliato tutta la notte, ascoltando impotente i suoi deliri e ponendogli sulla fronte in fiamme inutili bende che gliela raffreddassero, il povero Goffredo spirò tra le sue braccia.
Il padre Giorgio, contrammiraglio, avvertito del precipitare della situazione, arrivò al capezzale appena dopo l’ultimo respiro del figlio.
La morte di quel giovane sfortunato, che tanto gli ricordava quella di Gaetano, sebbene più crudele e inaspettata, a soli due giorni dalla caduta della repubblica, gettò Cristina nell’abisso della prostrazione. Neppure le carezze e i baci di Maria riuscivano a consolarla, a farle rialzare la testa, come se tutto il fiume di dolore di cui era stata testimone in quei mesi fosse uscito dagli argini e l’avesse sommersa.
Liquidato il triumvirato repubblicano dal piombo dei francesi, a Roma giunse quello che la gente chiamò il “triumvirato nero”, ossia tre cardinali fanatici che dovevano procedere all’epurazione politica spianando la strada al ritorno del papa. Cristina fu subito presa di mira e fatta oggetto di un’infamante campagna di stampa, accusata di non aver garantito i sacramenti ai morenti, di aver manifestato sentimenti irreligiosi, di aver utilizzato donnine allegre come infermiere e d’avere lei stessa tenuto un comportamento non consono al suo ruolo, col fare innamorare, per colpa della sua bellezza lunare, soldati in punto di morte. Accuse assurde e ingenerose che ferirono profondamente la principessa ma che le fornirono l’occasione di reagire. Capì di doversene andare e che a Roma non c’era più spazio per lei, specialmente quando, a fine luglio, fu messa sull’avviso da un prete a cui aveva salvato la vita.
Era di nuovo nei guai: esiliata, senza beni, sequestrati dalle autorità austriache, senza meta e in fuga. Inizialmente pensò di rifugiarsi in Sardegna con i suoi compagni di sventura e fondare lì una colonia agricola. Ma nessuna autorità locale aveva voglia di ospitare rivoluzionari falliti. Riuscì fortunosamente a procurarsi un passaporto dal console inglese, coinvolse Maria e l’insostituibile Miss Parker in fulminei preparativi di viaggio, raggiunse Civitavecchia e riuscì per puro miracolo a trovare posto per loro e un manipolo di patrioti sul veliero Mentor. destinazione Malta.
da “Padrona del mio cuore/Il coraggio e le passioni di una donna del Risorgimento” di Maria Gisella Catuogno
Nessun commento:
Posta un commento