24 febbraio 2014

GLI ULTIMI MESI DI VITA DI ELSA MORANTE



Un giro intorno alla vita
Emanuele Trevi


Una testimonianza su Elsa Morante. Gli ultimi mesi di Elsa Morante restituiti da Jean-Noël Schifano in una forma letteraria capace di rendere conto del gioco narrativo tra la scrittrice e il suo traduttore.

Qua­lun­que cosa inte­desse fare Jean-Noël Schi­fano scri­vendo E.M. o la divina bar­bara (Elliot, trad. di Mario Ber­tin, pp. 114, euro 16,00), ne è venuto fuori un potente e irre­quieto ritratto di Elsa Morante negli ultimi mesi della sua vita. È, in effetti, un’immagine degna del pen­nello di Lucian Freud quella della sua amica Elsa nella stanza della cli­nica romana, a pochi passi da via Nomen­tana, ombreg­giata dalle fronde di un’immensa magno­lia. Siamo nell’autunno del 1984, ed Elsa, che morirà il 25 novem­bre dell’anno dopo, sta sulla sua sedia a rotelle come la regina di un paese senza nome, di una terra deso­lata a un passo dai can­celli del Niente. La cata­strofe è ini­ziata alla fine del 1982, nel set­tan­te­simo anno di quest’essere umano così ecce­zio­nale da pro­durre, nella memo­ria di chi l’ha cono­sciuta, un inter­mi­na­bile stato d’eccezione.
È l’anno della pub­bli­ca­zione di Ara­coeli e del ten­ta­tivo di sui­ci­dio con il gas, sven­tato dalla fede­lis­sima Lucia, una donna sici­liana che adesso, a Villa Mar­ghe­rita, la veglia giorno e notte e che sem­bra fatta, scrive Schi­fano, di «ombra nera e amore». A rileg­gerlo oggi, l’ultimo capo­la­voro lascia let­te­ral­mente stu­pe­fatti per l’infallibile bel­lezza della sua lin­gua, stra­zio risolto in musica, quella melo­dia della prima per­sona sin­go­lare che è la più incerta e deli­cata fra tutte le pre­sta­zioni dell’arte let­te­ra­ria. Mi chiedo quale altro libro scritto in ita­liano, nella seconda metà del Nove­cento, sia para­go­na­bile ad Ara­coeli, nella sua capa­cità di spin­gersi così in alto e insieme di sca­vare così in basso, là dove la coscienza si tra­sforma in una sab­bia mobile sem­pre sul punto di ingo­iare se stessa.
È stata un’ultima resa dei conti con fan­ta­smi che pos­sono avere l’aspetto di mario­nette, ma sono mario­nette infuo­cate, che si espri­mono cre­pi­tando, facendo cenni dal pro­prio rogo come i con­dan­nati di Artaud. Arrivo con­fu­sa­mente a capire anche la volontà di morire, dopo essersi lasciati alle spalle lo scan­dalo di una tale per­fe­zione, come Bal­zac dopo Il cugino Pons, o Céline lo stesso giorno in cui ha com­ple­tato Rigo­don, libro ama­tis­simo da Elsa («un uomo che si infila un gatto in tasca è più santo di un bri­gante»). Ma il destino è un altro, come se prima del riposo ci fosse un sup­ple­mento di pena da scon­tare, la lunga ago­nia di chi soprav­vive al com­pito che si è asse­gnato. Ed eccola qui, Elsa, il fou­lard anno­dato a coprire i capelli grigi che ricre­scono dopo l’operazione alla testa, al polso la cate­nella per l’orologio, in una mano l’Inferno di Dante e nell’altra un pac­chetto di siga­rette al mentolo.
Se è una regina, il suo trono è la sedia a rotelle, e il suo scet­tro il pap­pa­gallo sem­pre pronto all’uso, men­tre un cate­tere le tor­menta la vescica. Schi­fano, che si pre­senta sem­pre pun­tuale alle dieci di mat­tina, dopo aver abban­do­nato in albergo un’amante sem­pre più delusa da quella vacanza romana tra­scorsa in soli­tu­dine, non è solo il tra­dut­tore fran­cese della Sto­ria e di Ara­coeli. E soprat­tutto non è qual­cuno venuto lì con lo scopo di rea­liz­zare un’ultima inter­vi­sta, di car­pire e regi­strare qual­che forma di testa­mento cano­nico. Come tanti altri, ha preso a ruo­tare intorno alla fiamma di Elsa come una falena inna­mo­rata. Si capi­sce bene che que­sta moda­lità della rela­zione rende molto pro­ble­ma­tica, per non dire impos­si­bile, la ricerca di un punto di vista ogget­tivo, in grado di garan­tire la testimonianza.
Se Elisa è divina, come afferma il titolo di Schi­fano, appar­tiene a quella razza di divi­nità che si lascia die­tro solo dei van­geli apo­crifi, senza ter­mini di para­gone rife­ri­bili a una verità uffi­ciale. Il discorso tra «Elisa», come la chiama sem­pre l’autore, e «Gian­na­tale» non ha nem­meno la forma di un discorso a senso unico, nel quale la prima parla e il secondo con­serva nella memo­ria, per poi rife­rire. È un gioco, l’ultimo «gioco segreto» che si svolge sull’orlo immi­nente del pre­ci­pi­zio. E giu­sta­mente, la più grande pre­oc­cu­pa­zione di Schi­fano non è stata quella di tra­man­dare delle noti­zie (da que­sto punto di vista, nel libro c’è poco o nulla che già non si sapesse, a par­tire dalla sto­ria della fami­glia di Elsa), ma di tro­vare una forma let­te­ra­ria adatta a ren­der conto di que­sto gioco, e della sua per­pe­tua circolarità.
Elsa/Elisa e il suo tra­dut­tore infatti si scam­biano a turno dei rac­conti, impe­gnan­dosi in un minu­scolo Deca­me­ron nel quale l’arte di ascol­tare è almeno altret­tanto impor­tante di quella di rac­con­tare. Anzi, è pro­prio nelle rea­zioni di Elsa alle imprese ero­ti­che del suo amico che intra­ve­diamo il suo stato d’animo molto più di quando è lei a par­lare delle sue avven­ture. Ma que­sto «romanzo con­fi­den­ziale non finito», come alla fine l’autore ha deciso di defi­nirlo nel sot­to­ti­tolo, nella sua deli­be­rata e quasi aggres­siva inaf­fi­da­bi­lità con­tiene l’affermazione di una poe­tica in forma di destino che non deve pas­sare inos­ser­vata. Per­ché quando il gioco passa nelle mani di Elsa, ed è dalla sua bocca scre­po­lata che pro­viene il rac­conto, è impos­si­bile a Jean-Noël, che cono­sce quasi a memo­ria l’opera della sua amica, non acco­stare al fatto nudo e crudo la sua tra­sfi­gu­ra­zione romanzesca.
«Tu sai», lo ras­si­cura Elsa, «le con­fes­sioni di Rous­seau sono un vero romanzo a con­fronto dei miei romanzi, che sono delle vere con­fes­sioni… Io sono tutta intera nei miei libri». Il fatto è che que­sta pre­senza «tutta intera» nei suoi libri non è un sem­plice peti­zione di prin­ci­pio (qua­lun­que scrit­tore potrebbe affer­mare di sé la stessa cosa) e tan­to­meno un sistema di equi­va­lenze da deci­frare con una chiave affi­da­bile, come nei vec­chi romanzi di società. Sem­mai, quello che Elsa affronta a par­tire almeno da Men­zo­gna e sor­ti­le­gio è un auten­tico pro­cesso di tra­sfor­ma­zione che ha del magico e dell’alchemico: del magico per­ché riporta in vita ciò che non è più ed è sep­pel­lito nel suo silen­zio; dell’alchemico per­ché ricon­durre i mate­riali trat­tati al loro grado di mas­sima e lumi­nosa per­fe­zione signi­fica assog­get­tarli a un movi­mento cir­co­lare, nel quale il punto più basso della mor­ti­fi­ca­zione è la pre­messa neces­sa­ria della risa­lita. Ed è così che la fin­zione può essere intesa e pra­ti­cata, non come una tec­nica arti­stica ma come un vei­colo attra­verso il quale ciò di cui si rac­conta può «essere reso alla realtà ed esi­stere vera­mente». Ma tutto è, que­sta «fin­zione», tranne che uno spec­chio e un documento.
È vero che Elsa non ha par­lato che di ciò che ha cono­sciuto: sua madre, il padre uffi­ciale da cui ha preso il cognome e quello bio­lo­gico, i fra­telli («che io tra­sformo in cugini in Men­zo­gna e sor­ti­le­gio»), gli amori e gli amici. È però altret­tanto vero che tutta que­sta mate­ria umana, stretta fra un biso­gno di con­fes­sione più auten­tico addi­rit­tura di quello di Rous­seau e un istinto nativo della fin­zione, non ha biso­gno di con­ser­vare una strin­gente somi­glianza col modello di par­tenza per giun­gere al suo supremo grado di verità. Sem­mai, è vero il con­tra­rio, per­ché la scrit­tura non fa che rive­lare l’archetipo nasco­sto nell’esistenza del sin­golo («sono là, da secoli, io li ho sem­pli­ce­mente messi sotto la luce del nostro tempo»).
Ciò signi­fica che qua­lun­que «modello» Elsa abbia tenuto di fronte men­tre imma­gi­nava i suoi romanzi, è vero e irri­co­no­sci­bile nello stesso tempo. Ne è stata rica­vata un’essenza, simile alle anime che Dante spreme dalle vite dei suoi per­so­naggi: corpi imma­te­riali che però pati­scono, mol­ti­pli­cati, tutte le gioie e tutti i dolori della greve esi­stenza ter­rena. Più che un metodo, Elsa Morante sta con­fi­dando al suo tra­dut­tore una potenza psi­chica che ha finito per distrug­gerla, un eser­ci­zio della memo­ria che ha l’efficacia di un sacra­mento e l’incertezza di un’ordalia. Un modo di scri­vere, infine, che non è stato altro, per que­sta divina bar­bara, che l’unica strada da per­cor­rere per vivere fino in fondo la sua vita.




  FONTE: Manifesto, 23 febbraio 2014, p. 5 Alias-Domenica

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