23 febbraio 2014

CHE FINE HA FATTO IL SOLE DELL'AVVENIRE...



Il sole dell’avvenire di Valerio Evangelisti

di Andrea Sperelli  23 febbraio 2014 http://www.nazioneindiana.com/


Semplificando, ci sono tre elementi principali nell’ultimo libro di Valerio Evangelisti: 1) i movimenti rivoluzionari di fine Ottocento, nati e cresciuti sull’onda lunga della Comune di Parigi e dei moti garibaldini; 2) la repressione dei governi monarchici filoliberisti (anche allora!), la violenza del potere schierato con le classi dominanti: violenza istituzionale, esercitata con leggi che vietano persino l’esibizione di una pochette rossa, o di fischiettare un motivetto “sovversivo”, e quella ottusa dei loro cani da guardia, gli “sbirri” che sparano sui disoccupati che reclamano pane e lavoro; 3) le storie romanzesche di tre personaggi portanti, le loro speranze, la loro miseria, la loro oppressione individuale e sociale.
Con tale premessa qualcuno potrebbe temere una poderosa opera ibrida, un mix didascalico di storia, saggistica e narrativa, quest’ultima posta su un piano accessorio. Di servizio per così dire, pertinenziale alla narrazione oggettiva degli eventi epocali.
Non è così. L’abilità di Evangelisti sta proprio nella fusione dei meta-argomenti nel racconto e nella scrittura. Con la nostra semplificazione potremmo suddividere l’opera in tre pesature: 15% storia/analisi dei movimenti operai, 15% rappresentazione del potere reazionario e bigotto, 70% storie romanzesche. Sono queste che “tirano”, che creano la tensione narrativa, ospitando sullo sfondo piccoli e grandi personaggi storici: Andrea Costa, i socialisti e gli anarchici romagnoli, nomi che vediamo scritti sulle targhette delle strade, Nullo Baldini, Gaetano Zirardini, Filippo Turati, Bakunin. E il racconto è avvincente, appassionante. Forse perché l’ideologia sembra assente, oppure è riscattata dalle vite semplici dei protagonisti, che sono spinti da bisogni primari, o primitivi: procurarsi un lavoro, uno qualsiasi, scarriolante, bracciante, facchino, garzone, pescatore. Il fine è il cibo, il vestiario, un tetto sulla testa. Bisogni che un potere ingordo e avido nega loro, rubando anche le briciole e gli stracci. E vietando non solo di protestare per la loro miseranda condizione, ma di esistere: vietato mendicare, discutere, chiedere il pane. Vietato cantare. Vietato riunirsi per discutere. Pena l’arresto, i pestaggi, la rovina economica, fino alla morte, coi soldati che sparano sulla folla addirittura col cannone, come avvenne a Milano nel 1898, dove ci furono più di ottanta morti e 500 feriti.
In questo scenario si dipanano le storie personali e famigliari dei tre protagonisti: il ravennate Attilio “Tiglio” Verardi, ex garibaldino che ha combattuto a Digione nel 1870, quando il generale era intervenuto coi volontari in camicia rossa in sostegno della Repubblica, contro i prussiani. Tiglio è un romagnolo purosangue, impulsivo, un po’ confusionario (o confuso), generoso. Non è escluso che sia anche un “contaballe”, perché, come ha detto lo stesso Evangelisti, se “il carattere romagnolo esiste”, la romagnolità è anche farla “grossa”, contarla da “sburoni”. Tiglio si arrangia con lavori saltuari, bracciante perlopiù, lavori che talvolta perde perché le opere pubbliche scarseggiano, o i padroni licenziano, oppure combina qualche guaio. E’ fidanzato con Rosa, che proviene da una famiglia di mezzadri, i contadini che vivono isolati nelle case coloniche, lavorando come animali per soddisfare l’esosità dei padroni. Benché sfruttati, derubati, umiliati, difendono il sistema contro i socialisti e i collettivisti, perché la mezzadria rappresenta “l’unione tra capitale e lavoro”. Oltre a Tiglio, Evangelisti crea dei grandi personaggi letterari, come il fratello di Rosa, il terribile “azdor” repubblicano antisocialista, reazionario e al contempo mangiapreti, violento quanto spaventato di fronte al padrone che lo ricatta, lo insulta; cambia persino voce, piega la schiena, perché ha paura; non tanto per sé, ma per la famiglia che deve mantenere. Tiglio e Rosa vanno a vivere in una stamberga a Ravenna, dove nasce il figlioletto Canzio (dal cognome di un generale garibaldino). Tiglio per sbarcare il lunario va a lavorare alla bonifica dell’agro romano, e qui lo perdiamo, perché il racconto ha una virata. Ora tocca a Rosa. E’ lei che riceve il testimone del racconto. E’ una donna timida, sola, spaventata. Per certi versi è irritante, perché torna a casa, nel podere a mezzadria, a vivere la sua condizione di donna che non può neanche mangiare a tavola con gli uomini (le donne mangiavano nel portico, o sulla porta). Continuano i sacrifici, le umiliazioni, la paura, con le incursioni del padrone ladro, sullo sfondo dei moti operai repressi dalla sbirraglia, i militanti arrestati, ricercati.
Come Canzio, che cresce solitario e scontroso occupandosi delle bestie, dormendo nella stalla. Canzio adora il padre, del quale mitizza il passato garibaldino, ma è costretto a seguire la madre, per una sentenza del tribunale. E’ lui ora, ragazzino appena tredicenne, già clandestino perché ha messo fuori combattimento il padrone-vampiro dalle buone maniere, a condurre la terza parte del romanzo. Cerca il padre, che nel frattempo si è ammalato nelle paludi mefitiche, si sposta da Ravenna a Bologna, protetto dalla rete dei socialisti rivoluzionari, lavorando come fattorino negli alberghi, o come tuttofare nella tenuta agricola di un possidente socialista. E’ un personaggio vitale, un ribelle adolescente, che chiude il triangolo formato dall’esuberante ma al contempo confuso Tiglio, e dalla sottomessa, ma tenace, Rosa.
Evangelisti riesce a calare il lettore nella Romagna di quegli anni terribili, anni di sfruttamento, di miseria, di sconfitte, ma anche di lotte senza quartiere, di speranze e di progetti. Non si permette mai filippiche o tirate ideologiche. I linguaggi sono semplici, anche quando si discute di strategia politica, nell’eterno conflitto anarchici-socialisti rivoluzionari. Tra le parole serpeggia l’amore per i personaggi, qua e là una sottile ironia, un’attenzione per i caratteri e i linguaggi romagnoli, che dimostra di conoscere a fondo (ha avuto la madre romagnola). E anche rabbia e indignazione, benché non si abbandoni mai a sfoghi, ma la lasci viaggiare per così dire in incognito, nella cronaca spietata delle violenze e dei saccheggi che sono costretti a subire gli ultimi degli ultimi, da parte di quei volgari ladri di polli che sono i padroni dalle belle braghe bianche e dei loro eserciti di sbirri assassini.




Valerio Evangelisti
Il sol dell’avvenire
Mondadori Strade Blu 2013, pagg. 540

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