11 febbraio 2014

LA CULTURA EBRAICA NELLA PITTURA DI MARC CHAGALL





Un vecchio, ma sempre illuminante, articolo di Pietro Citati ripescato in rete. Le opere di Chagall aiutano a comprenderne meglio il senso, così come il testo aiuta a cogliere il senso profondo della pittura di Chagall.

Pietro Citati

Se Dio si trova in ogni cosa

Così il tardo ebraismo rivela il drammatico paradosso che lo sostiene. Da un lato, la «rottura dei vasi» fa parte del provvidenziale processo di emanazione e rivelazione di Dio: come il seme di grano deve far scoppiare la scorza per germinare e fiorire, la luce spezza i vasi per diffondersi nell' universo. Ma tutto ciò è anche uno spaventoso disastro.

Secondo la tradizione chassidica, il cosmo divino è simile a un uomo, che ora inspira, contraendo o dilatando il petto: o a una marea, che ora fluisce ora rifluisce. In un primo momento, Dio si contrae in sé stesso. Poi si espande, si allarga, si apre, si manifesta, ispirato dalla forza dell' amore, e getta nello spazio la luce delle sue dieci emanazioni, le dieci Sefirot.

Questa luce è troppo folgorante e accecante perché lo spazio possa sopportarla; e viene contenuta e fasciata in dieci «vasi». Non tutti i vasi sono identici. I primi tre sono puri, incontaminati e perfetti: gli altri sette sono formati da miscele luminose di specie inferiore, dove Dio estromette le impurità che lo adombrano. Forse la sorte dell' universo resta in bilico per un istante, nel quale la forza luminosa e quella dei «vasi» si equilibrano perfettamente.

Se questo istante si fosse prolungato nel tempo, noi tutti non conosceremmo peccato, caduta, divisione, separazione. Ma questo equilibrio, se pure è mai esistito, dura un momento. La forza della pura luce divina è troppo sovraeminente, eccedente, trionfale, troppo «tremenda e meravigliosa», per sopportare qualsiasi adombramento. I «vasi», più pesanti e impuri, delle sette Sefirot inferiori si frantumano, sotto l' urto violentissimo della luce; e le scintille divine si sparpagliano in ogni angolo della futura creazione - negli uomini, ebrei o gentili, negli animali, nei laghi, nei ruscelli, nei fiumi, nei mari, nelle piante velenose, nelle pietre, nei cibi.

Le scintille sono dovunque: ma esiliate, degradate, avvilite, prigioniere delle potenze demoniache; pendenti nelle cose come dentro pozzi suggellati, rannicchiate negli esseri come in caverne murate, o aleggianti nello spazio come farfalle pazze di luce. Tutto viene macchiato, spezzato, frantumato. Tutto è desolazione e disperazione. L' albero della vita si separa dall' albero della conoscenza, il sopra dal sotto, l' elemento maschile da quello femminile, la vita dalla morte: la Thora viene lacerata in seicentomila lettere; mentre un furioso vento di tempesta sconvolge la terra, riducendo il mare all' asciutto e facendo un mare delle zone deserte. In questo mondo devastato, gli uccelli, i ruscelli, le colline, gli abissi, le distese di sabbia alzano il proprio lamento; e gli uomini vagabondano senza meta.



Così il tardo ebraismo rivela il drammatico paradosso che lo sostiene. Da un lato, la «rottura dei vasi» fa parte del provvidenziale processo di emanazione e rivelazione di Dio: come il seme di grano deve far scoppiare la scorza per germinare e fiorire, la luce spezza i vasi per diffondersi nell' universo. Ma tutto ciò è anche uno spaventoso disastro.

Se Dio aveva cercato di purificare la propria luce dalla propria ombra, ora le sue scintille sono mescolate, contaminate, prigioniere del demoniaco. Tutte le lacune, le imperfezioni, le incertezze, le discontinuità che lamentiamo nell'esistenza di questo mondo, non sono dunque un caso. Se noi guardiamo lassù, in quegli abissi di puro splendore, vi scopriamo lo stesso disastro. La perfezione di Dio è un punto, nascosto nel cuore dell' Infinito, nel centro dove egli si conosce e si riflette - ma gli occhi della nostra fantasia non riescono a scorgerlo.

Dopo la «rottura dei vasi», l' ultima delle Sefirot, la Shekinah, il volto femminile di Dio, percorre esiliata le contrade dell' universo. Lei che aveva folgorato con la stessa intensità del sole, ora brilla soltanto di una debole e pallida luce riflessa, come la «sacra luna», menomata, rimpicciolita, coperta di ombre e di macchie. Con strazio sempre rinnovato le favole del maggiore narratore chassidico del XVIII secolo, Nachman di Bratislava, la rappresentano in questo esilio.

Ora come una principessa, che il padre o lo sposo hanno cacciato, senza colpa, dal regno: ora come una donna bellissima, che un pirata vuol rendere schiava; ora come una serva che fa i lavori più umili nelle locande della terra; ora come una vedova, vestita di nero, che piange ai piedi del Muro di Gerusalemme: rapita, calunniata, sottoposta a tutte le debolezze umane, come le figure femminili del mito gnostico. Avvolta in manti che le nascondono il viso, essa fugge, scompare, si nasconde - e sulla terra restano poche tracce: orme di passi, vesti abbandonate, fuscelli di paglia, che ne rivelano il transito a chi ha lo sguardo più penetrante.



Durante uno dei suoi viaggi, un rabbi chassidico arriva, verso il far della notte, in una piccola città dove non conosce nessuno. Non trova alloggio, fino a quando un conciatore lo conduce a casa con sé, nel triste vicolo dei conciatori. Egli vorrebbe dire le preghiere della sera, ma l' odore della concia è così acuto che non riesce a pronunciare una sola parola. Esce e va alla scuola rabbinica, che tutti hanno già lasciato. Mentre prega a capo chino, comprende che la Shekinah è finita in esilio e sta abbandonata nel vicolo dei conciatori. Scoppia a piangere per l' afflizione, versa tutte le lacrime che la sofferenza e l' angoscia avevano raccolto nel suo cuore, finché cade a terra svenuto.

Mentre giace esanime, la Shekinah gli appare nella sua gloria: una luce abbagliante in ventiquattro gradazioni di colori. «Sii forte, figlio mio!» gli dice. «Grandi sofferenze ti attendono, ma tu non temere: perché io sarò presso di te». Sebbene la gloria di Dio fosse stata umiliata e ferita, essa splende trionfalmente come sempre. Le piccole scintille divine si sono diffuse in ogni luogo, come il lievito che penetra il pane, come la più familiare e accorata presenza domestica. Ora sono nascoste e brillano segretamente in luoghi dove, all' inizio dei tempi, non avrebbero forse osato risiedere.

In questi giorni la casa editrice Mondadori pubblica la maggiore raccolta di Storie e leggende chassidiche (pagg. CLXXX - 1322, euro 55) che esista in Italia. L' ottima introduzione, la curatela e parte delle traduzioni sono dovute a Andreina Lavagetto: la lunga cronologia a Massimiliano De Villa. Il volume comprende i cinque maggiori libri di Martin Buber sul chassidismo: Le storie di Rabbi Nachman, La leggenda del Baalschem, La mia via al chassidismo, I racconti del chassidismo, Esposizione del chassidismo.

All' inizio del secolo scorso, Buber cercò di rinnovare l' ebraismo, reimmergendolo nel ricco e confuso mondo chassidico del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Non volle tradurre alla lettera i racconti, nei quali i discepoli avevano narrato le imprese leggendarie dei loro maestri spirituali. Non era uno storico né un filologo: si sentiva l' ultimo discendente di quella tradizione, l' ultimo rabbi che aveva ascoltato le voci dei santi. Così le trasferì nella propria lingua personale: Le storie di Rabbi Nachman (1906) e La leggenda del Baalshem (1907) in uno stile tardo-romantico e preespressionista che non sempre restituisce il profumo popolare dell' antica Polonia e dell' antica Galizia.

I racconti dei chassidim sono invece un capolavoro: incantevole per la rapidità, la leggerezze, l' emozione e la grazia, con cui Buber fece rinascere il chassidismo nei tempi moderni. Nei ghetti disseminati in Polonia, in Lituania, in Galizia ed in Russia, la vita delle comunità ebraiche, attorno alla metà del diciottesimo secolo, era lontanissima dagli splendori di cui raccontavano le leggende. Invece di abitare la gloriosa Gerusalemme o le ricchissime Alessandria e Cordoba, gli ebrei orientali facevano i locandieri, gli osti, i macellai, i cocchieri, i mercanti. Le loro carrozze raggiungevano la fiera di Lipsia: qualcuno percorreva ancora le strade verso Gerusalemme; altri rinnegavano le vecchie usanze, indossavano abiti corti radendosi la barba e i folti riccioli. Il centro della loro vita era la sinagoga.



Ogni primo dell'anno suonavano lo Shofar, il corno d' ariete, che un giorno avrebbe annunciato l' arrivo del Messia: compivano devotamente i bagni rituali: acquistavano i cedri per la Festa delle Capanne: leggevano i libri della Thora davanti alle candele accese: pregavano nascosti sotto il bianco scialle della preghiera: e il sabato mangiavano insieme al loro maestro, di cui poi avrebbero tramandato le vite, le sentenze e i miracoli. Ogni villaggio chassidico ferveva di vita religiosa, attendendo l'arrivo del Messia, che ritardava da migliaia d' anni. Il Messia poteva arrivare, inaspettato, ogni momento.

Se il mercante ebreo sentiva qualche trambusto per la strada del paese, si agitava, usciva di casa, domandava cosa accadesse: ogni sera, prima di addormentarsi, ordinava al servitore di svegliarlo all'istante, se fosse giunto il messaggero lungamente atteso. Se il Messia non giungeva, giungevano gli angeli: essi accompagnavano a casa i fedeli appena usciti dal tempio, o conversavano devotamente con loro nelle modeste sale da pranzo. I miracoli fiorivano rigogliosamente come verdure: se un maestro vi si immergeva, l' acqua di un fiume diventava salutifera; una mucca morta risorgeva; la luna cacciava le nuvole e risplendeva nel cielo. I maestri chassidici amavano specialmente i piccoli miracoli quotidiani, come quello di trasformare un ghiacciolo in una candela accesa.

Tutto, in realtà, era miracolo: specialmente quello che, per i cristiani, era soltanto un fenomeno naturale. Riflettendo sulla «rottura dei vasi», i chassidim compresero che Dio era dovunque: in tutti gli uomini e in tutte le cose, specie le più umili e povere, santificate dall'uso quotidiano - le pietre, il cuoio, il desco da ciabattino, il cibo, le erbe, la saggina della scopa, il bagno rituale, gli animali da cortile, il lavoro dei campi, i vicoli dove si leva intensissimo l' odore della concia, e perfino il cuore dei malvagi. I chassidim non avevano paura del piacere che davano loro gli uomini e le cose: lo attraversavano con la mente pura e percorrevano la strada che porta fino a Dio: spesso nei dolori, nelle sventure e nelle contraddizioni, ognuna delle quale doveva trasformarsi in gioia.

Tutto, anche la tenebra, dava gioia. Un maestro chassidico recitava la confessione dei propri peccati cantando le canzoni più liete, per rallegrare Dio. E Rabbi Pinchas aggiungeva: «tutte le cose vengono dal paradiso, anche lo scherzo, se è detto con vera letizia». Il maestro chassid rideva; e mentre rideva, «passava sulla terra l' alito dell' indulgenza, la severità si struggeva, e ciò che ha peso si faceva leggero». Così il devoto chassid era assalito da sentimenti duplici. Se la luce radiosa delle Sefirot era andata in frantumi, egli era pieno di desolazione e di angoscia, piangeva le lacrime incontenibili della Shekinah, si inoltrava nel cuore del nulla, diventava straniero al mondo.

Gridava a Dio, elevando a lui il cuore, come fosse appeso a un capello e la bufera soffiasse fino al cielo, togliendogli ogni scampo e quasi il tempo di gridare. Ma se le scintille divine erano onnipresenti, come non venire posseduto dall'esaltazione, dall'ardore, dall'ebbrezza, da profondissime lacrime di gioia? Allora i chassidim si abbandonavano a danze estatiche, come i dervisci. «Anche se il tuo cuore è infelice, - dicevano - puoi almeno ostentare un viso allegro. In fondo al cuore potrai essere triste, ma se ti comporterai come fossi felice, alla lunga meriterai la vera gioia». Fondere insieme questi sentimenti opposti: essere nello stesso tempo angosciati e felici, far piangere il riso, far ridere il pianto è, forse, il segno della perfezione: quello che noi usiamo chiamare santità.

Il maestro dei chassidim non era un uomo della Legge, sebbene interpretasse per i suoi fedeli la Bibbia, il Talmud e i testi cabbalistici. Pensava che i troppi insegnamenti affliggono l' anima, e la fanno abitare nella malinconia e nella tristezza. Non era nemmeno un moralista: non proponeva nessuna battaglia contro il male e i suoi rappresentanti. Pensava che nel male esiste una forza oscura, che desidera raggiungere il bene, sebbene i malvagi non se ne rendano conto.



Spesso gli uomini non sanno di essere buoni. «Non bisogna avventarsi contro il male», diceva rabbi Abraham, ma «ritirarsi nella originaria forza divina», guidare l'anima «con le briglie lente», scoprire il punto dove il male è simile al bene, e di lì «circondarlo e piegarlo e trasformarlo nel suo opposto». Era un' arte sinuosa e difficile, che i maestri dei chassidim avevano appreso da una tradizione secolare. Come scrive Gershom Scholem, il maestro chassidico era un «risvegliato», un profeta al quale Dio aveva toccato il cuore. La leggenda raccontava che alle origini del mondo, nell' Eden, quando tutte le anime erano riunite in quella di Adamo, l' anima del Baalschem (il fondatore del chassidismo) fuggì e non volle mangiare il frutto dell' albero della conoscenza. Il cielo era sempre aperto.

Mentre il Baalschem bambino insegnava agli altri bambini le parole della preghiera, le schiere celesti si radunavano tra le nuvole per ascoltare le voci infantili; e la sua anima adulta penetrava in cielo, dove si intratteneva con Mosè e il futuro Messia. In questa terra, il maestro cercava di vivere nell'ardore dell'estasi mistica, che uccideva la ripetizione, faceva diventare le cose usate nuove e miracolose. Viveva in quel tempo senza orologi, dove il passato e il futuro si comprimono in un attimo di presente. Lasciava che la bocca incontrollata pronunciasse ciò che voleva, perché tutte le sue parole erano legate alla loro radice celeste.

Danzava; e suonava musiche meravigliose, che le orecchie umane non avevano mai ascoltato. Sebbene sembrasse semplice (o fingesse di esserlo), l' anima del maestro chassidico era complicata e sottile. Sentiva in sé le forze del profondo assalirlo durante la notte: ne ascoltava le voci, fino a tradurle in parole di ogni giorno, sebbene a volte venissero da così lontano, che non riusciva a comprenderle. Comunicava con la natura: diventava natura; e, come San Francesco, capiva i canti degli uccelli. Così, a contatto con il profondo e con la natura, il maestro chassidico cambiava, si rinnovava, cadeva nel sonno, perdeva la propria figura, si annientava nel nulla, ritrovando l' anima nuda.


Possedeva il dono dell' intuizione psicologica, che allora veniva chiamata la «scienza del volto». Le altre anime non gli celavano nessun segreto o mistero; gli bastava prendere in mano una scarpa, per comprendere ciò che si agitava nell' animo del ciabattino che l' aveva fatta. Nessun limite o menzogna ostacolavano il suo sguardo. E se trovava un peccato nell'animo altrui, se l' addossava, come se fosse stato lui stesso a commetterlo, piangeva per il rimorso, e soffriva in luogo del peccatore. Così guariva le anime: insegnava le vie della verità e della vita, senza sostituirsi mai a loro nel rapporto con Dio.

Sapeva parlare agli altri col silenzio; o con uno sguardo puro, che conosceva i segreti di ogni vita. Quando pregava, le sue parole splendevano come una pietra preziosa, «che brilla di luce propria»; o come una finestra, che lascia passare la luce e risplende di lei. Non pregava mai per i propri dolori e le proprie sventure, ma per amore e timore di Dio, e per dargli gioia. Non voleva che nella preghiera si nascondesse qualcosa, sia pure minima, che la legasse a lui stesso.

Una volta, il Baalschem non entrò in un oratorio, perché era troppo pieno di preghiere, che lo riempivano sino all' orlo: tutte quelle invocazioni erano nate dall' angoscia per sé stessi: in questo caso, le preghiere non salgono al cielo; si depositano a terra, una sopra all' altra, strato sopra strato, in un fitto disordine. Così le vite dei maestri chassidici diventarono degli esempi per le loro comunità, come la vita di San Francesco, molti secoli prima, era diventata un esempio per la comunità francescana. I discepoli non volevano insegnare una teoria, o spiegare la Thora, ma raccontare una vita, o il gesto simbolico di una vita. Rabbi Low disse: «Se io andai dal Maggid [uno dei principali maestri chassidici], non fu per ascoltare insegnamenti da lui, ma solo per vedere come si slaccia le scarpe di feltro e se le riallaccia».

Tra la metà del diciottesimo e la prima parte del diciannovesimo secolo, si formò, nei paesi dell' Europa orientale, una fittissima tradizione orale e scritta, che raccontava le vite dei santi chassidici, e che Martin Buber ha meravigliosamente raccontato di nuovo ai nostri tempi. Il rabbi chassidico diventò un narratore: gli sembrava che i suoi discepoli fossero nudi e malvestiti; e le leggende e i racconti dovevano essere la splendida veste fantastica degli insegnamenti, raggiungendo sempre più fedeli. Narrare diventò un rito, dove il prodigioso e il quotidiano si fondevano. Nachman di Bratislava assicurò che, raccontando le storie dei santi chassidici, «si porta la luce del Messia del mondo». Il «Veggente» di Lublino disse di aver visto luce salire da un oratorio: quando vi penetrò, trovò dei chassidim che si narravano a vicenda la vita dei loro maestri.

Spesso il racconto, o la parabola, si concludeva con un aforisma. Secondo Scholem, rabbi Pinchas di Koretz, rabbi Naschman di Bratislava e rabbi Mendel di Kozk erano maestri di stile aforistico. Le loro impalpabili tele di ragno catturavano per un momento la verità, la trafiggevano nel riflesso sfuggente della parabola, e poi la lasciavano trascorrere via. La concentrazione della forma narrativa e la pluralità dei significati si univano, con una grazia lievemente ironica.

Un' immagine improvvisa avvicinava gli estremi: valicava i contrasti logici, fondeva gli opposti. La più paradossale cultura teologica si celava dietro la sapienza popolare. Lievi come piume, i maestri chassidici coltivavano i loro tragici giochi, arrampicandosi e oscillando sulle pagine dei libri sacri. Da una parte tendevano la mano verso i racconti d' argomento cinese di Kafka, e dall' altra verso la letteratura taoista. Non saprei se questo doppio sapore sia dovuto interamente ai maestri chassidici; o se, nella elaborazione, Martin Buber abbia spalmato un po' di colore taoista e kafkiano sul colore dei testi che aveva tanto amato.

 La Repubblica.it — 9 settembre 2008  

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