Romano Bilenchi, un
autore minore, ma importante per capire la storia, tormentata e
complessa, dell'intellettualità italiana del Novecento in cerca di
cause e capi in cui credere.
L’ultima
accusa di Romano Bilenchi. Siamo in una dittatura democratica
Intervista
di Corrado Stajano
Non conoscevo
Bilenchi e avevo sempre desiderato conoscerlo. I suoi libri mi
piacevano molto. Avevo letto ancora ragazzo Mio cugino Andrea e
poi, via via, Conservatorio di Santa Teresa , Il bottone di
Stalingrado e Amici che me l’aveva reso famigliare con quei
ritratti cosi veri di Vittorini, di Rosai, di altri. Era davver
o uno «splendido raccontatore orale» come di lui aveva
scritto Gianfranco Contini. Sempre secondo il sommo critico,
Bilenchi era «cronologicamente il primo in quel gruppo di
valenti narratori toscani che a circa vent’anni di distanza,
scevri d’ogni ornamentazione, ripresero la lezione di Tozzi».
Avevo sempre
considerato Bilenchi un maestro. Lo ammiravo per i suoi libri e
per le sue passioni mescolate, la politica, la scrittura, il
giornalismo. Quel bellissimo giornale che aveva fondato e
tenuto in piedi dal 1948 al 1956, «Il Nuovo Corriere» di
Firenze, chiuso per la cecità del gruppo dirigente del Partito
comunista, era stato una delle sue creature. Vi avevano scritto
uomini come Calamandrei, Parri, Jemolo, Salvemini, De Robertis,
Garin, Cases, Delfini, Mila, Luigi Russo, Carlo Bo, Roberto
Longhi, Fortini, Antonicelli, Tobino, Bianchi Bandinelli.
Politicamente e culturalmente era troppo avanzato per quei
tempi.
Il colpo di
grazia fu, il primo di luglio del 1956, l’articolo di
Bilenchi intitolato I morti di Poznan che si schierò dalla
parte degli operai polacchi in rivolta: «I morti di Poznan —
scrisse in quell’articolo — sono morti nostri, non vostri».
Si rivolgeva cosi agli uomini della destra di casa, ai
governanti impudichi che avevano ordinato il fuoco della
polizia contro gli operai e i contadini di Modena, di Melissa,
di Comiso, di Barletta, di Venosa, e che ora speculavano su
quei morti polacchi: «Questi morti ci incitano sempre piu a
percorrere intera la nostra strada». La strada di Bilenchi fu
accidentata. Perché antepose sempre a tutto le ragioni della
libertà, non tacque mai.
Alla fine del
1988 scrivevo sull’allora terza pagina del «Corriere della
Sera» dove ero approdato l’anno prima quando era diventato
direttore Ugo Stille. Avevo proposto una serie di articoli —
allora si usavano — Padri e maestri . Bilenchi non doveva
mancare, finalmente l’avrei conosciuto. Avevo già
intervistato Eugenio Garin a Firenze, Gianandrea Gavazzeni a
Bergamo, Carlo Dionisotti a Londra. Nel gennaio 1989 era venuta
la volta di Romano Bilenchi, nel quartiere fiorentino delle
Cure. L’articolo usci l’11 gennaio. Chiusi quella serie
andando ad ascoltare Franco Venturi a Torino e Aldo Garosci a
Roma.
Con Bilenchi
si creò subito una grande consonanza. Era come l’avevo
sempre immaginato, un uomo libero, anche se così sofferente,
ammalato di una polineuropatia diabetica molto dolorosa che
prendeva i nervi, i muscoli di tutto il corpo, le gambe e gli
impediva di camminare. Non usciva di casa da sette anni, le sue
giornate erano tremendamente uguali. La mattina si alzava
tardi, sedeva a un grande tavolo con tutti gli attrezzi — li
chiamava così — che gli servivano: i telecomandi, le scatole
delle medicine, una bottiglia d’acqua, il tabacco. Aveva alle
spalle qualche fotografia-simbolo di uomini che per lui avevano
contato: Tolstoj, con un caffetano bianco, Lenin, Gramsci e
Ottone Rosai, soldato della Grande guerra.
A Ugo Stille
piacevano da sempre i libri di Bilenchi e mi aveva pregato di
chiedergli di scrivere sul «Corriere». Quel che voleva.
Bilenchi, nel
passato, aveva scritto sul giornale di via Solferino, quattro
articoli nel 1970-71, otto articoli nel 1981 entrati nel Gelo ,
il libro dell’adolescenza.
Riuscii nel
compito che mi era stato affidato, favorito dal clima di
reciproca simpatia e dal fatto che Bilenchi avesse letto
qualcuno dei miei libri. Scriverà sul «Corriere» cinque
articoli: il 23 aprile, Un elefante di marmellata per l’amico
Linder ; il 25 maggio, Due veri Ucraini e un falso partigiano ;
il 25 giugno, E portai Maccari alle «Giubbe Rosse» ; il 25
luglio, Quando lessi la mia condanna a morte ; il 27 settembre,
Quando tornano i fantasmi dell’infanzia . Il suo mondo, come
sempre.
L’intervista durò ore, tutto il pomeriggio.
Bilenchi non smise mai di parlare, ne aveva voglia. Non era
facile capire quel che diceva; il male aveva intaccato le corde
vocali. La moglie dello scrittore, la signora Maria, che per
tutta la vita gli era stata accanto, mi aiutava con gentile
premura quando capiva che ero in difficoltà.
Ho ritrovato
gli appunti di quel giorno, li rileggo, almeno in parte, e mi
sembra di rivederlo, Bilenchi, imprigionato dietro quel tavolo,
lucido nella memoria, lieto di rinverdire ancora il passato.
«Come sta Bilenchi?»
«Male, ho
dei dolori da impazzire, da non capire più nulla. Vivo così
da 16 anni e sette mesi. Non cammino, non ci fo dieci metri.
Non esco di casa dall’inverno del 1981. Ora era il momento
che avevo smesso di fare il giornalista bischero. Adesso vo in
pensione, mi dicevo, scrivo quei 5-6 libri che devo scrivere.
Ne ho scritti due e poi mi sono bloccato».
Non era facile
riuscire a tenere un filo logico con Bilenchi. Seguitava con me
a esprimere i pensieri che da anni gli dovevano martellare la
testa, senza contraddizioni, ma senza una continuità. Il
fascismo, il comunismo, Togliatti, il tempo presente si
intersecavano tra loro con naturalezza.
«Che mondo è
quello che lei vede da qui?»
«Non mi
piace. Questa democrazia bloccata non mi va giù. Questa specie
di dittatura democratica...Lei può dir tutto e tutti se ne
fottono, c’e questa differenza col fascismo. Io vedo i
giornali oggi e mi sembrano quelli del ’36-’37. Tutti
uguali, come i giovani che vengono qui. Il Pci va giù per
tante cose, perché non ha mai preso un treno in tempo.
Bisognava che avesse coraggio. Gli uomini del partito sono
privi di qualità. Togliatti era un grand’uomo».
«Anche se lei
dopo la chiusura del “Nuovo Corriere” gli mandò una
letteraccia. Ringraziò tutti, nel suo Congedo, non il
Partito».
«Più di
una volta, anche a voce gli dissi quel che dovevo. Con
Togliatti si parlava. Era un democratico. La famosa doppiezza
non la vedo. Se dicessi che era uno stalinista sarei un porco».
«Lei è una
persona piena di umori, di attenzioni per gli altri. Togliatti
non era particolarmente simpatico».
«A me sì,
parecchio. “Sono stato fascista”, ho detto una volta, e lui
mi fece una carezza. “Tutti sono stati fascisti”. “Voi
no, quelli che erano in galera e chi era in Francia e chi in
Russia”. “Non importa”. E infatti quel suo libro di
Lezioni sul fascismo per me è di importanza grande. Col
giornale che facevo seguivo tutti i movimenti popolari al di
fuori dei partiti che dessero garanzia di antifascismo e di
democrazia perché, dicevo anche a Togliatti, da noi non ci si
fa».
«È strana
questa sua amicizia e fedeltà nei confronti di Togliatti. È
stato lui, alla fine, a dare il suo consenso alla chiusura del
“Nuovo Corriere”. Il Pci era un partito ben centralizzato».
«“Sta’
attento, mi diceva di fronte ai dirigenti del partito. Sta’
attento, difendi questo giornale perché te lo levano”. Era
stato attaccato da Pajetta, da Terracini. “Sei sulla strada
giusta, vai avanti — mi diceva —. Però corri troppo, ti
romperai la testa e io non potrò nemmeno ricucirtela perché
devo arrivare con tutti gli altri”. Il partito aveva ancora
il cuore e il cervello a Mosca».
«Lei è un
uomo strano. È stato un “fascista bolscevico” e poi un
“comunista liberale”, come si suol dire. Ha sempre
rifiutato gli anarchismi e tutto quanto è fuori dalla regola.
Ma lei è sempre stato un ribelle».
«Come no?
Sono e sono sempre stato in una gran confusione forse perché
sono attaccato minuto per minuto a quel che succede. Oggi è
cosi, domattina bisogna essere in un’altra maniera».
L’intervista andò avanti a balzelloni. Il fascismo, nel
discorrere, tornava di continuo, ossessivo, ricorrente.
«Perché lei
è sempre là col pensiero?»
«Era
partito bene in piazza San Sepolcro — repubblica,
comproprietà dell’industria, nazionalizzazione. Mussolini
garbava molto perché alla gente uno che facesse tutto per lei
andava bene. Per me fu una grande delusione vedere, negli anni
Trenta, il fascismo “rivoluzionario” finito in mano ai
pescecani. Accadde poi che con un gruppo di amici fummo
convocati a Palazzo Venezia per render conto di un manifesto
realista. In quest’occasione vidi il mito crollare. Il duce
indossava un vestito buffo. Sa quei circhi equestri di paese
col direttore vestito con una giacchetta lunga, non si capisce
se è una palandrana, un tight, i pantaloni a righe, un clown.
Mi venne il mal di stomaco, da sputargli sul muso. Era solo un
tragico buffone».
Non riuscivo a
fargli abbandonare la politica e le sue memorie. Era il 1989,
l’anno della caduta di Berlino di cui seppe negli ultimi
giorni della sua vita. Era entusiasta di Gorbaciov.
«L’aspettavo — mi disse —, la via è segnata, la via è
quella». Ma io volevo farlo uscire dalla politica, fargli
raccontare del suo scrivere, dei suoi libri. Con poco successo.
«Che cosa è
contento di aver fatto nella vita, soprattutto?», tentai.
Pervicace,
rispose cosi: «Di essermi iscritto al Pci» — era rientrato
nel Partito nel 1972. «Dei miei libri non me ne fotte molto.
Quello è un dono di Dio».
«Quali sono
state le cose importanti dell’esistenza?»
«La moglie
e la politica, la famiglia, gli amici. La mia storia di uomo
dentro la società. E poi la natura. La letteratura non è
stata la cosa più importante. Non lo concepisco, uno che
s’alza da letto e alle otto della mattina pigia la macchina
da scrivere e finisce a mezzogiorno. L’odio, uno così,
m’ammazzerei piuttosto. Ho avuto sempre lunghi periodi di
silenzio: dal ’41 al ’58 non ho scritto nulla. Scrivo solo
quando non ne posso più, quando sento che devo farlo».
«E nella testa
adesso sta rimuginando qualcosa che le piacerebbe scrivere?»
«Sì, un
romanzo d’amore. Vent’anni fa, tra Siena e Firenze,
intitolato L’innocenza di Teresa . E poi racconti, trame ne
avrei, ma non riesco neppure a dettare».
E mi guardò con
malinconia. Da quel garbuglio cavai l’intervista che uscì
sulla terza pagina del «Corriere» l’11 gennaio 1989 e fece
poi da introduzione al volumetto pubblicato da Vanni
Scheiwiller, Tre racconti , uscito per gli ottant’anni dello
scrittore.
L’Istituto
Gramsci di Firenze organizzò per quell’occasione nella sua
sede di via Giampaolo Orsini una festa convegno. Era l’11
novembre 1989, un sabato pomeriggio. Parlarono in molti nella
piccola sala. Romano doveva comparire anche lui in collegamento
video. Si seppe allora che stava male, non l’avremmo visto.
La festa di compleanno finì malinconicamente.
Ugo Stille,
Gianfranco Piazzesi e io decidemmo allora di andarlo a salutare
nella sua casa, in via Brunetto Latini. Ci aspettava immobile
dietro quella sua plancia dove aveva vissuto per tanti anni. In
quel 1989, l’avevo visto e sentito più volte, ci eravamo
anche scritti.
La visita era
un addio, ne eravamo coscienti e anche lui lo era. Ci rendemmo
conto, dalla fatica con la quale si esprimeva, che stava molto
male. Voleva parlare e le sue parole si attorcigliavano l’una
nell’altra. Che cosa voleva dirci? Qualcosa di preciso che
avremmo dovuto fare. Un invito, un monito, un moto di coraggio?
Si rivolgeva sopratutto a Misha (Stille) e a me.
Sono rimaste
nel cuore quelle parole spezzate. Romano è morto pochi giorni
dopo. Col dolore di molti perché era un uomo di passioni vere
e di affetti profondi.
Il Corriere della sera –
27 febbraio 2014
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