27 febbraio 2014

L' INFINITO DI ALBERTO GIACOMETTI



Confrontarsi con le opere di Giacometti è un'esperienza unica. Figure e volti che ci scrutano da un tempo e uno spazio che è il nostro eppure è sideralmente lontano da noi. Forme scavate, filiformi, ombre della sera di una bellezza lacerante. Se ne esce turbati.

Giuseppe Montesano

Giacometti e l’infinito lunare
Quando guardo una delle opere, anche una soltanto, di Alberto Giacometti, non sono sicuro di quello che voglio dire: in genere, provo una sensazione di riconoscimento, come per qualcosa di ritrovato che non sapevo di aver perduto o posseduto. La cosa più logica allora è suggerire a chi può farlo di andare a Villa Borghese a Roma a vedere una mostra di Giacometti scultore aperta fino a maggio, e di comprarsi il catalogo pubblicato da Skira, e poi di andare in cerca degli altri Giacometti.

Non è una mostra con tantissimi pezzi, quella di Villa Borghese, e forse è un bene: perché proprio qui comincia uno degli effetti che provoca l’opera di Giacometti in chi la contempla. Una sola opera è sufficiente a fantasticare, a restare disorientati delicatamente disorientati, a essere felici. Basta l’imperscrutabile Cubo, o una delle figure piccole e grandi che si levano filiformi nello spazio e lo occupano con la pienezza della Montagna che è venuta da Maometto: miracolosamente, e allo stesso tempo come se il miracolo si fosse fatto normale e quotidiano.

Sappiamo tutto, delle origini dell’arte di Giacometti: una vasta cultura curata con amore dal padre pittore; la visione di centinaia di libri d’arte che il padre possedeva e che il bambino e poi l’adolescente guardava; la scoperta sempre sui libri, e poi nel piccolo museo di Firenze, della grandiosa essenzialità formale degli egiziani; la passione lucida e forse un po’ segreta per Picasso, l’attraversamento mai terminato delle terre misteriose del Surrealismo.























 
L’arte di Giacometti, già solo per questo cammino complesso, è una denuncia della miseria dell’arte neo-contemporanea come si è manifestata dopo la pop-art, nel suo trucco fondamentale dell’azzerare il passato per riusarlo sotto forma di museo del Post: una volta tagliato il legame profondo con il problema della forma e delle forme, il solo che spetta all’arte, i neo-con si sono libati nel vuoto edonistico del gioco di stupire chi guarda: stupire nel senso più esteriore del termine, un senso che ha raggiunto l’acme solo oggi, nell’ora in cui i neo-con sono stati superati sul loro terreno dall’arte della pubblicità, sostituiti o asserviti.

Guardare Giacometti fa venire in controcanto tutto questo alla memoria, ma come se questo presente fosse già arcaico e defuntissimo, e i filiformi esseri e i cubi di Giacometti fossero ancora sulla strada per arrivare a noi. È così: Giacometti deve ancora arrivare alla percezione profonda.

Perché il Cubo è così espressivo come se fosse parlante e danzante? Perché le esili apparizioni di figure che si fondono mentre arrivano all’occhio diventano immense e travolgono ogni difesa imponendosi come vere e propri epifanie? Perché le sue opere surrealiste sono in trasformazione perenne, anche dopo decenni, nuove a ogni colpo d’occhio che chiedono o forse insinuano?


Perché Giacometti non cercava né lo stupore né i soggetti, non trattava né di esistenzialismo come si è detto né di altro che si possa tradurre in parole e concetti: pensava attraverso l’alterazione della forma, e l’alterazione era il gesto che ritrova l’equilibrio attraverso lo spostamento della prospettiva. Non la prospettiva geometrica, ma quella visione anticipata che la mente prepara alla visione reale e che diventa una forma del pregiudizio.

Camminino o stiano ferme, si tengano in equilibrio su un carro o siano chiuse in una scatola-prigione, si disfino in fango carnale o si illuminino come lunari presenze le sculture di Giacometti portano con sé il loro spazio, e il loro spazio è talmente palpabile e concreto da imporsi in qualsiasi condizione: e forse nelle stanze di Villa Borghese, dove tutto si direbbe stridere con la sottrazione operata da Giacometti, la sensazione di quest’aura che circonda le sue opere è ancora più evidente.

Esse cancellano tutto, non solo la figura a cui accennano o che evocano, esse cancellano la dimensione temporale: fermano il tempo, e costringono alla sosta la mente. Sono come la siepe nell’Infinito di Leopardi che costringe i sensi e i pensieri a spostarsi con un salto o un tuffo al di là, un al di là che non ha nulla di misterico, ma che risuona a lungo dentro chi ha contemplato le opere di Giacometti, come l’eco di una musica che ha toccato il corpo senza aggredirlo: ma Cubo, o Uomo che cammina sotto la pioggia, o Lotar III, o Donna in piedi, o L’uomo che vacilla, o L’oggetto nascosto, oltre a essere la siepe invalicabile sono anche «gli interminati spazi di là da quella», e i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete», e non lesinano a chi vi si abbandona lucidamente il «naufragare » dolce nel mare che Leopardi ascoltò con l’udito interiore.


E la loro presenza di fronte o dentro di noi è bizzarramente desueta e futura, perché l’opera di Giacometti regala a chi la contempla con tutti i pori della mente aperti ciò che gli smarriti nel nulla dello stupore fasullo chiedono invano ai surrogati neo-con: regala l’esperienza di ciò che davvero esiste, di ciò alla cui presenza tutto cambia, di ciò alla cui presenza umilissima si inabissano senza nemmeno troppo clamore le menzogne, gli inganni, le potenze.

Cos’è questa umile presenza? In che cosa consiste questa esperienza? Ah, ma questo è esattamente ciò che solo chi lo vive può sapere. Andate, e contemplate. È sufficiente. Tutto affiorerà come qualcosa che si è ritrovato, che forse non si è mai posseduto, che forse non è mai esistito.

l’Unità - 22 febbraio 2014

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