Confrontarsi con le opere di Giacometti è un'esperienza unica. Figure e volti che ci scrutano da un tempo e uno spazio che è il nostro eppure è sideralmente lontano da noi. Forme scavate, filiformi, ombre della sera di una bellezza lacerante. Se ne esce turbati.
Giuseppe Montesano
Giacometti e
l’infinito lunare
Quando
guardo una delle opere, anche una soltanto, di Alberto
Giacometti, non sono sicuro di quello che voglio dire: in
genere, provo una sensazione di riconoscimento, come per
qualcosa di ritrovato che non sapevo di aver perduto o
posseduto. La cosa più logica allora è suggerire a chi può
farlo di andare a Villa Borghese a Roma a vedere una mostra di
Giacometti scultore aperta fino a maggio, e di comprarsi il
catalogo pubblicato da Skira, e poi di andare in cerca degli
altri Giacometti.
Non è una mostra
con tantissimi pezzi, quella di Villa Borghese, e forse è un
bene: perché proprio qui comincia uno degli effetti che
provoca l’opera di Giacometti in chi la contempla. Una sola
opera è sufficiente a fantasticare, a restare disorientati
delicatamente disorientati, a essere felici. Basta
l’imperscrutabile Cubo, o una delle figure piccole e grandi
che si levano filiformi nello spazio e lo occupano con la
pienezza della Montagna che è venuta da Maometto:
miracolosamente, e allo stesso tempo come se il miracolo si
fosse fatto normale e quotidiano.
Sappiamo tutto,
delle origini dell’arte di Giacometti: una vasta cultura
curata con amore dal padre pittore; la visione di centinaia di
libri d’arte che il padre possedeva e che il bambino e poi
l’adolescente guardava; la scoperta sempre sui libri, e poi
nel piccolo museo di Firenze, della grandiosa essenzialità
formale degli egiziani; la passione lucida e forse un po’
segreta per Picasso, l’attraversamento mai terminato delle
terre misteriose del Surrealismo.
L’arte di
Giacometti, già solo per questo cammino complesso, è una
denuncia della miseria dell’arte neo-contemporanea come si è
manifestata dopo la pop-art, nel suo trucco fondamentale
dell’azzerare il passato per riusarlo sotto forma di museo
del Post: una volta tagliato il legame profondo con il problema
della forma e delle forme, il solo che spetta all’arte, i
neo-con si sono libati nel vuoto edonistico del gioco di
stupire chi guarda: stupire nel senso più esteriore del
termine, un senso che ha raggiunto l’acme solo oggi, nell’ora
in cui i neo-con sono stati superati sul loro terreno dall’arte
della pubblicità, sostituiti o asserviti.
Guardare
Giacometti fa venire in controcanto tutto questo alla memoria,
ma come se questo presente fosse già arcaico e defuntissimo, e
i filiformi esseri e i cubi di Giacometti fossero ancora sulla
strada per arrivare a noi. È così: Giacometti deve ancora
arrivare alla percezione profonda.
Perché Giacometti
non cercava né lo stupore né i soggetti, non trattava né di
esistenzialismo come si è detto né di altro che si possa
tradurre in parole e concetti: pensava attraverso l’alterazione
della forma, e l’alterazione era il gesto che ritrova
l’equilibrio attraverso lo spostamento della prospettiva. Non
la prospettiva geometrica, ma quella visione anticipata che la
mente prepara alla visione reale e che diventa una forma del
pregiudizio.
Camminino o stiano
ferme, si tengano in equilibrio su un carro o siano chiuse in
una scatola-prigione, si disfino in fango carnale o si
illuminino come lunari presenze le sculture di Giacometti
portano con sé il loro spazio, e il loro spazio è talmente
palpabile e concreto da imporsi in qualsiasi condizione: e
forse nelle stanze di Villa Borghese, dove tutto si direbbe
stridere con la sottrazione operata da Giacometti, la
sensazione di quest’aura che circonda le sue opere è ancora
più evidente.
Esse cancellano
tutto, non solo la figura a cui accennano o che evocano, esse
cancellano la dimensione temporale: fermano il tempo, e
costringono alla sosta la mente. Sono come la siepe
nell’Infinito di Leopardi che costringe i sensi e i pensieri
a spostarsi con un salto o un tuffo al di là, un al di là che
non ha nulla di misterico, ma che risuona a lungo dentro chi ha
contemplato le opere di Giacometti, come l’eco di una musica
che ha toccato il corpo senza aggredirlo: ma Cubo, o Uomo che
cammina sotto la pioggia, o Lotar III, o Donna in piedi, o
L’uomo che vacilla, o L’oggetto nascosto, oltre a essere la
siepe invalicabile sono anche «gli interminati spazi di là da
quella», e i «sovrumani silenzi» e la «profondissima
quiete», e non lesinano a chi vi si abbandona lucidamente il
«naufragare » dolce nel mare che Leopardi ascoltò con
l’udito interiore.
E la loro presenza
di fronte o dentro di noi è bizzarramente desueta e futura,
perché l’opera di Giacometti regala a chi la contempla con
tutti i pori della mente aperti ciò che gli smarriti nel nulla
dello stupore fasullo chiedono invano ai surrogati neo-con:
regala l’esperienza di ciò che davvero esiste, di ciò alla
cui presenza tutto cambia, di ciò alla cui presenza umilissima
si inabissano senza nemmeno troppo clamore le menzogne, gli
inganni, le potenze.
Cos’è questa
umile presenza? In che cosa consiste questa esperienza? Ah, ma
questo è esattamente ciò che solo chi lo vive può sapere.
Andate, e contemplate. È sufficiente. Tutto affiorerà come
qualcosa che si è ritrovato, che forse non si è mai
posseduto, che forse non è mai esistito.
l’Unità - 22 febbraio
2014
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