Sergio Segio
L'album di
famiglia cattolico dell'utopia rivoluzionaria (II
parte)
Ancor più
esplicita, in direzione di un'apertura di dialogo con i
Paesi comunisti, sarebbe stata la prima enciclica di Paolo
VI Ecclesiam suam , emanata il 6 agosto del 1964. In tal
senso Paolo VI può essere considerato il vero Pontefice
della svolta. Ma né quelle encicliche né i lavori del
Concilio Vaticano II furono tali da dissipare i sospetti —
da parte di quei settori del mondo cattolico che andavano
avvicinandosi alla nascente sinistra extraparlamentare —
che la Chiesa stesse scivolando a destra. Sul versante
opposto encicliche e Concilio provocavano, per reazione, una
radicalizzazione della destra cattolica, destinata ad
alimentare altrettanti sospetti di «scivolamento» nei
settori contrapposti.
Assai interessante, nello studio di Panvini, è la descrizione del contesto internazionale in cui si svolse questo complicato dibattito. Con un riferimento piuttosto esplicito alla guerra d'Algeria. Nell'oltremare francese era in atto una lotta di liberazione che nel 1962 avrebbe portato il Paese all'indipendenza. Ma che, nel frattempo, aveva prodotto, in Algeria, forme di terrorismo e di repressione particolarmente cruente. Nonché, in Francia, il colpo di Stato gollista del 1958.
Di particolare
rilievo fu a quei tempi la legittimazione teologica,
compiuta dalla Cité catholique, delle brutali pratiche
dell'esercito francese in Algeria, che costituì «uno dei
principali punti di raccordo» tra questo movimento e gli
ambienti militari più oltranzisti, decisi a mantenere il
controllo sulla colonia.
La Cité
catholique, assieme alla rivista «Verbe», era stata
fondata nel 1946 da Jean Ousset, già dirigente dell'Action
française. Il gruppo propugnava «la difesa dell'Europa
dalla minaccia del comunismo ateo che si era alleato
all'islam per abbattere l'ultimo baluardo della cristianità
occidentale in Nord Africa», di modo che le «quinte
colonne sovietiche» in Francia avessero l'occasione «di
"scattare" per prendere il potere». Secondo
Ousset, «minacciando le fondamenta dell'ordine cristiano, i
comunisti commettevano un crimine superiore a ogni altro e
per questo motivo contro di loro ogni mezzo di repressione
era lecito, compresa la tortura». Tesi che suggestionarono
fortemente il mondo cattolico francese. E che legittimarono,
come si è detto, gli ultras del colonialismo.
A farne le spese fu monsignor Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri, sostenitore della coabitazione tra francesi e algerini e, in quanto tale, oggetto di duri attacchi da parte degli estremisti che si erano dati come simbolo il Sacro cuore rosso sormontato da una croce. Interessante è la ricostruzione dell'influenza della Chiesa (o di parte di essa) sulle motivazioni ideali del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry.
Nel parlò lui
stesso nel 1963, prima di essere fucilato per aver
attentato, nell'agosto dell'anno precedente, alla vita di
Charles de Gaulle: «Noi non siamo dei sovversivi e abbiamo
agito per salvare delle vite umane innocenti, sacrificate da
un potere tirannico. San Tommaso d'Aquino ci dice che ad
essere sedizioso e ad alimentare nel popolo le discordie e
le sedizioni è il tiranno, dal momento che il regime
tirannico non è giusto e non ha come fine il bene comune:
sono perciò degni di lode coloro che liberano il popolo da
un potere tirannico. Noi pensiamo che gli eminenti
ecclesiastici che abbiamo consultato e che non ci hanno
dissuasi dalla nostra azione non abbiano fatto altro che
ricordarsi dei comandamenti divini, del principio e del
diritto di legittima difesa e della morale tradizionale
insegnata dalla Chiesa».
Finita o in via di conclusione la guerra d'Algeria, nel mondo cattolico questo genere di considerazioni continuarono ad avere una qualche eco. Non irrilevante. Come anche, però, quelle di segno opposto. Il 25 aprile del 1961, il presidente dell'Eni, ex comandante partigiano cattolico, Enrico Mattei commemorava l'anniversario della Liberazione con queste parole allusive all'azione del Fronte di liberazione algerino: «Se allarghiamo lo sguardo ad altre terre, vediamo popoli al di là dei mari che ancora oggi lottano per la libertà. Noi ci sentiamo ad essi vicini, appunto perché la nostra esperienza ci ha reso particolarmente sensibili a questo dovere di comprensione umana. Dovunque un'invasione sia tentata, dovunque piccoli tiranni o grandi potenze minaccino di soffocare la libertà umana, la nostra reazione non può essere che di condanna».
Condanna della
Francia, beninteso. Poi Mattei entrava nello specifico e
proponeva un paragone tra i «resistenti» italiani e quelli
di Algeri: «Essi sono ribelli, o amici partigiani, è vero,
come lo siamo stati noi quando fummo costretti a ribellarci
contro la ingiustizia, la prepotenza e la sopraffazione, per
la sacrosanta difesa dei diritti umani, e noi siam convinti
che quando un popolo, bianco o di colore, combatte con tutta
l'anima per la sua libertà, Dio è suo alleato». Questo,
sei mesi prima delle parole di cui si è detto, pronunciate
dal cardinale Ottaviani, di entusiastico elogio
dell'esperienza franchista in Spagna.
E sette mesi
prima che su «La Vita cattolica», un periodico della
diocesi di Cremona, si proponesse (il 28 novembre 1961), una
maliziosa comparazione tra le tattiche sperimentate dai
comunisti nella Resistenza e quelle adottate dai
guerriglieri asiatici: «Ad essi (i partigiani del Pci, ndr
) risale la responsabilità di massacri di inermi
popolazioni colpite dalla rabbia vendicativa delle SS
tedesche aizzate con ben premeditate azioni di guerra dai
rossi... Lo stesso metodo è stato attuato in Corea, in
Cina, nel Laos, nel Vietnam». Come si vede, dal mondo
cattolico venivano indicazioni tra loro fortemente
contraddittorie.
Nel 1964 il segretario nazionale di Pax Christi, René Coste, promosse un convegno sul tema della coscienza cristiana al cospetto delle «nuove tecniche della sovversione comunista». «La Civiltà Cattolica» ne scrisse una recensione entusiasta. «Per Pio IX e Leone XIII», sosteneva la rivista dei gesuiti, «l'uso della violenza per rovesciare un regime, anche se tirannico e lesivo della legge naturale e dei diritti fondamentali della persona umana, era da intendersi come proibito dalla morale; per altri, invece — a capo della schiera sta san Tommaso d'Aquino —, a certe condizioni che si possono enucleare dal caso della legittima difesa, era da ritenersi legittimo. A questa opinione diede il suo autorevole suffragio Pio XI, nella lettera all'episcopato messicano del 28 marzo 1937... Il caso particolare allora discusso può, senza dubbio, presentarsi anche al tempo presente». Con il che ad ogni evidenza si intendeva proiettare quella presa di posizione di papa Ratti sulla situazione italiana degli anni Sessanta.
Nel 1964, il responsabile del dipartimento di Agitazione e propaganda dell'Urss, Leonid Illicev, annunciò una campagna antireligiosa accompagnata dall'istituzione nelle università di cattedre di ateismo. Paolo VI, che pure — come si è detto — fu il Papa che arginò la deriva più conservatrice della Chiesa, a quel punto provò a raffreddare anche la politica del dialogo con il mondo comunista. Ma quei cattolici che si erano avviati per i sentieri dell'interlocuzione con la sinistra proseguirono spediti il loro cammino: il loro giudizio sull'Unione Sovietica, fa notare Panvini, «venne formulato in parallelo a una serrata critica della democrazia liberale, accusata di essere subalterna ai poteri economici». Una critica «così viscerale da spingerli a una fondamentale omissione... Per quanto imperfetti e contraddittori, infatti, i sistemi democratici garantivano, comunque, i diritti politici e civili ai quali di fatto venne, invece, anteposta la "libertà sostanziale" dei regimi comunisti, considerata superiore alle libertà formali presenti in Occidente».
Abbé Pierre |
Siamo a metà
degli anni Sessanta e inizia a delinearsi l'«album di
famiglia» cattolico. Assai diverso da quello comunista di
cui avrebbe parlato Rossana Rossanda. Nel senso che l'album
cristiano prendeva forma in contrasto a una supposta deriva
della Chiesa avvertibile nella confusione che caratterizzò
la transizione da Pio XII a Giovanni XXIII e,
successivamente, a Paolo VI.
Di modelli ne venivano da ogni parte del mondo. In Francia l'abbé Pierre, frate cappuccino, già cappellano nella Resistenza, fondatore della comunità Emmaus, difensore dei Tupamaros uruguayani e amico dei fondatori delle Brigate rosse, fu il primo a prendere in considerazione la via della lotta armata.
Qualcuno ha
sostenuto che sia stata, quella dell'abbé Pierre,
un'iniziativa che faceva riferimento a «centrali
internazionali della provocazione». Ma anche riguardo alla
tesi che la scuola di lingue Hyperion, riconducibile
all'entourage dell'abbé Pierre, fosse legata alla Cia o ai
servizi segreti di mezzo mondo (formulate da Giovanni
Pellegrino, Rosario Priore e Giovanni Fasanella), secondo
Panvini, si tratta «di congetture e di interpretazioni
basate su una documentazione spesso parziale e lacunosa, che
per quanto suggestive sono in gran parte da provare».
In Italia fa scalpore a metà degli anni Sessanta il sostegno offerto dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira (e da ampi settori della sinistra Dc) all'«eroica lotta dei vietcong» contro l'imperialismo statunitense. Altro personaggio di riferimento diviene padre Camilo Torres, guerrigliero dell'Esercito di liberazione colombiano caduto in combattimento nel febbraio del 1966, poco dopo aver lasciato l'abito talare ed essersi dato alla clandestinità. Nel 1966 la rivista francescana «Frères du monde» propone alla Chiesa di condannare la violenza «oppressiva» del capitalismo e di solidarizzare con quella «liberatrice» dei movimenti di guerriglia.
Camilo Torres |
Nel febbraio del
1967, prima che sia emanata l'enciclica Populorum progressio
, si tiene in Francia la XIX Settimana sociale degli
intellettuali cattolici, nel corso della quale l'arcivescovo
di Parigi Pierre Veuillot denuncia la violenza insita
nell'«ordine economico e sociale» delle democrazie, René
Rémond quella che «giunge a degradare l'altro a rango di
mezzo o di strumento in un piano che lo assorbe e lo
ingloba» e il direttore di «Esprit» Jean-Marie Domenach
punta l'indice contro la violenza «subdola, quella che si
nasconde dietro l'abitudine, l'ordine, la galanteria dei
salotti, l'anonimato degli uffici».
Un insieme così
suggestivo che nel giugno del 1967 Flaminio Piccoli (tra i
più cauti dirigenti della Dc) poté scrivere su «La
Discussione»: «Molti di noi se avessero l'occasione di
entrare in intimo contatto con il mondo latinoamericano,
sarebbero tentati di diventare guerriglieri essi stessi,
come in realtà altre persone coscienti hanno fatto... Ogni
collaborazione con le attuali classi dirigenti
latinoamericane è inutile e assume l'apparenza di colpevole
complicità; i cattolici del resto non sono nuovi alla lotta
di opposizione ai regimi dispotici, la resistenza europea
nel corso dell'ultima guerra ne è stata la prova
migliore... È vero che in questo caso manca la premessa di
un'azione bellica cui opporsi; i cattolici hanno però il
dovere di opporsi a un'aggressione sociale quasi altrettanto
violenta». E sono trascorsi appena sei anni dagli
incondizionati elogi — di cui abbiamo detto — del
cardinale Ottaviani al regime franchista.
Adesso è il
momento in cui Pedro Arrupe, preposito generale della
compagnia di Gesù, offre un'interpretazione assai ardita
della Populorum progressio (marzo 1967); sono i giorni in
cui 17 vescovi di Asia, Africa, America Latina ed Europa
orientale sottoscrivono una lettera che invoca un maggior
impegno della Chiesa per la giustizia sociale (settembre
1967); in cui si tiene una riunione di esponenti cattolici a
Santiago del Cile, nella quale si spiega come la «violenza
rivoluzionaria» sia in totale sintonia con gli insegnamenti
del Concilio Vaticano II (dicembre 1967); in cui a
Montevideo si svolge il convegno latinoamericano dal titolo
«Cristianismo y Revolución» (febbraio 1968); in cui a
Medellín, in Colonia, si ha la terza assemblea plenaria
della Conferenza episcopale latinoamericana, che dà il la
alla teologia della liberazione (27 agosto-7 settembre
1968).
In alcuni casi,
come in Brasile, frati domenicani prendono le armi. E
dall'America Latina questi concetti e queste parole d'ordine
rimbalzano rapidamente in Europa, soprattutto in Italia.
«Colpisce», scrive Panvini, «il modo repentino con cui
molti ambienti cattolici passarono dal sostegno alle
pratiche e alle teorie della non violenza, all'ammissibilità
della violenza rivoluzionaria».
Praticamente
all'epoca quasi soltanto Danilo Dolci, Carlo Cassola e i
radicali di Marco Pannella tengono il punto. L'editoriale
del settembre 1967 della rivista «Testimonianze» avanza
espliciti dubbi sui metodi della non violenza così come
erano stati pensati da Gandhi e da Martin Luther King,
definendoli «poco utili al Terzo Mondo».
Il 17 novembre
1967 inizia la grande stagione del movimento studentesco con
l'occupazione a Milano della Cattolica. A Trento, nel
febbraio del 1968, nove sacerdoti solidarizzano con gli
studenti che occupano l'università, sostenendo che «la
violenza prima e più colpevole è quella organizzata in
sistema» e che «prima della collera dei poveri viene la
sopraffazione dei ricchi».
1967. Occupazione dell'università Cattolica di Milano |
Nella stessa
città, in marzo, lo studente Paolo Sorbi interrompe la
predica di un sacerdote durante la messa e inaugura sul
sagrato del Duomo i cosiddetti «controquaresimali». A
Lecce accade qualcosa di analogo. La presenza di cattolici
nelle manifestazioni studentesche e nelle leadership del
movimento è ragguardevole. Persino i gruppi che si
richiamano a don Giussani si lasciano contagiare.
Ma non siamo
ancora alla lotta armata. Qui torna in campo la figura di
quel Corrado Corghi che abbiamo conosciuto come avversario,
nel luglio 1960, del vescovo Socche. Corghi ha agito da
agente di collegamento con gli irrequieti cattolici
dell'America Latina, è diventato amico di Régis Debray,
tra il 1967 e il '68 è uscito dalla Dc. Il Pci guarderà a
lui con cautela, il Psiup con grande apertura, Alberto
Franceschini, uno dei primi brigatisti rossi, lo indicherà
come un maestro. Corghi raccomanda ai ragazzi che si
rivolgono a lui di seguire l'«imperativo evangelico»: «Noi
cristiani siamo nati nella fede non per mediare tra i
violenti e gli oppressi, tra i fascismi di ogni tempo e i
torturati... noi siamo nati nella fede di Cristo per
assumere tutte le responsabilità che ci vengono dalla
nostra condizione di uomini di questo tempo storico... stai
con l'oppresso e difendi l'oppresso, vivi nella condizione
dell'oppresso se vuoi essere capace di lottare contro ciò
che opprime». E il brigatista Franceschini dirà di aver
raccolto questa esortazione. Anche se, scrive esplicitamente
Panvini, «sarebbe errato indicare Corghi come il grande
vecchio del terrorismo di sinistra».
Dopo la
deposizione e l'uccisione di Allende in Cile (11 settembre
1973), le compromissioni della Democrazia cristiana locale
con il colpo di Stato di Pinochet fecero riapparire nelle
menti di molti cattolici i fantasmi degli anni Sessanta. E
si moltiplicarono le giustificazioni della lotta armata. A
questo punto, scrive Panvini, «nonostante i distinguo, le
specificazioni e le sottigliezze», si ha da parte di molti,
come Giovanni Franzoni (ma non solo lui), «quasi una
legittimazione indiretta di chi ha imbracciato le armi».
Persino nei movimenti che fanno capo a don Giussani si
ritrova qualcosa di «ambivalente».
Ma questa ambivalenza, che è poi di tutto il mondo cattolico, consentirà alla Chiesa (soprattutto per un ripensamento più profondo seguito all'uccisione, nel 1980, di Vittorio Bachelet) di essere pronta ad accogliere l'onda di riflusso dal terrorismo. C'erano stati già eventi particolarmente traumatici, primo tra tutti il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Ma Panvini sceglie come data simbolica per la chiusura di questa indagine il 13 giugno del 1984, e di nuovo una chiesa, stavolta a Milano. Quel giorno un giovane consegnò al segretario del cardinal Martini, don Paolo Cortesi, tre borsoni pieni di armi provenienti dall'arsenale dei Comitati comunisti rivoluzionari. La lettera che accompagnava quegli attrezzi di morte riconosceva alla Chiesa «un ruolo esemplare per comprensione e disponibilità» e al cardinale «l'opera di riconciliazione, prima umana e sociale che politica, indicata a tutti con altrettanti inequivoci gesti». Da quel momento molti ex della lotta armata tornarono a casa, scegliendo percorsi indicati loro da sacerdoti. Ma l'interessante storia di questo ritorno di terroristi, accolti dalle braccia della madre Chiesa, è ancora tutta da scrivere.
04 Febbraio 2014
Guido Panvini
Cattolici e violenza
politica.
L'altro album di
famiglia del terrorismo italiano
Marsilio, 2014
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