Un fenomeno che tocca tutti, se solo si considera il clientelismo
diffuso degli enti locali, l'abusivismo tollerato e, a partire dalle
università e dalle Aziende Sanitarie, la pratica (corruttiva
anche questa) delle raccomandazioni nelle nomine, nelle carriere e
nei concorsi. Ma, a differenza del Corsera, non abbiamo illusioni
sulle funzioni delle cosiddette Autorithy. Servono solo a garantire
posti superpagati a figuri tipo Mastrapasqua e a rafforzare quel
groviglio burocratico-normativo che rappresenta la prima causa della
corruzione e dello strapotere del ceto politico. E comunque la cosiddetta "società civile" non è migliore: perchè non ci possono essere corrotti senza corruttori.
Gian Antonio
Stella
C’era una
volta anche l’Authority
E due. Dopo
papa Francesco, durissimo coi «devoti della dea tangente»,
anche l’Europa dice che da noi girano troppe mazzette: 60
miliardi di euro. Non c’è Paese che possa sopravvivere con
un carico simile sulla groppa e una reputazione in pezzi come
la nostra. L’Authority che ha cambiato tre nomi ma non ha né
poteri né presidente. Chiesta dall’Europa nel ‘99, si
chiamava Civit, ora Anac. Risultati? Nessuno
Il 97% dei
cittadini (21 punti più della media europea) è convinto che
la bustarella dilaghi. E Bruxelles ci chiede: che fine ha fatto
l’Authority contro la corruzione?
Il primo rapporto
della Commissione anticorruzione, diffuso ieri dal commissario
agli affari interni Cecilia Malmström, dice che certo, «in
Europa non ci sono aree non affette da corruzione. Prendiamo
atto dei progressi fatti e delle buone pratiche, ma i risultati
raggiunti sono insufficienti e questo vale per tutti gli Stati
membri». Mai accontentarsi. Ma certo le condizioni
dell’Italia, rispetto agli altri, è pesante. Basti dire che
su quei 120 miliardi di euro di corruzione stimati dalla Ue, la
metà sarebbe nostra. Di più: l’88% degli italiani (anche
qui oltre una ventina di punti sopra la media continentale)
pensa che la corruzione e le raccomandazioni siano il modo più
semplice per accedere ai servizi pubblici.
A dirla tutta,
qua e là le statistiche europee non ci strapazzano neppure
troppo, ad esempio quando dicono che «il 2% degli italiani ha
ricevuto richieste di tangenti nell’ultimo anno». Su questo,
il rapporto di «Libera», la rete di associazioni di Don Luigi
Ciotti, è più pessimista: i cittadini che si sono visti
chiedere una bustarella sarebbero sei volte di più: il 12%.
Sia come sia,
la Commissione Europea ci bacchetta. Su certe assoluzioni
dovute ai tempi biblici. Sulle leggi ad personam . Sui cavilli
di certe norme che rischiano «di dare adito ad ambiguità
nella pratica e limitare ulteriormente la discrezionalità
dell’azione penale». Sul coinvolgimento di troppi politici.
Fino alla brusca ramanzina sulla inefficacia dell’authority
delegata a combattere le mazzette. Ramanzina sacrosanta.
Per anni, dopo
il lontano accordo di Strasburgo del 1999, l’Europa ci ha
chiesto di dare vita a un organismo per la guerra alla
corruzione. Ma mai cammino è stato tanto travagliato.
Istituito nel 2003 e reso operativo nel 2004, l’«Alto
commissario per la prevenzione e il contrasto alla corruzione»
dotato di una bellissima sede e pochissimi poteri, un vero e
proprio specchietto per le allodole, restò (inutilmente) in
vita quattro anni. Risultati? Boh… Evaporato nel 2008, fu
sostituito dal Saet, il Servizio per l’anticorruzione e la
trasparenza che venne subito criticato dagli osservatori: stare
alla struttura del Dipartimento funzione pubblica non garantiva
l’indipendenza necessaria. Risultati? Boh…
Un altro anno
di «ti-tic e ti-tac» e nasceva la Civit, dal nome
interminabile (Commissione indipendente per la valutazione, la
trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche) e
dalle competenze vaghe. Risultati? Boh… Fatto sta che nel
2012, con il governo Monti, arrivava la sospirata Autorità
anticorruzione con l’obiettivo di «spostare l’asse della
lotta alla corruzione dalla repressione alla prevenzione».
Applausi corali: evviva, finalmente. Risultati? Boh…
Finché,
mesi e mesi dopo, il «Sole 24 ore», l’organo di
Confindustria, raccontando il passaggio gestito da Gianpiero
D’Alia dalla Civit all’A.n.ac. (Autorità nazionale
anticorruzione: ultima sigla del tormentone) sbuffava
giustamente per tutti gli «anni di operazioni di montaggio e
smontaggio di strutture analoghe».
La stessa
Authority, un mese fa, nel suo «Rapporto sul primo anno di
attuazione della legge 190 del 2012», sentiva il bisogno di
sgravarsi di responsabilità: «Il livello politico non ha
mostrato particolare impegno nell’attuazione della legge.
Nonostante i reiterati solleciti dell’Autorità, non tutti i
ministeri, gli enti pubblici nazionali, le Regioni, gli enti
locali hanno nominato il responsabile della prevenzione della
corruzione, che pure svolge un ruolo cruciale per l’attuazione
della normativa». Traduzione: non vogliono che lavoriamo sul
serio.
Peggio,
accusano i magistrati in trincea sul fronte della corruzione,
«non hanno nominato neppure il presidente dell’Authority
limitandosi a una prorogatio dei vertici della vecchia Secit
nominati da Brunetta, fra i quali c’è anche quell’Antonio
Martone coinvolto, a torto o a ragione, nel caso della P3. A
dimostrazione che un conto sono le chiacchiere e un altro i
fatti». Di più: le cose vanno talmente per le lunghe da fare
emergere sospetti maliziosi e cioè che «giorno dopo giorno
vengano svuotati i poteri dell’organismo sui conflitti di
interesse, i piani anticorruzione, le incompatibilità fra
amministratori e società miste o in house, magari con la scusa
di risparmiare prebende».
E non si tratta
solo di un problema morale. Ma anche economico. Nel 2012,
l’anno al quale si riferiscono i dati della Commissione
Europea, gli investimenti diretti esteri in Italia sono
crollati del 70%: da 34 a 10 miliardi di dollari in un anno. Al
punto di rappresentare per noi un misero 0,6% del Pil contro
l’1,4% della Francia (quasi il triplo) o il 2,8% (quasi il
quintuplo) del Regno Unito. «Ci sono 1.400 miliardi di dollari
che ogni anno volano sul mondo per investimenti diretti esteri
in cerca di un luogo su cui atterrare», sospirò mesi fa
Giuseppe Recchi, direttore del Comitato investitori esteri di
Confindustria: perché così pochi in Italia? Risposta: vuoi
vedere che c’entrano anche la corruzione, la burocrazia che
alla corruzione è legata, la macchinosità dei processi su
eventuali imbrogli?
In ogni caso,
spiega Pier Camillo Davigo, molto più che sull’Authority
bisognerebbe puntare sul rigido rispetto delle regole: «In
tutti i Paesi seri chi ruba va in galera. Qui invece sono
andati a smontare certi reati per introdurne altri di difficile
definizione col risultato che l’obiettivo non pare più
colpire i corrotti ma individuare in quale casella di reato
inserirli. Vogliono fare sul serio? Introducano le operazioni
sotto copertura come negli Stati Uniti. Coi test d’integrità.
Me l’ha spiegato un amico americano: ogni tanto mandiamo in
giro degli agenti in incognito a offrire mazzette. Chi le
prende lo sbattiamo dentro. E diamo una ripulita». Figuratevi
la popolarità che una cosa simile avrebbe tra la classe
politica italiana...
Il Corriere della Sera - 4
febbraio 2014
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