Nel 1928 Joseph Roth,
inviato della «Frankfurter Zeitung», visitò l'Italia fascista.
Dopo 85 anni quei reportages vengono resi disponibili al lettore
italiano in un volumetto. Ne emerge un regime che nonostante le pose
guerresche del Duce più che la tragedia (Roth nel 1926 era stato in
URSS) ricorda allo scrittore il melodramma.
Emilio Gentile
L'Italia
fascista vista da Roth
Furono
molti gli stranieri che visitarono l'Italia negli anni del
regime fascista. Fra questi vi fu Joseph Roth. Lo scrittore
austriaco, dopo aver partecipato da volontario alla Grande
guerra e aver assistito al disfacimento dell'impero
austro-ungarico, che evocò con ironica nostalgia nei suoi
romanzi, nel 1920 si trasferì a Berlino e divenne giornalista
della «Frankfurter Zeitung». Per incarico del giornale fece
numerosi viaggi all'estero. Nel 1926 fu in Russia e negli
articoli descrisse «l'imborghesimento della rivoluzione
bolscevica», cioè la trasformazione del «primo governo
rivoluzionario del proletario nella storia e nel mondo» in uno
«Stato gigantesco», con le sue ferree gerarchie, un vasta
burocrazia di funzionari «buoni, coscienziosi, mediocri
ottimisti e dogmatici», e una immensa massa popolare istruita
nel conformismo ideologico. Dopo il terrore rosso nei primi
anni della dittatura, osserva Roth, in Russia imperava «il
terrore ottuso, silenzioso, nero della burocrazia, il terrore
della penna e del calamaio»: «Passato è il tempo delle gesta
eroiche: questo è il tempo dei diligenti lavori burocratici.
Passato è il tempo delle epopee: questo è il tempo delle
statistiche» (J. Roth, Viaggio in Russia, Adelphi 2001).
Due anni dopo,
nell'autunno del 1928, per conto della «Frankfurter Zeitung»,
Roth fece un viaggio in un altro Paese dominato da un regime a
partito unico, nella «quarta Italia», come egli la chiamò,
dove da sei anni governava Mussolini. La prima cosa che lo
colpì entrando in Italia alla stazione ferroviaria, come
scrisse Roth nel suo primo articolo pubblicato il 28 ottobre,
la giornata in cui il regime fascista celebrava la «marcia su
Roma», fu un giovane milite fascista, con la camicia nera,
larghi pantaloni da cavallerizzo, gambali splendenti, e alla
cintura «una graziosa pistoletta simile più a un ornamento
che a un'arma». Il giovane esibiva un viso duro, che pareva
dire ai viaggiatori stranieri: «Guardatemi! Sono lo sguardo di
un fascista!».
Con sarcasmo,
Roth descriveva il suo stupore nel vedere ovunque la presenza
di militari, come se si fosse ancora in tempo di guerra:
«Quanto entusiasmo guerresco in queste stazioni, dove arrivano
così tanti stranieri amanti di musei, nature pacifiche e
agiate, per le quali bisognerebbe schierare piuttosto esperti
storici dell'arte!». E accanto alle uniformi notò la presenza
di «spie della polizia in borghese», riconoscibili «da una
concezione plebea dell'assenza di eleganza» per un
abbigliamento alquanto vistoso, che Roth considerava rivelatore
della loro funzione, che «non è sorveglianza, ma
intimidazione». Per questo, pur con «tutta la loro
pericolosità» le spie fascista gli apparivano infantili, come
infantili erano «i disegni primitivi che ritraggono Mussolini
in posa cesarea» diffusi ovunque, mentre «serio sembra essere
soltanto l'olio di ricino».
Il confronto
con la Russia bolscevica era per Roth inevitabile, se non altro
perché, precisava, «quotidianamente in giornali, riviste e
opuscoli il fascismo viene paragonato al bolscevismo, la
dittatura di Lenin alla dittatura di Mussolini». Egli però
riscontrava solo differenze. Per esempio, le spie russe erano
«discrete e invisibili»; il soldato della guardia rossa era
«semplice e massiccio», non «aveva il profilo da imperatore
e una pistola civettuola»; le immagini di Lenin erano
fotografie a buon mercato, che lo ritraevano con l'aspetto di
un impiegato «e una cravatta storta di pessima qualità». E
se nella Russia bolscevica aveva avuto l'impressione di essere
accolto da una «pericolosa, dura inesorabilità», nell'Italia
fascista, con i militi armati di pistolette, gli sembrò di
essere accolto «dal romanticismo trasparente di un film
poliziesco»: «Mi rifiuto di pensare che queste pistolette
possano sparare. Eppure, possono sparare», concludeva Roth,
passando dal sarcasmo all'ironia.
Sempre
oscillando fra sarcasmo e ironia, il giornalista descrisse nei
successivi articoli gli aspetti tipici dell'Italia fascista:
l'onnipresente culto del duce; le strade quotidianamente
percorse da fascisti in marcia, che esprimevano «un'esaltazione
di massa» mentre sfilavano fra curiosi silenziosi; le
manifestazioni di bambini con l'uniforme dei «Balilla»,
trasformati in «una specie di miniature militari», e allevati
nel catechismo fascista «i cui credo più importanti –
citava Roth – suonano così: "Io sono l'Italia, la tua
padrona, il tuo Dio"; "Credo nel genio di Mussolini";
"E nel nostro Santo Padre, il fascismo e nella comunione
dei martiri"; "Nella conversione degli Italiani e
nella resurrezione dell'Impero. Amen!"». Tutto ciò
dimostrava che «al sentimento nazionalistico manca il senso
del ridicolo».
Ma sarcasmo e
ironia cedevano a una serietà drammatica quando Roth parlava
del noioso conformismo della stampa italiana, costretta a
esibire un «ottimismo obbligato», e soprattutto quando
descriveva la condizione dell'italiano comune, che viveva
«nella costante paura di poter diventare sospetto» ed essere
consegnato «completamente all'arbitrio della polizia».
Il Sole 24 Ore –
2 febbraio 2014
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