Edward Said è stato uno degli ultimi intellettuali gramsciani del 900. Nella sua vita, prima ancora che nella sua opera, ha incarnato in modo originale gli ideali del pensatore sardo secondo il quale è nel dissenso che l'avventura, l'interesse, la sfida della vita intellettuale vanno cercati. E se è vero che gli mancano regole stabilite alle quali ispirarsi per sapere cosa dire o fare, è altrettanto certo che l'intellettuale che non voglia tradire la sua missione non ha né cariche da difendere, né territori da consolidare o custodire: è un esiliato e un emarginato, un dilettante che possiede la capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse, sa conquistare l'attenzione del pubblico, è pronto alla battuta e al dibattito più dei suoi avversari. E' soprattutto, autore/attore di un linguaggio che chiama le cose con il loro nome dicendo sempre la verità.
Riproponiamo questa mattina una delle sue ultime interviste pubblicata sul numero 67 di «Allegoria».
Un ricordo di Edward Said
Gayatri Cahkravorty Spivak: C’è qualcosa di stranamente appropriato nell’essere seduti qui, oggi,[1]
a New York, a ricordare Edward Said. Edward è stato un importante
newyorkese, un intellettuale profondamente coinvolto nella vita di
questa città. Per cause geopolitiche, non è riuscito a essere cittadino
di un luogo “reale” chiamato Palestina. È stato “tecnicamente” un
arabo-americano, anche se è difficile pensarlo come un americano; mentre
è normale pensarlo come un cittadino newyorkese.
La storia della sua vita è un buon
esempio per iniziare a distinguere fra città-stato (essere cittadini di
New York) e stato-nazione (essere cittadini americani). Oggi, con la
globalizzazione, gli stati stanno iniziando a perdere potere e
privilegi, mentre l’equilibrio fra nazione e città inizia ad essere
reinventato. Nella nuova società dell’informazione, alcune metropoli
stanno diventando sempre più importanti per conto proprio a differenza
di quanto accadeva nel sistema precedente, dove le identità urbane e
l’appartenenza nazionale erano sì in conflitto, ma in modo diverso.
Questo nuovo conflitto fra città e
nazione ha giocato un ruolo importante nella vita di Said. Consideriamo
l’attentato dell’11 settembre. Quello che è successo sconvolse Edward in
due modi differenti. Come abitante di New York, rimase intimamente
ferito dal successo dell’attacco terroristico. Ma in che modo vi fu
coinvolto come arabo? Edward avrebbe voluto, un giorno, poter
rivendicare un’identità nazionale palestinese. Aveva iniziato a
ragionare, anni prima, in quel preciso contesto, sull’uso politico del
terrorismo da parte dello Stato. Persone invidiose del suo coraggio lo
definirono sulla stampa “professore del terrore” e questo marchio
offensivo lo fece soffrire molto. Edward aveva uno spirito nobile e
vulnerabile.
In The Essential Terrorist, articolo che si può leggere nel volume Blaming the Victims,[2]
Said sostenne che, come parola e come concetto, il termine terrorismo
aveva ormai acquisito uno statuto d’eccezione nel discorso pubblico
americano. Si occupò delle definizioni teoriche del concetto di
terrorismo solo in quegli anni. Eppure questo lavoro è particolarmente
pertinente oggi. Molte delle sue riflessioni acquisiscono ora nuova
rilevanza e assumono sfumature inedite rispetto a quando le scrisse.
B.C.B.:
Per iniziare questa nostra conversazione ti chiederei di partire
proprio da quest’ultimo aspetto. In che modo, secondo te, i primi lavori
di Said – sull’orientalismo e sulla rappresentazione simbolica del
Medio Oriente – possono avere oggi una risonanza diversa?
G.C.S.: Prendiamo il caso di Orientalismo.
Quando uscì alla fine degli anni Settanta, il suo successo fece nascere
un nuovo interesse per la storia all’interno degli studi letterari. La
prima ondata di studi si concentrò sull’imperialismo britannico in
India. Stranamente Orientalismo non ha avuto un impatto così
forte sui lavori francesi. Per quanto Said abbia avuto un enorme
successo in Francia, la critica letteraria francese non è uscita
trasformata dall’impatto di Orientalismo, nonostante in quel libro le più importanti figure di orientalisti siano soprattutto francesi.
Orientalismo ha influenzato gli
studi sulla prima modernità britannica, il lavoro di Stephen
Greenblatt, la nascita del New Historicism. Sta per essere pubblicato un
saggio di Harold Aram Veeser su Said che chiarirà queste connessioni.[3] Per ora lasciami solo dire che le relazioni fra gli studi sull’Impero Britannico e Orientalismo furono,
in un certo senso, contro-produttive. Per almeno due ragioni. La prima è
che l’India ha conquistato la propria indipendenza da più di
cinquant’anni. La seconda è che le questioni che riguardano la politica
estera americana in Israele e la politica israeliana nei confronti della
Palestina erano periferiche nell’impostazione critico-letteraria di Orientalismo.
Nonostante Said sia, allo stesso tempo, un intellettuale politico e un
critico letterario, in un primo tempo la connessione fra questi due
ruoli non fu percepita con chiarezza. Così, la maggior parte degli
studiosi post-coloniali, tanto quelli dell’Asia meridionale quanto
quelli della prima modernità britannica, si sono mossi solo su un piano
culturale; nessuno di loro si è preoccupato, per esempio, di opporsi
alla politica estera americana nella West Bank.
Dopo questa prima ondata di studi, Orientalismo
influenzò l’approccio postcoloniale metropolitano, dove i lavori sulla
rappresentazione simbolica – come uno scrittore costruisce l’immagine
dell’altro – iniziarono ad essere connessi con gli studi etnologici e
con quelle figure di migranti metropolitani, che abbiamo imparato a
chiamare “diasporiche”. Gli iniziatori di questa tendenza disciplinare
hanno potuto impostare il loro approccio teorico a partire dai
presupposti basilari di Orientalismo.
E tuttavia solo oggi le connessioni fra
questo libro e la situazione politica dell’Asia mediorientale iniziano
ad essere chiare. Qui sta il cambiamento di percezione che l’11
settembre ha imposto. Orientalismo mostra molto bene come la
costruzione culturale della razza e la demonizzazione dell’Islam
procedano di pari passo. È per questa ragione che il libro assume oggi
un significato nuovo, perché la guerra al terrore si basa sulla
costruzione simbolica della figura del terrorista. La CNN e i quotidiani
ci mostrano ogni giorno costruzioni narrative. L’invasione dell’Iraq è
stata legittimata dalla trasformazione simbolica di uno stato moderno in
uno stato di terroristi, in uno stato moralmente disonesto; e il tutto
solo per far avanzare gli interessi geopolitici americani.
B.C.B.: Orientalismo
ragiona soprattutto sull’alterità come negatività, come costruzione
simbolica organizzata da un Altro ostile allo scopo di fortificare il
proprio Sé. Ovviamente esistono altri modi di pensare l’alterità. Nella
tradizione teorica a te più vicina, quella post-fenomenologica, autori
come Lévinas e Derrida mostrano come l’idea di alterità renda possibile
la rappresentazione dell’altro come evento positivo. In che modo,
secondo te, questo secondo aspetto può entrare oggi nel dibattito
politico?
G.C.S.: Lasciami
parlare un attimo di Said come intellettuale accademico. Said fu un
professore universitario serissimo. Ha lavorato alla Columbia University
per tutta la vita. Non ha mai preso il suo mestiere con leggerezza.
Come insegnante e come accademico, non ha mai pensato che la tradizione
post-fenomenologica fosse la strada migliore per impostare la relazione
fra politica e letteratura. Nella tradizione filosofica che tu descrivi,
il Sé emerge in relazione ad un esterno. Nel lavoro di Lévinas – per
quanto l’idea non sopravviva troppo nella traduzione inglese – lo spazio
dell’altro è un luogo di distensione. Ma questo accade perché Lévinas
utilizza moltissimi concetti diversi per descrivere l’alterità.
Ricordiamoci che esteriorità è il sottotitolo di Totalità ed infinito, il suo primo libro importante.[4]
Lévinas si chiede: possiamo essere ancora capaci di pensare l’etica
dopo la catastrofe della Seconda Guerra mondiale? Il suo lavoro indica
una possibilità: considerare il soggetto umano anzittuto per come si
forma attraverso un complicato sistema di relazioni – e uso qui la
parola della lingua comune “relazione” perché stiamo parlando di Edward
Said e non di Lévinas; relazioni, dunque, con l’esteriorità, con ciò che
porta verso l’esterno.
Mi piace pensare che quando Said ha
analizzato il modo attraverso cui l’Altro è stato costruito come un
oggetto da dominare, vale a dire come elemento che permette al Sé
imperialista di giustificare la propria missione, stesse in realtà
discutendo come questo particolare fenomeno storico si inserisca in un
ordine più vasto di problemi teorici inerenti all’idea stessa di
tassonomia, che è una forma di descrizione filosofica. Questa è la
connessione che suggerisco. Non credo che Said l’avrebbe mai fatta; il
lettore deciderà se è interessante.
Dobbiamo però ricordare che Lévinas fu un sostenitore dello stato di Israele. Mentre stava terminando Totalità ed infinito, scrisse anche articoli – poi raccolti nel volume Libertà difficile[5]
– nei quali, in modo davvero imbarazzante, si esprime contro il
pericolo delle “orde asiatiche”. Ho sostenuto altrove che, in questi
scritti, Lévinas nega ai musulmani l’eredità abramitica, li esclude
dalle religioni abramitiche. Da questo punto di vista, Lévinas è un
esempio perfetto di rappresentazione ed esclusione orientalista. Le
connessioni sono dunque complicate.
Derrida ha suggerito che il supporto
acritico di Lévinas alla politica israeliana potrebbe derivare dalla sua
incapacità di distinguere fra il significato particolare e quello
generale della nozione di “terzo”, distinzione che resta implicita nel
concetto di relazione fra due volti.[6]
Per parafrasare Derrida, c’è un silenzio in Lévinas fra il suo lavoro e
il suo impegno filosofico. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una
questione complicata. Tuttavia, l’esempio storico dell’essere resi
altri, su cui lavora Said, e l’idea di Lévinas che il Sé può emergere
solo nella relazione con un esterno, non si trovano in una opposizione
binaria. Si può pensare Said in modo tassonomico senza usare la
tassonomia di Lévinas, come è possibile utilizzare le idee di Lévinas
pensandole come un approfondimento dell’argomentazione di Said.
[1]
L’intervista è stata realizzata l’11 settembre 2004, in occasione del
terzo anniversario dell’attentato al World Trade Center di New York.
[2] E.W. Said, The Essential Terrorist, in Blaming the Victims. Spurious Scholarship and the Palestinian Question, a cura di E.W. Said e Ch. Hitchens, Verso, London-New York 1988, pp. 149-158.
[3] H.A. Veeser, Edward Said: Life, Politics, and Thought, Routledge, New York 2010.
[4] E. Lévinas, Totalité et infini: essai sur l’extériorité, M. Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980.
[5] E. Lévinas, Difficile liberté: essais sur le judaïsme [1963], Albin Michel, Paris 19944; trad. it. di S. Facioni, Difficile libertà: saggi sul giudaismo, Jaca Book, Milano 2004.
[6] J. Derrida, Adieu: à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; trad. it. di S. Petrosino, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998.
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